Molti studiosi di faccende storiche e ambientali sostengono, con parecchie motivazioni, che con l’invenzione dell’agricoltura e la nascita dei primi insediamenti stabili l’umanità sia uscita dalla condizione di componente ambientale insieme a tutto il resto, per attestarsi nella posizione parallela di soggetto molto attivo nella trasformazione anche radicale, di questo ambiente. Senza far balzi vertiginosi, dai lontani antenati che grattano un po’ la terra sperando che i misteriosi dei facciano cresce un raccolto abbondante, fino ai nostri giorni della produzione energivora e del consumismo, basta ricordare che già all’inizio il passaggio dalla pura raccolta migrante all’insediamento stabile di fatto inventa la proprietà: questo posto è mio, è un prolungamento di me stesso, grugnisce il gruppetto di post-scimmioni ammucchiando qualche pietra o bastoncino per sottolineare il concetto. Il fatto che poi l’idea di proprietà possa essere individuale o collettiva, e quanto possa eventualmente essere ampia questa collettività (la famiglia più o meno allargata, il popolo della piccola patria ecc.) si articola man mano crescono e si rafforzano i vincoli con quel luogo, prima puro indizio di natura addomesticata, e poi più chiaramente sistema dialettico città/campagna.
La rivincita del valore d’uso
Ma dobbiamo ovviamente prima o poi farlo, il famoso salto vertiginoso all’oggi, e alla civiltà dei consumi che minaccia di spazzarci via, dalle città e dal pianeta che hanno colonizzato nei circa diecimila anni dalla pensata degli insediamenti stabili. Perché il consumo fine a sé stesso, nel senso di invenzione di bisogni piuttosto artificiosi, ha portato questa idea di proprietà troppo vicina all’assurdo: non si possiede più per assicurarsi agio e sopravvivenza, ma perché il possesso è un valore a sé, anche quando non assicura quell’altro potere collaterale di decidere sulla pelle del prossimo. In termini di insediamento urbano pare del tutto esemplare il modello di sviluppo socioeconomico indotto scientificamente con la dispersione o sprawl per oltre mezzo secolo, e basato esattamente sull’incentivo al possesso individuale fino all’estremo e oltre. Come altro dar senso alle casette in proprietà, col giardinetto in proprietà, con la doppia o tripla auto in proprietà, con la stanza divertimenti e schermo cinematografico gigante in proprietà, senza contare la miriade di altre carabattole che si acquisiscono ma il cui uso effettivo si avvicina paurosamente a zero? La stessa cosa avviene con quel genere di proprietà collettiva locale che sono gli ambiti pubblici a orientamento automobilistico, sottratti all’ambiente per garantire che ogni auto in proprietà possa circolare e parcheggiare ovunque. Si potrebbe continuare all’infinito, se non fosse che quasi all’improvviso pare spuntare con le nuove generazioni quella che viene chiamata la sharing economy, ma che più propriamente è la rivincita del valore d’uso sul puro possesso.
Davvero nuovi paradigmi striscianti
Da qualche anno si accumulano, per il terrore di tanti operatori commerciali e delle loro previsioni sbagliate, gli studi sugli orientamenti al consumo delle ultime generazioni. Prima pareva una pura questione di spostamento di interesse verso i marchingegni elettronici, dalla playstation al telefonino o tablet, e si trattava semplicemente di riorganizzarsi un po’ per proseguire col business as usual, in fondo vendere elettronica di consumo invece di motofalciatrici e cestini da picnic cambiava poco. Ma poi si è iniziato a cogliere ben altro spostamento, quando gli stessi ragazzi iniziavano a fare cose davvero inusitate, per esempio a stare di più negli spazi pubblici e a farne impennare il valore (non quello economico) semplicemente relazionandosi in modo incrociato, fisicamente e attraverso la rete. Stare di più nello spazio pubblico vuol dire automaticamente stare meno in quello privato, averne meno bisogno, quindi sognarne meno il possesso. Succede prima con le automobili, che spessissimo i ragazzi non comprano più, preferendo i mezzi pubblici, o non spostarsi perché tanto si comunica e si fa pure shopping da lontano, o se proprio serve si prende una macchinina del car-sharing. Ma poi la cosa si è trasferita al feticcio della casa unifamiliare in proprietà, con i quartieri prima lasciati a metà dalla bolla immobiliare, e poi invenduti perché ci sono pochi soldi, si dice. In realtà poi i soldi si sborsano magari per affittare un monolocale in centro, sopra la piazza e i giardini pubblici, coi locali dove trovarsi raggiungibili a piedi o in bicicletta. Consumando di meno, facendo tante cose in più, in fondo impattando meno sulla natura, ripensando al senso di quegli antenati scimmioni che si erano seduti in una radura chiedendosi: che facciamo adesso? Ecco qui, una strada diversa, e tanti saluti al culto della proprietà. Resta da vedere se queste cultura per oggi solo striscianti possano trovare espressione strutturata, quello è tutto da vedere.
Un esempio: anche solo per gli aspetti contingenti ed economici, Generation Rent vuole essere una scintilla di rappresentanza politica per questo popolo in impetuosa crescita