Evoluzione delle specie
Le strategie commerciali sul territorio, i rapporti più o meno virtuosi che intrecciano con la società, l’ambiente e le istituzioni, sono molto sofisticati e diversificati. Il che vale naturalmente sia per il quadro europeo e italiano, sia a maggior ragione per il suburbio nordamericano, principale culla di tutte le innovazioni di questo tipo.
Qui la tendenza, come già più volte accennato, è quella a dismettere contenitori e formati obsoleti e, in linea con le generali tendenze espansive dell’insediamento a consumare sempre più territorio greenfield1, mentre le aree urbane in generale sono in crisi di ruolo e funzioni complesse. Un solo insediamento commerciale di scala regionale può avere un giro d’affari quotidiano superiore a quello di un centro città di medie dimensioni, o in alcuni casi anche di downtowns metropolitane. Sempre che ce ne sia rimasto ancora qualcuno, di centro città o cittadina, almeno inteso come la somma di residenza, negozi, attività varie che da mezzo secolo a questa parte Jane Jacobs e i sostenitori della progettazione mixed-use hanno tentato di difendere contro la schematicità dell’urbanistica municipale e degli investitori immobiliari.
Naturalmente la migrazione verso i verdi pascoli dei terreni non ancora urbanizzati non interessa solo le attività strettamente commerciali, visto che il regional mall ormai accoglie e si accoppia a cose che chiunque istintivamente classificherebbe come urbane, fino al ballo di beneficienza, all’intrattenimento sociale per anziani e bambini. Ma non si tratta, come si potrebbe anche pensare, di una controtendenza secondo cui proprio a partire dal simbolo più vistoso di suburbia si stia innescando un percorso di (per quanto curiosa e inaspettata nei modi) riurbanizzazione, almeno dal punto di vista dell’integrazione funzionale.
Il fatto è che i complessi commerciali stanno diventando sempre più vasti, prendono sempre più tempo relativo nella vita delle persone, e quasi automaticamente ne nascono forme d’uso parallele minori, comunque commerciali e mercificate, ma diverse dall’acquisto di cibo, abbigliamento, prodotti vari. La cosa più rilevante è, forse, che lo shopping mall per quanto dilatato e complesso sta cedendo rapidamente spazio e ruolo a nuovi formati, che ne replicano l’originaria competitività nell’offerta e nei prezzi, senza però nulla concedere (e questo è probabilmente uno dei loro punti di forza economica) alla “forma urbana”, a cui pur in modo artificioso il mall faceva riferimento: uno spazio urbano/pubblico interamente dedicato al consumo, complementare a quello antiurbano/privato dall’abitazione unifamiliare con giardino. Anche nel nome, il mall evoca il passeggio, mentre il nuovo formato concorrente si presenta già da subito eloquentemente alieno: big-box, la Grande Scatola. Molto grande, e molto scatola.
“I cosiddetti big-box, di soli o organizzati per gruppi, stanno per diventare dominanti nel panorama commerciale americano. Rappresentano più dell’80% di tutti i nuovi punti vendita aperti nel 1994 … Questi nuovi negozi plasmano il paesaggio, non solo quando sono attivi, ma forse di più quando sono abbandonati”2.
Per essere un po’ più precisi, il termine big-box in generale si riferisce a edifici di grosse dimensioni, di tipo e stile industriale, con vastissime superfici coperte: diecimila, ventimila e oltre metri quadrati, di capannone o poco più destinato alla vendita. Sono di solito organizzati su un solo livello, anche se la massa raggiunge e supera quella di una costruzione a tre piani, con dieci metri di spazio per organizzare internamente alte scaffalature stipate di merce. Si tratta di edifici che in città occuperebbero ben più di un isolato tipo, e che quindi anche solo per la stazza fisica (senza contare i flussi di traffico ecc.) preferiscono mediamente una collocazione in zone libere non urbanizzate, accessibili tramite la grande viabilità. E sul versante del rapporto col territorio la loro apparizione e crescita tanto per cominciare ha trovato completamente impreparati urbanisti e uffici municipali, come ben riassume una richiesta di assistenza evidenziata dalla American Planning Association, che vale la pena di riportare integralmente:
“Sono urbanista in una cittadina di medie dimensioni, nella regione occidentale degli Stati Uniti. Al momento, abbiamo due negozi di tipo big-box vuoti, e di recente ne sono stati proposti due nuovi. I nostri regolamenti devono essere rafforzati, in modo da poter conservare le caratteristiche architettoniche e di identità locali. Non vogliamo altri negozi con l’aspetto di quelli che sono stati lasciati vuoti. In più, per seguire coerentemente le linee di sviluppo futuro del nostro piano regolatore, dobbiamo delimitare le zone della città più adatte per localizzare queste grosse strutture commerciali. Abbiamo parecchie questioni a cui trovare una risposta prima di modificare la nostra ordinanza sui big-box, riscrivere le linee guida per la progettazione, sviluppare convenzioni tipo che riducano le strutture commerciali non utilizzate …:
Un negozio di tipo big box fa diminuire i valori immobiliari della zona?
Qual’è l’impatto di queste strutture sul piccolo commercio?
Come è possibile valutare l’impatto visivo dei big-box sull’area circostante?
Cosa stanno facendo altre cittadine di media dimensione per regolamentare queste strutture?
Ci sono amministrazioni che utilizzano limiti dimensionali, e questi si applicano solo ad alcune zone o all’intero territorio urbano?
Che tipi di linee guida progettuali sono state adottate dalle amministrazioni? C’è qualche città che ha sviluppato concetti innovativi, ad esempio il new urbanism?
Quali sono gli effetti sul traffico e sul rumore?
Quali garanzie ci sono per le città, che le strutture big-box lasciate vuote non lo restino per un lungo periodo di tempo?3
Queste le legittime – direi anche piuttosto sottotono – perplessità di un urbanista quando, verso la metà degli anni Novanta, la crescita e diffusione degli scatoloni iniziava a manifestare tutta la sua prorompente vitalità.
Una vitalità dai ritmi forsennati, che in un breve volgere di tempo esaurisce il ciclo economico di due contenitori, mentre altri due come funghi spingono per essere realizzati entro il medesimo territorio di riferimento. In una logica tradizionale di commercio main street questo si risolverebbe, che so, nella chiusura del panettiere ad una estremità, rimpiazzato da un negozio di abbigliamento, mentre al crocicchio si inaugura una più sofisticata boulangerie al posto della lavanderia. Come si capisce, in questo caso invece ogni volta si tende ad urbanizzare ex novo un’ampia superficie, accertato che “tipicamente i big-boxes richiedono aree di 5-7 ettari come minimo, preferendo localizzarsi lungo le arterie principali, che massimizzano accessibilità e visibilità, anche se alcuni operatori, in particolare del tipo warehouse club, hanno optato per la collocazione entro quartieri industriali e di magazzini, non considerate ottimali dagli operatori al dettaglio tradizionali”4. Il tutto, come già detto, per un ciclo di vita economica che spesso non supera i pochissimi anni, e concluso il quale è arduo trovare nuovi usi all’ingombrante contenitore, pensato per una sola e specializzatissima funzione.
Et in Arcadia, Lego
Il più noto dei marchi legati alla tipologia big-box, è senza dubbio Wal-Mart, un nome certo piuttosto incongruo rispetto alle dimensioni del fenomeno, visto che significa più o meno Il mercatino di Walton. La catena nasce negli anni Sessanta (come si vede, più o meno parallela al successo degli shopping malls) su iniziativa dei fratelli Sam e Bud Walton, negozianti di Bentonville, Arkansas, e si espande rapidamente soprattutto nel mercato suburbano e rurale, nello stato e dalla fine del decennio via via a scala nazionale e internazionale5. “Wal Mart crede nell’abbassamento del prezzo fino appena al di sopra la soglia della perdita, compensando il minor guadagno col volume delle vendite. Una politica della terra bruciata che ha funzionato splendidamente; premiata dal fallimento della concorrenza a livello locale la catena ha dato la scalata al mondo”6. La “terra bruciata” coinvolge via via il modello del mall tradizionale, il sistema commerciale main street locale, il rapporto con le città, il sindacato, le istituzioni, e infine l’ambiente e il territorio, sui cui si scaricano parte dei costi. Non a caso, uno dei temi più cari ai moltissimi critici (urbanisti e non) di Wal-Mart e in generale dei big-box è sostenere che chi fa spesa in quegli scatoloni da decine di migliaia di metri quadrati – parcheggi esclusi – a ben vedere non risparmia alcunché: semplicemente, sposta i costi sulla qualità urbana, i consumi di carburante, le relazioni sociali ecc.
Wal-Mart non è comunque il solo operatore orientato a spazi e strategie generali del tipo big-box, e nemmeno l’idea dello scatolone posato sul territorio deserto (passato, presente o futuro) riassume davvero una realtà piuttosto articolata. Con il concetto chiave big-box si raggruppano varie categorie e formati commerciali: grandi magazzini discount, category killers, outlet stores, e warehouse clubs. I grandi magazzini discount coprono superfici fra 8.000 e 13.000 metri quadri (i supercenters fino a oltre 20.000), e offrono un’ampia scelta, dai ricambi di automobili a casalinghi, mobili, abbigliamento, cosmetici. I marchi più noti sono Target, Wal-Mart e Kmart. Un punto vendita di tipo category killer occupa da 2.000 a 12.000 metri quadri, e offre prodotti e prezzi bassi in una particolare categoria. Le principali catene category killer sono Circuit City, Home Depot, Toys “R” Us. Gli outlet stores (da non confondere coi villaggi della moda) sono la branca discount dei principali grandi magazzini, come J.C. Penney, e coprono da 2.000 a 8.000 metri quadri. A questi si aggiungono i grandi factory outlets, come quelli della Nike o altri marchi noti. Warehouse club, come suggerisce il nome, è un magazzino che offre prodotti in quantità all’ingrosso, ma con una scarsa scelta. Occupa spazi relativamente grandi, da 10.000 a 17.000 metri quadrati. La stessa Wal-Mart è presente anche in questa sottocategoria di big-box con un proprio marchio, Sam’s Club.
Vista la relativa specializzazione commerciale, spesso i contenitori big-box si uniscono a formare un insediamento composito che fa riferimento allo stesso potenziale bacino di utenza, e utilizza le medesime infrastrutture di traffico. Queste aggregazioni vengono chiamate power centers, e sommano sino a 100.000 metri quadrati complessivi di superficie commerciale. L’organizzazione di un power center può essere per scatole indipendenti, strutturalmente connesse le une alle altre, o una combinazione di entrambi i tipi7.
La grande articolazione merceologica, dimensionale, organizzativa, non toglie però di mezzo la parolaccia big-box: parolaccia soprattutto perché il termine è diventato sinonimo di minaccia, socioeconomica e ambientale, per moltissime comunità e amministrazioni. Riassumendo al massimo, i rischi per una collettività locale di qualunque dimensione iniziano dalla possibile scomparsa, o riduzione ai minimi termini, del commercio a conduzione familiare e comunque legato al territorio, che non è certo in grado di competere con strategie complesse come quelle che è in grado di mettere in atto un colosso della grande distribuzione (ivi compreso, si mormora, l’operare in perdita con il preciso fine di portare alla bancarotta la concorrenza). A questo si aggiungono gli impatti sul traffico, locale e regionale, e quelli visivi del big-box, per propria natura estraneo a qualsivoglia carattere architettonico cittadino. In più, e come già detto, il ciclo di vita di questo nuovo formato sembra decisamente più breve di quello già non eterno dello shopping mall. Ovvero la desertificazione delle attività concorrenti diventa un vero e proprio vuoto commerciale quando la scatola, esaurite le sue effimere strategie, si rilocalizza altrove, lasciandosi alle spalle solo un grosso guscio, vuoto e difficilissimo da riutilizzare.
Come osserva però a questo proposito una fonte non del tutto disinteressata, opporsi ai big-boxes non ha senso, a meno che l’opposizione non sia frontale, ma tentativo di orientare lo sviluppo in senso smart growth, riconoscendo che “non si tratta di chiedersi se si debba o meno consentire la crescita, ma piuttosto riconoscere che essa è inevitabile, necessaria e positiva, se correttamente guidata”8.
E in effetti per orientare la crescita, anche accettando i big-box si tratterebbe semplicemente secondo gli operatori di seguire alcuni principi base propri della smart growth, segnatamente:
controllo locale sugli usi del suolo
integrazione di varie funzioni e opportunità di shopping
infill development, ovvero edificazione in zone già urbanizzate con aumento della densità locale
riuso delle zone industriali dismesse
una maggior cooperazione pubblico/privato
partecipazione strutturata dei cittadini alle decisioni, e più in generale
pianificazione di lungo termine che tenga conto dei bisogni della comunità
Non a caso, però, questi ottimi suggerimenti e propositi riecheggiano molto da vicino le idee dei progettisti new urbanism sui centri commerciali in disuso, zone grigie potenziali miniere d’oro, da trasformare in vivaci quartieri più o meno con le stesse tecniche9. Ovvero: ottime intenzioni, che pervicacemente sembrano scontrarsi con la concreta realtà quotidiana.
Realtà quotidiana che già nella prima fase di grande sviluppo del big-box, a metà anni Novanta, sembrava generare solidi e compatti anticorpi di opposizione assai poco dialogante, nell’opinione pubblica e nelle amministrazioni locali10.
Localismo critico
Nella primavera 1994, quando Wal-Mart ha raggiunto il miliardo di dollari di vendite e fondato la divisione internazionale, il periodico di sinistra The Nation pubblica un ironico racconto di “caso” che, tra un esilarante gioco di parole e l’altro, ricostruisce un efficace meccanismo di opposizione cittadina all’insediamento della grande scatola, ribattezzata per l’occasione con solo riferimento a uno dei suoi lati: The-Wal (il Muro).
L’interesse di questo testo va certamente oltre il caso specifico e – nel nome – vagamente evocativo di Greenfield, Massachusetts, perché fissa alcune regole base che saranno in seguito sviluppate – ovviamente con fini più orientati alla smart growth anziché alla sola opposizione – anche a livello di amministrazioni. Il presupposto, abbastanza radicale, è che la grande distribuzione non crei alcuno sviluppo, limitandosi a sottrarre risorse e mercato alle attività tradizionali, e quindi vada decisamente respinta in quanto inutile e dannosa per la città e la comunità.
Gli strumenti a disposizione dei cittadini si articolano in vari punti, che comprendono campagne di carattere informativo, una lotta di tipo più prettamente politico, comprendente sia aspetti istituzionali correnti che elettivi, e infine un ricorso attento sia ai contributi della competenza tecnico-scientifica, sia a quelli economico-sociali della business community, chiamata direttamente in causa a sostenere concretamente e coerentemente il proprio affermato ruolo di componente organica animatrice della vita urbana. L’ottimistica tesi, secondo l’autore ampiamente dimostrata dalla “vittoria” di Greenfield, è che quando le istituzioni, formali e informali, fanno il loro lavoro, anche un intruso ingombrante come la multinazionale del big-box deve quantomeno essere coerente ai propri slogans che recitano tra l’altro “Abbiamo così tante occasioni di costruire in città che desiderano un Wal-Mart, che sarebbe sciocco insistere nel farli dove non ci vogliono”11. Nel caso specifico, il meccanismo istituzionale utilizzato è la variante di piano regolatore necessaria per cambiare la destinazione d’uso da industriale a commerciale, e al tempo stesso consentire edifici di superficie superiore ai 2.000 metri quadrati. Wal-Mart presenta la richiesta, il consiglio municipale vota a favore, ma la cosa è ovviamente pubblica, e lo statuto cittadino consente di sottoporre la delibera a referendum. Il resto è il dispiegamento delle risorse e strumenti riassunti sopra, a dimostrare che “quando la comunità si organizza per tempo, porta il caso davanti a tutta l’opinione pubblica, e suona le sue trombe, allora cadono anche le Mura di Gerico”12.
Più orientati ai meccanismi della libera concorrenza (che comunque i big-box intaccherebbero) i contemporanei consigli di un economista, che parte da un vasto campione di casi esaminati. Secondo lo specifico punto di vista economico/territoriale, l’iniziativa chiave di un’opposizione costruttiva sarebbe in questo caso totalmente nelle mani dei commercianti locali, anche se questo ovviamente non esclude e anzi rafforza il meccanismo dell’azione comunitaria integrale, all’interno della quale sarebbe anzi amplificato il ruolo della business community.
La battaglia si gioca individuando altri punti di debolezza del gigante, oltre al suo essere alieno rispetto al territorio:
il ventaglio dell’offerta di alcuni prodotti
gli orari di apertura al pubblico
la migliore personalizzazione dell’assistenza ai clienti
le consegne a domicilio, e infine
una campagna informativa sui prezzi, che spesso dietro la cortina fumogena della categoria discount non sono affatto inferiori a quelli praticati dai negozi locali13.
Certo tutto questo non tocca la questione del rapporto locale/globale. A partire dalla sua prima declinazione: i limiti di efficacia di un’azione da parte della comunità sono quelli amministrativi dell’ente locale corrispondente o dell’associazione di categoria. Al contrario l’azione della grande impresa si sviluppa a tutto campo, e anche solo un singolo punto big-box agisce su bacini territoriali di scala almeno intercomunale.
Sta di fatto che la competizione col nuovo formato cannibale diventa, per tutti gli anni Novanta e fino ad ora, una delle specifiche attività promosse dalle associazioni di dettaglianti e dalle camere di commercio. A quanto pare l’unica ricetta funzionante per la sopravvivenza della specie sembra quella di trovarsi una specifica nicchia, di diventare complementari, anziché alternativi, a Wal-Mart e compagni. Il destino in linea di massima, a parere dei commercianti, sembra segnato: “Ogni città è destinata ad avere un supercenter … come faremo a restare aperti?”14.
Inutile forse aggiungere che questo aspetto della questione – che spesso viene letto isolatamente, se non come semplice battaglia corporativa e di retroguardia condotta da avidi bottegai – assume diverso valore se sommato sia alle più radicali battaglie comunitarie locali, sia al blando appello degli interessati a pensare positivo, e a orientarsi ad un approccio smart growth conseguente, rilanciando anziché chiudersi. Perché l’invito dell’economista ai commercianti ad ampliare la gamma dei prodotti, servizi, opportunità, a ben vedere prefigura un’immagine urbana più simile a quella descritta e auspicata a suo tempo da Jane Jacobs.
A sua volta questa comunità più coesa e integrata non avrebbe particolari problemi a investire risorse, anche economiche, prima nella “resistenza all’invasore” e poi per attrezzarsi in vario modo a metabolizzarlo. Del resto, come riconosciuto anche dai critici più severi del modello di sviluppo suburbano ad alto consumo di suolo “un futuro più sostenibile avrà bisogno di approcci diversi … alcuni da parte dei governi locali; altri da operatori illuminati del settore privato, quando costruttori e imprese capiranno che pratiche e localizzazioni di tipo smart growth sono nel loro interesse; molto sarà fatto dai consumatori, che cercheranno di migliorare le loro condizioni”15.
Resta naturalmente il fatto che l’opposizione anche radicale ai nuovi formati commerciali è cosa sia perfettamente fisiologica, sia perfettamente inserita in un possibile metodo per affrontare in positivo la questione. È infatti da questi stimoli continui che da un lato si rafforza ed evolve la citata consapevolezza di ruolo sociale complesso “jacobsiano” della categoria dei commercianti locali, dall’altro si definiscono nuove forme di regolazione territoriale da parte delle amministrazioni interessate, e dei loro coordinamenti orizzontali e verticali.
Obiettivo generale di qualunque forma di approccio critico, più o meno radicale, a questa forma estrema (per ora) di modello commerciale, è scongiurare o migliorare un tipo di insediamento dove:
Dominano le forme a “baccello” isolato monofunzionale, vuoi dedicato esclusivamente al commercio, o alle attività produttive, o amministrative, o alla sola residenza segregata. Funzioni impermeabili e inaccessibili l’una dall’altra, eccetto utilizzando l’automobile. Alla segregazione funzionale se ne aggiunge un’altra, di tipo qualitativo/socioeconomico, che sinora caratterizza soprattutto la residenza, ma che potrebbe estendersi ad altri usi (commercio per la sola upper class, ecc.)
Le uniche entità attive nell’organizzazione fisica del territorio sono i bacini di attrazione commerciale, definiti semplicemente dalle distanze percorribili in automobile e dalle strategie degli operatori.
La rete delle comunicazioni stradali via via si appiattisce su questo tipo di organizzazione del territorio, con sistemi interni ai “baccelli” dove domina il cul-de-sac, e il traffico di attraversamento quando esiste è privato di qualunque funzione sociale e di complessità modale, salvo ovviamente il passaggio dai parcheggi (che dominano lo spazio collettivo) agli edifici.
Gli stessi edifici tendono a non formare alcun effetto spaziale urbano, di immagine e/ socializzante, indifferenti l’uno all’altro, ruotati entro il lotto, e ampiamente arretrati dal filo stradale. Gli stessi edifici civili in questo contesto perdono parte della loro specificità visiva e simbolica di elemento identitario16.
Pieni e vuoti
Oltre agli effetti sulla comunità, la sua coesione, le attività a radicamento locale, esiste anche ovvio ed evidente il problema ambientale posto dalla semplice dimensione edilizia dei contenitori big-box, dai relativi flussi di traffico generati, dagli adeguamenti infrastrutturali eventualmente necessari, dal rapporto necessariamente conflittuale con gli aspetti visivi di una qualunque città o cittadina. Impatti ambientali territoriali ed energetici che moltissime comunità interessate dal fenomeno hanno sperimentato come variamente ma pesantemente influenti sul “carattere locale”.
Una superficie commerciale di circa 10.000 metri quadrati può generare fino a quasi mille viaggi in automobile ogni ora, poco meno di diecimila in un giorno. Questo è un calcolo che vale nel caso del commercio tradizionale, inteso anche come supermarket, o shopping malls. A parità di superficie gli edifici dei negozi big-box generano molti più viaggi, soprattutto per quanto riguarda quelli dei camion per i rifornimenti, a causa dei più alti volumi di vendite e turn-over merceologico. Ad esempio una struttura commerciale per il bricolage e di articoli per la casa può generare fino a 35 viaggi di camion con rimorchio in un solo giorno17.
Per quanto riguarda le infrastrutture, anche oltre il problema stradale si deve considerare che la sola dimensione della maggior parte dei negozi big-box aumenta di molto la quantità di servizi idrici e fognari, rendendo a volte necessari adeguamenti della rete che si ripercuotono ovviamente sulla finanza locale.
Un edificio big-box isolato, o in gruppo con altri a formare un power center che fa riferimento ad un medesimo bacino di utenza, è quasi sempre progettato per un accesso esclusivamente automobilistico, escludendo totalmente chi si avvicina a piedi, in bicicletta o con altri mezzi diversi dall’auto (in questo, dimensioni a parte, non è diverso da uno shopping mall tipo). All’accessibilità esclusivamente automobilistica si aggiunge il fatto che gli operatori prediligono lotti adiacenti a due strade di grande comunicazione, aumentando l’isolamento rispetto al resto del territorio, congestionando il traffico a causa della sovrapposizione a quello di attraversamento, incrementando ulteriormente il pericolo per gli spostamenti pedonali18. Naturalmente si tratta di sole indicazioni generali, che però riassumono un insieme di casi concreti, specie dove non esistono o non si sono sviluppate sufficientemente politiche e regole per assicurare una più efficiente localizzazione e realizzazione di grandi strutture commerciali tipo big-box.
Ma gli effetti indesiderati dei nuovi giganti, come già detto, non si esauriscono con il loro ciclo di vita, anzi. Uno dei problemi maggiori è quello dei gusci vuoti, il che sembra avvenire piuttosto rapidamente e piuttosto invariabilmente: vuoi per una tendenza simile a quella degli shopping malls, ad aumentare le dimensioni e trovare di conseguenza nuove localizzazioni più decentrate, vuoi per il relativo successo di alcune politiche tese a rivitalizzare i centri urbani e le relative forme commerciali, che fa venir meno i presupposti del big-box, vuoi infine per altri fattori, non ultimo quello del commercio online, che cambia necessariamente le strategie complessive della grande distribuzione.
I primi a “morire” in queste battaglie commerciali sono i contenitori delle catene minori, tolti dal mercato dall’aggressiva vicinanza di un omologo più grande e organizzato, nello stesso modo in cui nel recente passato avevano levato di torno il commercio locale. Così questi grandi spazi, da 2.000 a 10.000 metri quadrati e oltre di superficie commerciale, diventano un vero e proprio incubo per la proprietà, che fatica molto, e spesso senza risultati per trovare un altro inquilino che possa adattarsi ad una simile struttura.
Quando possibile il grande, unico spazio, viene frazionato in unità minori, ma non sempre la cosa è fattibile, e comunque si tratta di operazioni costose, e che spesso non garantiscono una vera soluzione del problema, visto che i nuovi inquilini non accettano contratti di lunga durata19. Solo per fare un piccolo esempio quantitativo dell’entità del fenomeno, un’estesa analisi sugli spazi commerciali dell’area metropolitana di Kansas City, condotta per conto di operatori immobiliari, ha rilevato alla fine degli anni Novanta che più della metà delle superfici non utilizzate apparteneva alla tipologia big-box, e in particolare a soli 26 contenitori, per un totale di 150.000 metri quadrati20.
Ma non sono solo i piccoli operatori, né i proprietari e affittuari, ad avere problemi per i grandi gusci vuoti. La cosa riguarda anche le grandi catene, e soprattutto e ovviamente le comunità, dove i vuoti si traducono facilmente in problemi ambientali, sociali, di degrado. Alla fine degli anni Novanta il fenomeno ha cominciato a rendersi visibile nella sua regolarità e a quanto pare inevitabilità, con il gigante Kmart a chiudere 300 negozi, e altre catene minori come Montgomery Ward, Service Merchandise, Caldor a dichiarare fallimento. Il caso delle centinaia di big-box vuoti, in varie collocazioni periurbane o suburbane, stand-alone o inseriti in qualche insediamento più complesso, si è affermato come normalità anziché eccezione.
Resta da verificare se, come, e con quali ritmi si assesterà un fisiologico processo di riuso, oppure se una quota consistente di questi contenitori dismessi sia destinata ad andare fisicamente in rovina, estendendo ovviamente il degrado all’ambiente circostante, commerciale e non. Secondo alcuni studiosi, quella degli spazi commerciali vacanti e del relativi problemi è una questione di fondo, e presto il fenomeno dei big-box si rivelerà una brevissima e anomala parentesi dal punto di vista economico, mente gli effetti ambientali della dismissione si faranno sentire per un periodo molto lungo.
Una delle questioni non sempre messe in rilievo è il rapido degrado edilizio a cui sono sottoposte le strutture e accessori (es. spazi a parcheggio) non utilizzati, e quindi non regolarmente controllati e sottoposti a manutenzione. Anche il riuso a tutti i costi può generare più problemi di quanti non ne risolva, perché si insediano attività di livello inferiore a quelle commerciali precedenti, se non decisamente marginali, come depositi o grossi mercati delle pulci, che trovano occasione di una sede fissa e coperta, ma tendono a degradare la zona. L’unica vera e propria forma di “riuso” valido e duraturo sembra essere quella spesso proposta, a volte anche praticata, dalla cultura new urbanism, ovvero di operare una radicale ristrutturazione edilizia e urbanistica dell’intera area all’insegna di un uso misto dello spazio, a formare un quartiere residenziale, commerciale, con attività amministrative, per il tempo libero, spazi aperti, una buona accessibilità pedonale e ciclabile. Insomma l’esatto opposto di quanto c’era prima, il che ovviamente è molto più facile a dirsi che a farsi, soprattutto perché non sempre è agevole riciclare greyfields into goldfields specie in localizzazioni sfavorevoli. Un esempio riuscito di questo tipo è lo strip mall di Mountain View, California, trasformato in quartiere misto su progetto dello studio Calthorpe & Associates di Berkeley, ma si tratta di una eccezione in un panorama generale assai meno roseo21.
Un’altra forma di riuso possibile dei grandi contenitori big-box è quella per scuole, o strutture assimilate. Sono state portate avanti con relativo successo iniziative di questo genere, da scuole private, riconvertendo edifici di varia dimensione e organizzazione, anche se la cosa ha creato problemi (e costi) non di poco conto per adattare spazi da discount o da supermarket ad un uso del tutto differente, con ambienti separati come ovviamente devono essere le classi, e requisiti di tipo igienico più sofisticati come l’illuminazione naturale, o il riscaldamento, o i servizi. I vantaggi di una scuola o struttura assimilata, rispetto ad usi poveri come quelli di un deposito o mercatino al coperto, sono evidenti se il contenitore è inserito o vicino ad altri immobili, residenziali o non, dato che non rappresenta elemento di degrado, e impedisce la caduta dei valori immobiliari altrimenti inevitabile. Si tratta comunque di un ripiego, per la proprietà e le amministrazioni, perché secondo gli analisti immobiliari un contesto di tipo commerciale ha senso solo ad uso, appunto, commerciale, senza il quale il degrado è inevitabile, e al massimo si può renderlo meno traumatico.
L’unico davvero ottimista sembra essere lo storico dell’architettura Richard Longstreth, che forse dall’alto di un secolo di storia del settore e delle sue tipologie insediative, ritiene che anche la crisi del contenitore big-box sia cosa passeggera. Tutto tornerà vitale come prima: “Il commercio di grandi dimensioni non finirà. Anche durante la Depressione, ci fu una crescita delle grandi catene [e crisi di altri] Le strade di grande comunicazione dove stanno questi negozi si rinnovano continuamente. È solo parte del mondo fluttuante del commercio”22. Certo dal punto di vista storico Longstreth può anche avere ragione, ma gli anni Trenta citati sono anche quelli della grande crisi economica, e le immagini che vengono in mente sono i fotogrammi di Furore! coi migranti disoccupati in fila sulle highways. Niente del genere, naturalmente, attorno ai big-box vuoti, ma le comunità interessate sembrano avere idee abbastanza differenti, su questo “mondo fluttuante del commercio”.
Molte comunità stanno tentando un approccio diverso, e tanto per cominciare varie amministrazioni hanno di fatto bandito i negozi big-box modificando le regole di zoning in modo da prevenire la costruzione di punti vendita oltre una certa dimensione. Altre hanno escluso insediamenti commerciali su aree inedificate, richiedendo invece che i nuovi negozi si collochino nei distretti esistenti del centro e dei quartieri residenziali. Alcune hanno dedicato risorse economiche al sostegno del commercio nelle aree centrali, o stanno a volte iniziando a scoprire i vantaggi di lavorare insieme alle amministrazioni confinanti per costruire una visione condivisa di sviluppo. Secondo lo studio di due urbanisti questo movimento sta assumendo caratteristiche nazionali con l’istituzione della America Independent Business Alliance, che “creerà una contro-forza politica rispetto alle lobbies dei grandi gruppi che promuovono molti dei dannosi sussidi che producono sprawl e proliferazione delle grandi catene”23. Lo farà puntando sulle forze e caratteristiche del commercio locale, ovvero il suo radicamento sul territorio e il ruolo di servizio che va oltre la fornitura di merci, come invece accade per le grandi catene e in particolare i big-boxes.
Conflitti con le comunità e soluzioni istituzionali
La qualità della tua vita vale più di un paio di mutande a poco prezzo24
Le vicende dei conflitti fra la modernizzazione commerciale e le comunità locali sono in primo luogo storie di piccole persone (da entrambe le parti in causa) travolte da cose molto più grandi di loro.
Capita però che i soggetti possano anche essere diversi, ma uguale lo svolgersi delle vicende. Come nella lontanissima ma globalizzata Nuova Zelanda, dove all’insediamento big-box si oppongono in due casi molto simili la proprietà di uno shopping mall tradizionale, e un’autorità portuale. Nel caso del centro commerciale le motivazioni sono abbastanza ovvie, ma è curiosa la formulazione del ricorso contro la variante al piano regolatore necessaria al big-box, che non solo andrebbe di fatto contro gli interessi economici del commercio urbano, ma ne stravolgerebbe anche le forme fisiche “tradizionali”, di cui invece il mall sarebbe parte integrante, e di conseguenza “ha un significativo interesse nel mantenere l’integrità del distretto commerciale interno”25. Nel caso dell’autorità portuale le motivazioni sono più complesse, e di fatto si avvicinano (e confermano in linea generale) a quelle tipiche dell’opposizione locale: il grande contenitore commerciale si collocherebbe su un’importante arteria d’accesso alla città, diminuendone a proprio vantaggio l’utilità generale; il sistema locale degli affari, del commercio, delle attività produttive ne risentirebbe, insieme alla vitalità dell’area. Naturalmente in questo come in altri casi la questione focale è un po’ meno nobile, ma la cosa che conta sono le argomentazioni, e il fatto che vengano accolte dall’autorità competente in sede di ricorso alla variante di piano26.
Particolarmente toccante, già a partire dal nome Journey’s End (fine del viaggio) la vicenda di un’area di Santa Rosa, California, destinata a parco per mobile homes, che servivano da economica abitazione per una piccola comunità, prevalentemente di anziani pensionati con redditi modesti. Nell’estate del 1995 i duecento residenti circa iniziano ad essere informati di una richiesta di variante al piano regolatore, per la realizzazione di un big-box della catena Home Depot da 15.000 metri quadrati, con relativo sgombero e rilocalizzazione “entro nuove condizioni abitative”27. Contro questa specie di deportazione soft, si attiva il volontariato locale attraverso una petizione, una raccolta di oltre 6000 firme in un mese, solleciti e manifestazioni al Consiglio comunale. La decisione del consiglio comunale è favorevole al mantenimento dei circa 8 ettari a Mobile Home Park, considerando che questo tipo di insediamento residenziale non solo svolge una specifica e identificabile funzione sociale, ma fa a tutti gli effetti parte delle caratteristiche locali. Del resto basta scorrere la versione emendata 2004 dell’ordinanza cittadina di zoning, per verificare come questo tipo di aree sia normato nel quadro dei quartieri residenziali: criteri di localizzazione rispetto alla viabilità, densità media del distretto, disponibilità di servizi anche scolastici e commerciali; arretramenti rispetto al fronte strada delle abitazioni singole e in gruppi, distanze reciproche, quantità e qualità delle aree verdi. In altre parole, in tutto e per tutto un quartiere residenziale, forse anomalo per quanto riguarda il rapporto fra terreno e “immobili”, ma non per questo meno degno di essere parte importante e integrante della città28. A parte la questione specifica, sembra però che l’opposizione locale (e le regole di governo del territorio) a un negozio di Home Depot con caratteristiche big-box sia assoluta, visto che in altri due casi e zone della città le richieste del grande distributore sono state bocciate.
Una vicenda più direttamente ed esplicitamente legata alle prescrizioni della pianificazione socioeconomica territoriale è quella di Yarmouth, Massachusetts, dove tra l’altro le regole che tentano di adattare i requisiti della grande scatola a quelli del luogo (e di fatto ne impediscono l’insediamento, viste le politiche tipo dell’impresa) sono di carattere sovracomunale. Fra il 1995 e il 1997 la Home Depot ha tentato di acquisire un ex grande deposito a uso industriale, per riconvertirlo a proprio negozio. Il management di impresa alla fine ha desistito dichiarando ufficialmente che non sia era raggiunto un accordo con i proprietari degli immobili interessati, ma i comitati locali suggeriscono che il vero motivo sia stato un altro, e cioè il rifiuto di presentare la documentazione di impatto economico esplicitamente richiesta dalla regional policy, che recitano a questo proposito: “Il nostro obiettivo è quello di incoraggiare le attività economiche che sono compatibili con le caratteristiche ambientali, culturali, e le potenzialità economiche di Cape Cod, per assicurare uno sviluppo equilibrato. Standards minimi richiesti: … i richiedenti devono sotto propria responsabilità fornire dati di tipo economico. La Commissione valuterà gli impatti economici degli insediamenti proposti, tenendo conto della creazione netta di posti di lavoro … dei bisogni residenziali, dei prodotti e servizi offerti. …. Nella zona di Cape Cod le caratteristiche delle nuove attività o di quelle che si espandono sono determinate dalle forze del libero mercato, posto che siano adeguatamente rispettati gli standards ambientali e urbanistici fissati dal piano regionale”29.
Evidentemente gli impatti di un grande magazzino Home Depot sarebbero stati – come certamente sapevano i responsabili – incompatibili con la miscela di elementi ambientali e socioeconomici di un’area paesisticamente e turisticamente rilevante (siamo giusto di fronte a Nantucket, lo storico porto baleniero di Moby Dick). E, come accade purtroppo molto spesso con gli operatori big-box, la Home Depot non aveva alcuna intenzione di modificare le proprie strategie e aspettative su alcune esigenze di contesto locale.
A Peachtree City, Georgia, le perplessità di cittadini e amministratori sono parecchie, e la certezza una sola: non si possono semplicemente vietare gli insediamenti big-box, perché la cosa ha poco senso, e perché si può fare molto di meglio fissando alcune regole di progettazione, realizzazione, localizzazione. Il problema di questo controllo e regolamentazione ha iniziato a manifestarsi con urgenza verso la fine degli anni Novanta, quando gli scatoloni avevano già fatto il loro ingresso in città, creando vari problemi e conflitti. Significativa a questo proposito la riunione del consiglio municipale dell’agosto 2000, quando il responsabile dell’ufficio urbanistica presenta alcune ipotesi normative.
L’idea generale è che si tratti soprattutto di un problema di progettazione, dato che è possibile con adeguate regole avere edifici anche di una certa dimensione che non appaiano fuori scala rispetto alla zona circostante. L’ordinanza da approvare da parte del consiglio dovrà semplicemente stabilire chiaramente queste regole, a partire per esempio dalla considerazione caso per caso di tutte le proposte per superfici commerciali oltre i 500 metri quadri, o per lotti oltre i 10.000, avendo come obiettivo generale quello di ridurre le dimensioni. Suggerisce anche, il tecnico, di limitare la possibilità di trasferimento dei negozi maggiori e di richiedere preventivamente uno studio certificato sull’impatto riguardo al traffico e all’ambiente.
Significativamente, durante la discussione una consigliera si preoccupa anche perché “i grossi negozi possono avere un impatto negativo sulla comunità se le attività si interrompono e l’edificio è lasciato vuoto”30. L’ordinanza poi approvata nel corso dello stesso anno mette ora la città in grado almeno di trattare su un piano di parità con le grandi catene, come nel caso di Target che nel 2004 rivendica il proprio “legittimo diritto” ad ampliare un insediamento esistente in cui il big-box di 12.000 metri quadrati si troverebbe insieme ad altri esercizi commerciali per 15.000 metri, uffici, ristoranti, parcheggi per più di mille auto, che metterebbe in crisi tutto il sistema del commercio nei distretti centrali31. La risposta, implicita nelle regole di zoning, è che si possono anche realizzare grossi edifici commerciali, oltre i 3.500 metri di superficie, ma in una sola area della città, attorno ad uno svincolo superstradale.
A Charlotte-Meckleburg, North Carolina, ci si è posti concretamente il problema dei contenitori vuoti, visto che sia in città che altrove si sono già abbondantemente sperimentati i disagi e problemi provocati dalla dismissione e dal mancato riuso. Dal 2002 si è discussa la possibilità di risolvere una volta per tutte la questione, e una delle idee, escogitata dalla commissione urbanistica con l’aiuto di un consulente immobiliare, è “chiedere ai costruttori di … versare una cauzione all’atto di costruire un big-box. … Se il negozio chiude e resta vuoto oltre un certo periodo di tempo, la città può usare quel deposito per demolire e ristrutturare l’area”32.
Un altro elemento importante, è la regolamentazione del contesto entro cui si collocano i grandi contenitori, che a Charlotte sarà preferibilmente mixed use e con un sistema stradale composito che favorisca una circolazione con vari mezzi di trasporto. Questo, solo per fare un esempio, favorisce anche un più rapido turn-over di inquilini degli immobili commerciali, perché la collocazione entro un quartiere complesso, proprio perché non “ideale” per alcun formato e/o specifica strategia di impresa, si presta invece a molte utilizzazioni anche commerciali diversificate, ed eventualmente anche a scopi diversi. Nelle aree a usi misti, in particolare all’esterno del centro città più caratterizzato da terziario e alte densità, per “un’alternativa di sviluppo possibile … si incoraggia un mixed use residenziale e corrispondenti usi commerciali e terziari, con una forte enfasi sulla mobilità pedonale, l’aspetto urbano, il paesaggio”33.
A esplicito orientamento ambientale in senso stretto, la moratoria votata dalla città di Austin, Texas, sulla realizzazione di edifici e insediamenti big-box che mettono a repentaglio la qualità e ricarico della falda acquifera. Il problema è appunto quello di affrontare con questi argomenti il “legittimo diritto” di operatori che, come nel caso specifico Wal-Mart, hanno già progettato un piano di investimenti e strategie di insediamento. La questione però sembra, come quasi sempre, non tanto quella di proibire il commercio, e nemmeno in senso stretto di limitarne davvero le dimensioni, quanto regolare gli usi del suolo e i rapporti con l’ambiente e la società locale.
In questa occasione “i costruttori potrebbero ancora edificare nelle aree tutelate, ma dovrebbero farlo secondo un certo numero di entità minori, qualcosa che troverebbe certo il consenso degli abitanti della zona …queste aree devono essere urbanizzate in modo responsabile, fornendo servizi al quartiere anziché essere un elemento di drenaggio a scala regionale. Più forte l’attrazione, più intenso il traffico sopra la falda acquifera, e più inquinamento nella zona e nella nostra acqua potabile”34.
(Fine della prima parte – Questo testo è un estratto dal terzo capitolo di F. Bottini, Nuovi Territori del Commercio, Alinea, Firenze 2005 – qui la seconda parte)
NOTE E RIFERIMENTI
1 Il termine greenfield, oltre ovviamente a indicare pascoli, aree naturalistiche ecc., si riferisce in generale ai terreni precedentemente non toccati dall’urbanizzazione, come le fasce esterne dei villaggi rurali, o le grandi maglie territoriali “vuote” fra le direttrici delle strade Interstate. L’intervento di urbanizzazione in aree libere (o liberate), ma interne a zone già in parte urbanizzate, ma a bassa densità, viene definito dalle culture di varia matrice ambientalista infill development (edificazione di riempimento), ed è finalizzato sia a inserire nuove funzioni, sia ad aumentare la densità per renderle economicamente sostenibili.
2 F. Kaid Benfield et al., Once There Were Greenfields … cit., par. Suburban Retail Trends, p. 16.
3 American Planning Association, Big-Box Inquiry [1995]
4 “Big Box Retail”, OSPlanning Memo, dicembre 1995. OSPlanning Memo è una pubblicazione mensile monografica edita dallo Office of State Planning – Department of Treasury del New Jersey, rivolta alla comunità tecnico-scientifica.
5 Per la cronologia ufficiale dell’impresa, dalla fondazione nel 1962, fino al riconoscimento come “most admired company in America” da parte della rivista Fortune nel 2003, si veda la Timeline al sito http://www.walmartstores.com
6 Luca Celada, “Il supermarket del predone”, Il Manifesto, 21 dicembre 2003.
7 Definizioni e indicazioni di superficie sono desunte da: Maryland Department of Planning, Big-Box Retail Development, ottobre 2001, collana Managing Maryland’s Growth – Models and Guidelines
8 International Council of Shopping Centers / Growth Management, “Big Box” Retail Development, s.d.
9 Cfr. Congress for the New Urbanism, Greyfields to Goldfields … cit.
10 Tutte le precondizioni di questa crescente opposizione sociale all’espansione del grande commercio, erano state del resto previste da molto tempo, almeno da quando all’inizio degli anni Sessanta si riteneva che “La sovra-espansione sarà un problema in quasi tutte le principali aree metropolitane. In alcuni mercati chiave, i costruttori hanno realizzato troppi negozi perché tutti possano partecipare alla crescita commerciale. Alcuni discounters hanno sopravvalutato gli incrementi potenziali delle vendite, il che li ha condotti a costruire negozi troppo grandi per essere redditizi, o talvolta ad acquistare una quantità eccessiva di merci”. American Society of Planning Officials, Discount Stores, Planning Advisory Service, Chicago marzo 1963, citato in Maryland Department of Planning, op. cit.
11 Albert Norman, “Eight Ways to Beat Wal-Mart”, The Nation, 28 marzo 1994. La frase citata testualmente è attribuita a un manager di Wal-Mart. Al Norman è tra l’altro autore di vari libri sul tema del big-box, e principale animatore del sito SprawlBusters, dedicato all’opposizione ambientalista e locale alla grande distribuzione.
12 Il gioco di parole, ironico-biblico, riprende quello già citato fra Wal-Mart e The-Wal: “if community coalitions … trumpet the downside of megastore development, the WALs will fall in Jericho”, ivi.
13 Cfr. David Clark Scott, “Tips on How to Beat the Giants”, The Christian Science Monitor, 29 settembre 1994. Si tratta di un’intervista al professor Kenneth Stone, della Iowa University. Gli studi di Stone sono tra l’altro alla base di molte delle conclusioni della guida Maryland Department of Planning, Big-Box Retail Development … cit. Cfr. Kennet E. Stone, Competing with Discount Mass Merchandisers, Iowa State University, 1995; id., Impact of the Wal-Mart Phenomenon on Rural Communities, Iowa State University, 1997.
14 John Norton, “Consultant offers merchants advice to survive Wal-Mart”, The Plain Dealer (periodico di Cleveland) 13 agosto 2004. – Il consulente citato nel titolo è lo stesso Kenneth Stone della nota precedente, le cui tecniche di “formazione alla sopravvivenza” per il commercio locale evidentemente sono considerate valide anche dopo dieci anni di sperimentazione.
15 F. Kaid Benfield et al., Once There Were Greenfields … cit., p. 161.
16 Cfr. Andres Duany, Elizabeth Plater-Zyberk, “The Traditional Neighborhood & Suburban Sprawl”, Conscious Choice, aprile 2001, La serie delle caratteristiche negative da insediamento suburbano, è contrapposta nell’articolo, come si comprende dal titolo, a quelle di un ipotetico “quartiere tradizionale”. Qui non si vuole sostenere la superiorità di questo modello, che ha certo i suoi difetti come dimostra l’articolazione di decenni di dibattito sulla neighborhood unit, quanto sintetizzare alcune possibili – per quanto estreme – conseguenze generali della desertificazione commerciale (e non solo) innescata secondo molti dalla comparsa dei big-box.
17 Dati da Constance E. Beaumont, How Superstore Sprawl Can Harm Communities, National Trust for Historic Preservation, 1994. Secondo OSPlanning Memo … cit. gli shopping centers generano circa 1,35 viaggi quotidiani di autocarro per ogni 1.000 metri quadri di superficie commerciale; nei casi di commercio diverso, come ad esempio articoli per il bricolage o la casa la cifra può moltiplicarsi anche per dieci volte e oltre.
18 Cfr. Maryland Department of Planning, Big-Box Retail Development … cit., par. Environmental Impacts, che riprende anche alcune osservazioni generali dal rapporto American Planning Association, Aesthetics, Community Character and the Law, 2000.
19 C’è anche l’ovvia difficoltà gestionale di spazi pensati per un solo utente, che faticano da ogni punto di vista ad adattarsi a più usi: “Ci saranno sempre molti affittuari che coabitano nel medesimo spazio commerciale con queste scatole vuote, chiedendosi che sarà il loro prossimo vicino”. Rick Barr, “What happens to the box when big-box stores fold”, Puget Sound Business Journal, 2 maggio 1997
20 Cfr. Mark P. Couch, “Big box stores leave retail spaces empty”, The Kansas City Star, 15 marzo 1999
21 Cfr. http://www.calthorpe.com/ Lo studio Calthorpe & Associates tra l’altro firma alcuni documenti considerati esemplari della cultura urbanistica progressista, come il piano regolatore di Fort Collins, Colorado, le cui norme sono diventate un esempio da manuale per la regolamentazione degli spazi commerciali e l’integrazione nel tessuto insediativo. Peter Calthorpe è uno dei soci fondatori del Congress for the New Urbanism.
22 Amanda Hurley, “Empty Boxes. As Kmart’s signature blue lights fade, what will happen to vacant big-box stores?”, Preservation Online (rivista del National Trust), 15 marzo 2002
23 Stacy Mitchell, Jeff Milchen, “Littering America with Dead Malls and Vacant Superstores”, Reclaim Democracy, giugno 2002
24 Your quality of life is worth more than a cheap pair of underwear è uno degli slogan con cui il sito SprawlBusters! presenta i propri casi di lotta delle comunità contro l’insediamento di un operatore della grande distribuzione, in particolare del formato big-box. A parte il tono, credo riassuma piuttosto bene il senso della maggior parte delle opposizioni locali, che sullo specifico versante del rapporto bisogni/consumi si limitano a mettere in pratica coerentemente quanto previsto a suo tempo dalla American Society of Planning Officials, Discount Stores … 1963, cit.
25 Bernard Carpinter, “Mall owner opposes Big-Box plan”, The Dominion Post, 4 agosto 2004
26 Cfr. Karen Hodge, “Port opposes complex. The Port of Napier fears a planned big-box retail development will stunt its future growth and export capabilities ”, The Dominion Post, 21 agosto 2004.
27 Hometow America Strikes Back! Santa Rosa, CA: Journey’s End for Home Depot, dal sito SprawlBusters http://www.sprawl-busters.com
28 Cfr. City of Santa Rosa, Zoning Code (bozza approvata dal consiglio comunale, maggio 2004), Art. 20-42 Standards for Specific Land Uses. Disponibile online al sito della municipalità di Santa Rosa, California nella sezione Community Development/Planning Division.
29 Barnstable County, Massachusetts, Cape Cod Regional Policy Plan, cap. 3, Economic Development, Minimum Performance Standard, p. 83. Disponibile online al sito http://www.capecodcommission.org/RPP
30 City Council of Peachtree City, Minutes of Meeting, 3 agosto 2000, O.d.G Consider Zoning Ordinance – Retail Big Boxes, intervento della consigliera McMenamin. Gli atti del Consiglio sono disponibili al sito ufficiale della città di Peachtree http://www.peachtree-city.org/
31 Cfr. Franck Lynch, “Faison vows to fight ‘big box’ law”, The Citizen, 7 marzo 2004
32 Scott Dodd, “The fight on big-box blight”, The Charlotte Observer, 17 giugno 2002
33 City of Charlotte, Zoning Ordinance, parte 8.5. Mixed Use Development District, sezione 9.8501 (1) Purpose. Materiali disponibili integralmente al sito della City of Charlotte http://www.charmeck.org Department of Planning
34 Robert Inks, “City Council to vote on big-box ban”, The Daily Texan, 23 ottobre 2003