La crisi strutturale è anche e soprattutto crisi degli investimenti, dove alle considerazioni di lunghissimo periodo legate al «declino delle opportunità di investimento» (Schumpeter), si sommano quelle relative alle specificità dei singoli paesi, qualche considerazione in merito all’edilizia residenziale come categoria di beni capitali può essere di qualche utilità. Non è affatto scontato che le case siano da considerarsi sempre e comunque beni di investimento e una semplice ricognizione bibliografica1, in aggiunta all’evidenza empirica, suggerisce che la spesa delle famiglie in abitazioni viene in definitiva compensata con contrazioni del consumo corrente2, via via maggiori col diminuire del reddito (più basso è il reddito maggiore è la contrazione della quota di consumo).
Solo una interpretazione superficiale di questo fenomeno può indurre alla conclusione che alla contrazione del consumo corrisponda una equivalente accumulazione di risparmio, vuoi in pura liquidità vuoi in quasi-moneta immobiliare (Keynes), come la letteratura economica sembrerebbe suggerire. In realtà è decisamente più probabile che il mancato consumo dovuto alla spesa in immobili e in servizi relativi si riversi nel mare magnum del «risparmio abortivo» (Keynes), configurandosi in definitiva come un caso di massiccio trasferimento di ricchezza dai consumatori ai rentiers, per di più compensato da perdite nette da parte degli imprenditori sia dal lato della domanda sia dal lato del risparmio visto come fonte degli investimenti.
«Il piccolo sporco segreto degli economisti» di cui parla Krugman, consistente nella consapevolezza che la massiccia creazione di moneta da parte delle banche centrali viene per lo più intercettata dalla finanza speculativa finendo il più delle volte con l’alimentare bolle immobiliari, andrebbe universalmente svelato con adeguati strumenti comunicativi come imperativo a salvaguardia delle lodevoli finalità sottese alle operazioni di quantitative easing. Nella specifica situazione italiana il faro andrebbe puntato sulla «mostruosa fratellanza siamese» tra sistema creditizio, finanza immobiliare e costruttori. In particolare la gestione del complesso dei crediti deteriorati non suscita la dovuta attenzione. Se da un lato il salvataggio del sistema bancario, messo in ginocchio dalla eccessiva compromissione col settore immobiliare, è da considerarsi obbligato, d’altro canto andrebbe studiata una via d’uscita alternativa al tradizionale rifinanziamento delle posizioni debitorie, quali ne siano le modalità, come invece sembra darsi per scontato, riproducendo in definitiva le stesse distorsioni che hanno portato alla crisi.
Una soluzione di carattere più generale, intesa anche come modificazione del modello di sviluppo, dovrebbe prevedere il riorientamento dell’intera attività edificatoria in funzione della domanda reale proveniente dal paese, anche riguardo all’emergere di nuovi soggetti (immigrati, giovani, ecc.) e alla complessiva trasformazione del paesaggio sociale, riguardo ai prezzi, alle tipologie abitative, alle condizioni proprietarie (cooperazione indivisa?) o d’affitto, ecc. En passant preme sottolineare che politiche di più basso profilo, del genere housing sociale, pur utili nel fronteggiare alcune emergenze, sono del tutto inadeguate come politica di transizione verso un modello economico più moderno e competitivo, configurandosi piuttosto come moltiplicatore volumetrico di operazioni immobiliari in essere (maggiori le volumetrie concesse, proporzionalmente più ampie sono le quote in social housing soggette a convenzione).
Un percorso di questa portata richiederebbe necessariamente una molteplicità di passaggi intermedi. Ne indichiamo uno, in relazione a quanto già accennato. La gestione delle sofferenze immobiliari, che riguardano una quota preponderante dell’ammontare degli NPL (non lontana dal 50%), sottolineando che una quota rilevante del credito bancario complessivo è comunque destinata al settore (qualche anno fa si parlava di 400 mld!). Nel non lontanissimo 1995 il 19% delle passività famigliari era dovuto ai mutui abitativi, ma la quota è via via cresciuta fino ad attestarsi, già attorno al 2005, su valori superiori al 40%. Da questa semplice constatazione si può comprendere come il rifinanziamento delle ipoteche e la rivalorizzazione dei crediti deteriorati si tradurrà inevitabilmente in un pesante aggravio di costi a carico delle famiglie, con ripercussioni sul reddito e sulla domanda interna.
Un’iniziativa di sicuro interesse da promuovere sarebbe l’acquisto da parte dello stato di pacchetti di NPL o direttamente di beni sottostanti, case e terreni. Sta infatti passando nel disinteresse più totale, quando non sia pubblicamente sollecitato e accompagnato da parole di ammirazione, un imponente processo di ri-valorizzazione finanziaria degli asset immobiliari, che sfocerà prevedibilmente in una bolla più grande di quella del 2007-2008, incorporandone e amplificandone le conseguenze. Che a questo processo di ri-valorizzazione corrisponda la rettifica del «modello di business» di fondi e di grandi player del Real Estate (che potrebbero addirittura riacquistare a prezzo di saldo i loro stessi debiti e relative ipoteche), che integrano il tradizionale trading immobiliare col trattamento degli NPL, dovrebbe far riflettere per quanto mostra come il settore sia capace di adeguare i propri comportamenti ai mutamenti della realtà economico-finanziaria (verrebbe da dire ai disastri che esso stesso ha provocato…), a differenza dei soggetti pubblici, stato, regioni e comuni, che faticano a entrare nell’ordine di idee che la gestione del territorio è la più imponente impresa del paese e che anche i semplici piani urbanistici, più che un insieme di progetti, sono veri e propri affari finanziari.
Un’iniziativa come quella ipotizzata richiederebbe un esame preliminare dettagliato delle sofferenze bancarie in modo tale che lo stato possa procedere eventualmente all’acquisto di quei beni davvero utilizzabili in funzione dell’obbiettivo più generale di rispondere alla domanda proveniente dalla società. Nel 2016 una soluzione in tal senso fu accennata da Romano Prodi3, che ipotizzò l’acquisto da parte dello stato di mutui ipotecari per una decina miliardi, proposta che comunque non fu ulteriormente sviluppata e che in seguito pare essere stata definitivamente abbandonata.
In linea generale inoltre va considerato che non può considerarsi particolarmente virtuosa l’economia di un paese la cui produzione complessiva, il PIL, sia eccessivamente condizionata dal settore immobiliare (Harvey). Vale un po’ quello che Keynes rilevava a proposito del ciclo ottocentesco, fortemente condizionato dal settore agricolo (ciclo di Jevons). Con la differenza non trascurabile che, mentre il ruolo delle fluttuazioni dei raccolti venne infine ridimensionato dalla rivoluzione industriale e dall’internazionalizzazione dei mercati, il ruolo del mattone come fattore caratterizzante la crescita economica pare invece crescere ai tempi nostri, soprattutto in Italia, condizionandone in negativo anche la produttività complessiva, che da un quarto di secolo è stagnante. Quanto detto in relazione alla gestione delle sofferenze bancarie, prevede necessariamente un ruolo rilevante del settore pubblico e va considerato anche come ammortizzatore economico del settore.
Queste note si potrebbero raccogliere in una considerazione di carattere sistemico riguardo ad un autentico paradosso dei tempi, particolarmente vistoso nel nostro Paese. Che l’unico settore in cui sarebbe auspicabile la pratica del just in time (applicabile con la dovuta flessibilità…) è il solo dove vengono inopinatamente accumulate «scorte di magazzino», non solo intese come manufatti, ma anche come prodotti finanziari specifici del settore (ipoteche, crediti, piani urbanistici sovradimensionati, diritti edificatori, ecc.), con ripercussioni pesanti in tutte le fasi del ciclo economico4.
NOTE
1 Keynes sostiene che l’edilizia residenziale vada considerata tra gli investimenti per l’impegno che richiede il farsi carico dell’acquisto di una casa, perché le case vengono acquistate tramite risparmio (senza riflessi significativi sul consumo corrente) e perché si considera che vengano concesse in affitto. Fisher arriva alla stessa conclusione per via diversa. Posto che è impossibile fissare una linea precisa tra beni di consumo e beni di investimento, le case andrebbero, secondo questo autore, catalogate tra gli investimenti perché il loro acquisto corrisponde all’acquisto di una rendita in cambio del detenere liquidità. Come si vede, considerazioni che si implicano a vicenda e condizioni ben lontane dalla realtà italiana.
2 Un’analisi davvero pertinente riguardo alla realtà italiana si trova nella Nota aggiuntiva alla relazione sulla situazione economica del Paese 1961 di Ugo La Malfa (in realtà suggerita da Claudio Napoleoni), dove si sostiene che parte della spesa per abitazioni sostenuta nella fase di ricostruzione andrebbe più opportunamente imputata al settore dei consumi individuali.
3 L’articolo di Prodi, Mutui e sofferenze: una proposta per aiutare banche e famiglie, si trova in Il Messaggero del 10/7/2016. Si calcolava che, con una spesa di 10 miliardi, pari alla metà del fondo salva banche, lo stato potrebbe acquistare mutui in sofferenza dando sollievo a 250.000 famiglie in difficoltà e al tempo stesso liberando le banche di crediti problematici (forse a prezzi concorrenziali rispetto a quelli corrisposti dai fondi speculativi).
4 Keynes dimostra come lo smaltimento delle scorte eccessive accumulate durante il boom fu la causa degli insuccessi iniziali che vennero imputati al New Deal che solo al compimento di quel processo fu in grado di mostrare la sua validità.