Interessarsi di cultura popolare vuol dire interessarsi anche dell’architettura corrente americana contemporanea; quella degli edifici in cui abitiamo lavoriamo e passiamo il nostro tempo. Essi non solo rappresentano una parte importante del nostro ambiente quotidiano, ma rivelano anche nelle loro forme ed evoluzioni molto sui nostri valori di riferimento, sul nostro adattarci al mondo circostante. Ecco perché lo studio dell’architettura vernacolare (distinta da quella «educata») pare sempre più riconosciuto come strumento per approfondire certi aspetti della storia sociale di un’epoca o di un popolo. Il problema è (è sempre stato): quali forme architettoniche scegliere? Sino a circa un secolo fa non c’era alcun dubbio, qualunque storico o geografo delle culture ci avrebbe detto che architettura vernacolare significava l’abitazione e le sue appendici, opere pubbliche come i ponti, fortificazioni, impianti, a volte le chiese. Erano prodotti di artigiani, membri di una società prevalentemente rurale e pre-tecnologica, che utilizzavano metodologie tradizionali e materiali disponibili localmente, per finalità molto pratiche. L’architettura popolare o vernacolare era quindi interpretata in strutture e uso di risorse naturali locali.
Ma sono cambiate molte cose dal XIX secolo. Abbiamo imparato a considerare la casa come qualcosa assai più complesso, e il panorama architettonico si è enormemente allargato. Si sono evolute innumerevoli forme che riguardano non solo la vita collettiva (dalla fabbrica al centro commerciale al distributore di benzina e via dicendo) ma anche quella privata. La casa ha subito cambiamenti radicali eliminando alcuni spazi e aggiungendone altri. Uno è quello del garage. Come va interpretato questo particolare componente – diventato quasi essenziale per qualunque alloggio – dal punto di vista del vernacolare? Lo si deve pensare dal punto di vista di chi lo costruisce artigianalmente? Ha rapporti con le funzioni economiche della casa? Dobbiamo indagarne varianti regionali, o etniche? O non occuparci affatto del garage? Oppure ancora, potremmo ridefinire l’idea stessa di architettura popolare comprendendoci anche il garage?
Il garage romantico
La parola ha una origine francese, e significava spazio per tenere delle cose. È affine all’inglese ware che noi usiamo in warehouse [deposito] e noi avremmo potuto anche escogitare un termine del tutto adeguato come warage. Ma l’abbiamo presa invece a prestito dal francese per sottolineare l’iniziale esotismo di una presumibilmente costosa cultura automobilistica. Le ricostruzioni attuali del primo automobilismo, con una spropositata concentrazione sulle gare di velocità o le officine artigianali, forse non ci danno un’immagine completa del ruolo dell’auto nel nostro paese all’inizio. Al volgere del secolo per la maggior parte dei proprietari si trattava di un giocattolo, di un divertimento, costoso, eccitante, straordinariamente elegante: luccicava di bronzi e smalti, nelle sue forme suggestive (già allora) di potenza e velocità. Per mantenere e guidare una macchina tanto complicata si usava spesso assumere uno specialista, a cui pure veniva attribuita una qualifica francese: chaffeur, letteralmente fuochista, che per la propria abilità nella guida, conoscenze meccaniche e stile, godeva di uno status particolare. In Man and Superman, Henry Straker, lo chaffeur di Tanner, è personaggio molto rispettato e oggetto di grande ammirazione da parte del suo principale. Secondo Shaw egli rappresenta il corrispettivo maschile della figura della Nuova Donna, personaggio sprezzante delle convenzioni sociali vigenti e che guarda al futuro.
Il contenitore del giocattolo e del suo chauffeur diventa dunque una cosa importante. In città il problema viene risolto con la disponibilità delle stalle per i cavalli, o di altri spazi che si rendono disponibili in affitto, a tariffe che già nei primissimi anni del secolo arrivano anche a 50 dollari al mese. Ma i proprietari di automobile che abitano il suburbio o vivono in campagna hanno a disposizione stalla o deposito del calesse. Per esigenze sanitarie in genere si tratta di un edificio isolato e a qualche distanza dall’alloggio, sul retro del lotto, una sistemazione che pare adeguata anche per l’automobile, temendo i vapori di benzina troppo vicini ai fornelli della cucina. Parte dell’edificio diventa così ciò che si chiama motor house, e l’autista abita in una stanza posta al di sopra. Si chiede ad alcuni architetti anche di progettare per i più ricchi spazi articolati, che combinano stalla, deposito per calessi, e garage; nel 1911 Frank Lloyd Wright ne propone una versione monumentale per una tenuta nella zona suburbana di Chicago. Si tratta comunque di una soluzione che si rivelerà poco efficiente. I vapori acidi delle stalle intaccano le cromature e a volte la vernice. Mantenere l’auto pulita e brillante richiede uno spazio apposito per il lavaggio, e anche i cavalli e il loro personale si sentono in qualche misura invasi. Così abbastanza in fratta si afferma il garage monouso, autonomo, edificio abbastanza autosufficiente e stilisticamente funzionale. Nel 1906, la rivista House Beautiful pubblica una rassegna degli esempi più classici: stile Coloniale, Tudor, Classico. In pochi casi se ne vedranno di altrettanto grandiosi e importanti. Al piano superiore c’è lo spazio per lo chauffeur; quello propriamente per l’automobile è ampio, ben illuminato, ottimamente organizzato, spesso dotato di pianale rotabile (a evitare la retromarcia), argano di sollevamento, buca. Un dettaglio che scompare quando l’accesso al motore verrà progettato aprendo il cofano anziché da sotto il veicolo.
Si capisce scorrendo questa breve rassegna di pubblicistica del periodo, quanto gli architetti progettisti apprezzassero la possibilità di misurarsi con obiettivi rigidamente utilitaristici per gli interni, a ospitare la bellezza ingegneristica dell’automobile e il lavoro di pulizia e manutenzione dello chauffeur; sembra per un certo periodo (non molto lungo) fiorire una Estetica dell’Era della Macchina. Ma sia materialmente che psicologicamente, alloggio e garage restano due cose separate, quest’ultimo in fondo a un vialetto piuttosto lungo dietro l’abitazione, o nascosto da un muro. Solo dopo che l’autista ha avviato il motore, controllato le candele, la tensione della cinghia di trasmissione della ventola, guardato l’olio e versato alcuni litri di carburante, idealmente parlando, l’auto diventa parte della famiglia. Davanti all’ingresso principale della casa si celebra il rituale di infilare i guanti, sistemarsi sciarpe, cappellini, coperte (mentre l’auto vibra in attesa) e finalmente salutare e andarsene. C’è anche l’abitudine – poi dimenticata ma piuttosto naturale in quell’epoca avventurosa – di darsi un po’ di arie a bordo. Molte riviste di vita in campagna ricordano ai propri lettori di mantenere un minimo di dignità sulle strade. Nel 1909, House and Garden ammonisce:
«Non mettete i piedi in mostra sulle portiere o il cruscotto, né fate penzolare gomiti e braccia dai finestrini, fumate solo uno per volta, e mai chi guida. Fischietti, campanelle, ogni genere di trombette o sirene paiono davvero fuori luogo, anche se a volte in aperta campagna può essere utile usarle. … Tra gli elementi puramente ornamentali dell’auto spicca quell’aquila dorata che sembra aver occupato in regime di monopolio lo spazio sopra il radiatore. Una ottima decorazione a patto che resti di dimensioni contenute, e anche patriottica visto che spesso comprende un nastro coi colori nazionali»
Esiste una intera per quanto effimera letteratura – fatta di romanzetti o racconti di viaggio – che narra questi primissimi tempi dell’auto e del guidare romantico. L’unico esempio sopravvissuto è forse quello de Il Vento tra i Salici.
Il garage funzionale
Cresceva contemporaneamente una cultura dell’auto molto più prosaica, e diffusa tra i ceti medi americani. Che del tutto esclusi dal mondo delle vetture giocattolo importate e degli chauffeur onniscienti, o da quello delle corse sportive, a centinaia di migliaia e poi a milioni dovevano apprendere il valore della propria automobile, elemento sempre più importante della vita quotidiana, ceto anche per il piacere personale, ma soprattutto per le commissioni e il lavoro. I primi americani a considerare l’auto in questa prospettiva sono probabilmente coltivatori e dottori delle zone di campagna, per cui il veicolo è un trasporto di emergenza. Ma non passa molto tempo prima che siano in molti altri, il cui lavoro richiede mobilità, da commessi viaggiatori e rappresentanti, manutentori e riparatori, trasportatori, a usare un’auto, a ripararsela da soli, a sperare in modelli sempre più economici ed affidabili.
Di conseguenza inizia ad affermarsi un tipo assai diverso di garage. Quello più piccolo, trasportabile o prefabbricato, poco più largo dell’auto che deve contenere, e che rappresenta per tantissimi lavoratori la risposta ovvia. Nei quartieri fitti di gran parte delle città americane lungo i vicoli di servizio sul retro degli edifici iniziano più o meno all’epoca della Prima Guerra Mondiale ad allinearsi queste piccole strutture. Le dimensioni di un lotto urbano, otto metri per trentacinque circa, impediscono la realizzazione a ridosso della casa vera e propria, e così esso viene relegato staccato sul retro. Due strisce parallele di cemento segnano il percorso sino al cordolo del marciapiede. Non molto elegante, con l’effetto di rovinare il giardino. Una superficie piuttosto piccola che non era mai stata bellissima, tra incombenti recinzioni in legno, fili per stendere i panni, bidoni della spazzatura e smaltimento cenere, la cuccia del cane, insomma una bruttura che l’avvento del garage chiude definitivamente.
Si può immaginare quell’epoca, mezzo secolo fa, dopo la prima massificazione dell’auto ma quando il garage non è stato ancora assimilato all’alloggio, come periodo di transizione tra l’idea di casa in quanto luogo di elevati obiettivi sociali, culturali, sanitari, e quella attuale sbilanciata verso il tempo del non lavoro e del divertimento. Ma non si vede alcun segnale che gli architetti o gli urbanisti avessero assimilato in pieno il senso dell’automobile familiare o i problemi che creava. Soltanto nel 1916 si inizia a discuterne nelle città come vero e proprio mezzo di trasporto. Molti benintenzionati progetti di case a prezzi accessibili vengono pubblicati negli anni ’20, alcuni ampiamente riconosciuti e premiati, ma se non mancano improbabili stanze per la servitù, restano invisibili invece sia il garage, sia uno spazio per parcheggiare l’auto da qualche parte di notte. A Radburn, in New Jersey, concepito nel 1928, si vedono i primi segnali di consapevolezza della rimessa per l’automobile in quanto accessorio essenziale dell’alloggio, ma anche in quel caso è segregata e nascosta alla vista.
Si scoprono però nella medesima epoca esempi occasionali di case suburbane piuttosto costose progettate da architetti – specie in California – in cui il garage è integrato all’alloggio. Una innovazione che inizia a diffondersi verso gli anni ’30, ma con un obiettivo che pare soprattutto estetico, di migliorare così l’effetto complessivo della composizione architettonica, masse articolate e coperture variegate. Ne è prova il fatto che molto raramente casa e garage comunicano in modo diretto. La rimessa resta funzionalmente isolata dallo spazio domestico, come se il veicolo contenuto sia poco più che una comodità occasionale, senza nulla a che spartire con la vita quotidiana. Nel 1939 un editoriale su una rivista di arredamento osserva:
«Non potete non aver notato come in tutti i nuovi progetti di case la rimessa sia “connessa” all’alloggio, quando l’architetto riesce a gestirla. Resta il fatto che questi garage, piazzati su un lato della casa, o arretrati in giardino, con quegli ingressi che sbadigliano aperti sulla via, le pareti scabre, gli angoli arrotondati da qualche cespuglio, beh sono proprio brutti».
Il garage familiare
Vent’anni più tardi, dopo la seconda guerra mondiale, il garage subisce una mutazione radicale. Non solo è pienamente integrato all’affaccio stradale nella media di tutte le case unifamiliari – al punto che la saracinesca controbilancia l’apertura dell’ingresso tipica degli anni ’50 -ma risulta anche collegato internamente all’alloggi. Una porta comodamente collocata fa accedere da e alla cucina, o a quella anticamera che i costruttori chiamano mud room, una specie di spazio di decompressione per chi torna da scuola o dal lavoro. Anche la rimessa in sé è molto cresciuta, spaziosa a sufficienza da contenere non solo due auto, ma anche un grosso frigorifero, lavatrice e asciugatrice, caldaia, banco da lavoro hobbistico; per non parlare di tutti i mobili rotti e scartati, sci, attrezzature da giardino e canne di gomma arrotolate. Detto in poche parole, il garage è spazio domestico a tutti gli effetti, parte integrante della vita di ogni giorno, della routine lavoro tempo libero. Sulla ampia striscia di cemento che lo cinge, e che spesso arriva a occupare sino a un terzo dell’affaccio, ogni giorno festivo si lava e lucida l’auto, mentre nei giorni feriali i più giovani componenti della famiglia tirano la palla nel cesto da basket. Ciò che nei paesi nordici europei è tradizionalmente simboleggiato dal nido di cicogna sul camino, per la casa americana si incarna in quello spazio per la pallacanestro: una domesticità da figli.
Come spiegare questa improvvisa trasformazione? Possiamo elencare una serie di forze esterne – che non traggono la propria origine dentro la famiglia – operanti nel periodo tra la Depressione e la fine della guerra, anche se è impossibile giudicare quali siano più importanti nel plasmare le forme della casa del ceto medio americano. A partire dal fatto che le auto crescono in lunghezza e larghezza sino a superare quelle dei vecchi garage da cortile e dei vialetti che ci arrivano. Poi l’esplosione suburbana con le casette dotate di affaccio più largo, che consente di collocarci anche la rimessa. Le famiglie comprano due, anche tre auto, il calo del trasporto pubblico significa che almeno due sono necessarie a coprire quelle distanze sempre più lunghe anche per chi non ha molti mezzi economici — almeno una per andare al lavoro e un’altra per le faccende domestiche e i figli. Diminuiscono le consegne a domicilio, con due conseguenze: l’alloggio deve diventare più autosufficiente (la lavatrice, l’asciugatrice, il grande frigorifero) e aumentano gli spostamenti per rifornirlo di tutto, depositato nel garage. Tutte queste trasformazioni o adattamenti nell’organizzazione spaziale della casa americana vedono il garage al centro. E dato che è offerto direttamente dal costruttore si può anche dire (spesso lo osserva la critica) che l’abitazione contemporanea è qualcosa di deciso dal settore edilizio, cioè nulla di autenticamente vernacolare nell’accezione corrente del termine.
Ma si tratta di un giudizio che non tiene conto di alcune trasformazioni interne, dei comportamenti di chi occupa gli spazi, o di ciò che ispirano. Viene da pensare che molte evoluzioni nei valori e obiettivi domestici siano precedenti alle modifiche dei progetti introdotte dai costruttori. Facciamo qui un solo esempio: l’avvento, verso la fine degli anni ’30, dell’idea di casa come spazio per il tempo libero e l’intrattenimento. Molto prima che la produzione di massa riconosca questa tendenza, iniziando a introdurre componenti adeguate, le famiglie americane stanno già trasformando i seminterrati (dove la caldaia a gasolio ha sostituito quella a carbone) in spazio giochi, feste, attività varie. Molto prima dell’introduzione di quelle cucine colorate in stile mediterraneo, gli americani hanno già iniziato minuziosamente a nascondere le spoglie asettiche superfici del proprio scientifico locale cottura. In realtà non esiste alcuno spazio dell’alloggio moderno americano che gli occupanti non abbiano trasformato in questo senso. Anche il cortile, una volta liberato dai fili per stendere i panni, dalla spazzatura, da quel vecchio garage obsoleto, diventa spazio per la ricreazione molto prima che i costruttori ne colgano la potenzialità e il fascino. Il caminetto per il barbecue, la piccola piscina di plastica, il tosaerba a motore, tutti precedono il concetto immobiliare di Casa Vacanze. E quel garage spazio familiare aggiunto, o per il lavoro, o per il gioco, è un’invenzione della famiglia stessa prima ancora che dei progettisti.
Il contributo delle imprese costruttrici a promuovere questa abitazione leisure-oriented è senza alcun dubbio importante, ma principalmente si tratta di un affinamento della sensibilità, del gusto, tradotto in forme commerciali. Solo molto tardi il settore delle costruzioni si accorge davvero di quel che il garage è diventato. The Practical Builder nel 1968 propone una rimessa a tre posti auto. Queste dimensioni, spiega la rivista, stanno a simboleggiare il possesso di quelle tre auto e quindi un maggior reddito familiare: che idee antiquate, e così diverse da quelle dei proprietari delle case! La rivista aggiunge addirittura (come se stesse scoprendo chissà cosa) come lo spazio in più possa essere utilizzato anche per metterci magari una barca, o coltivare degli hobby, o giocare nelle giornate di pioggia. Mentre in centinaia di quartieri queste cose già si facevano da tempo senza bisogno di alcun suggerimento, ripensando le proprie case di cui i costruttori fornivano solo le strutture.
Una cultura edilizia in ritardo di dieci anni almeno, nel capire l’importanza del garage all’inizio del secolo, e sempre più indietro nel cogliere come si trasformasse in uno spazio multifunzionale fortemente integrato a una abitazione sempre più considerata luogo di intrattenimento. Nessuna colpa particolare: nessuno ha mai preteso di far altro se non rispondere a bisogni sedimentati, anche se in effetti lo fa in modo assai imperfetto. Certamente l’operatore edilizio di massa è arrivato a una ottima definizione operativa dell’architettura per il ceto medio, risultato di un confronto tra le aspirazioni delle famiglie che ci vivono, e la realtà economica e sociale. Un conflitto che non trova soluzioni definitive, né mai le troverà. Ecco perché continua l’evoluzione delle architetture vernacolari, ed ecco perché la moderna casa americana col suo garage multifunzione ne è un esempio autentico.
da: Landscape n. XX inverno 1976 – Titolo originale: The Domestication of the Garage – Traduzione di Fabrizio Bottini
Immagini da Useful Garages: Storage, Workshops, Outdoor Living, 1956
Su The Places Journal il testo originale online preceduto da una introduzione critica di Jeffrey Kastner