Che fare? Una breve rassegna di soggetti, conflitti, possibili soluzioni
Vale la pena forse, dopo le descrizioni di conflitti più o meno frontali fra comunità e big-box, accennare anche alle evoluzioni degli operatori, nelle politiche generali e nelle tecniche insediative. Del resto, come sosteneva lo International Council for Shopping Centers e in fondo anche molte delle comunità interessate, fare muro contro muro non serve a niente, e l’obiettivo vero è quello di ricondurre l’innovazione entro canali di sostenibilità e accettazione diffusa nel quadro di una politica di smart growth1.
Un esempio per tutti è rappresentato da Wal-Mart, che dichiara di aver già alla fine degli anni Ottanta “preso l’impegno di tutelare l’ambiente nelle città dove siamo presenti. Parte di questo impegno significa avere qualcuno nei nostri negozi che conosca le problematiche ambientali, e possa condividere informazioni con Associati, clienti e membri della comunità”2. Primo esempio di questo impegno, l’Eco Store aperto nel 1993 a Lawrence, Kansas, dove si sono utilizzati prevalentemente materiali da costruzione ecologici e esperimentali, come il legno a costituire gran parte della struttura, gli impianti tecnici energy-saving, un piazzale a parcheggio pavimentato in asfalto riciclato. Altri negozi di questo tipo sono stati realizzati in seguito a Moore, Oklahoma, e City of Industry, California, ciascuno focalizzato su determinati aspetti di innovazione in senso ambientale, caratteristica che li qualifica come Environmental Demonstration Store.
Un approccio “dimostrativo” che però a parere dei critici dimostra solo un impegno nelle pubbliche relazioni, anziché nella pratica concreta e diffusa3. Nella primavera del 2004 ad esempio il National Resource Council del Vermont, un’associazione per la tutela dell’ambiente e della storia locale nel piccolo stato (poco più di mezzo milione di abitanti in tutto) denuncia una vera e propria invasione di big-boxes Wal-Mart4, che dopo aver realizzato negli anni Novanta quattro negozi a Bennington, Berlin, Rutland e Williston, con dimensioni da 5.000 a 10.000 metri quadri, ora vuole rafforzare la propria presenza.
L’ipotesi è quella di mezza dozzina di nuovi e più grossi superstores, il primo dei quali affiancherebbe quello già esistente a Bennington, con oltre 15.000 metri quadrati di superficie commerciale, e la trasformazione complessiva di un’area ex industriale di 15 ettari. Un manager della compagnia tenta di rassicurare il pubblico in una intervista al New York Times: “Abbiamo cambiato molto più che non l’aspetto dei nostri punti vendita … erano grosse scatole blu, ma abbiamo trasformato l’architettura e l’aspetto generale dei negozi in base alle particolari città dove sono realizzati. Prima di iniziare le pratiche per il permesso ci rivolgiamo alla comunità, e riceviamo informazioni su cosa desidera, sulle sue caratteristiche”5.
La comunità non sembra però troppo convinta: sia quella locale, che più in grande quella nazionale, che anzi mobilita proprio nel caso del Vermont una delle rare quanto auspicate risposte “sovracomunali”, secondo una modalità a dir poco inconsueta, di cui vale la pena riportare di seguito con qualche ampiezza il documento ufficiale.
“[…] Nel corso degli anni Novanta la Wal-Mart ha localizzato tre dei suoi quattro punti vendita del Vermont in edifici esistenti, mantenendo dimensioni relativamente modeste. Ma oggi, la maggiore impresa mondiale del settore pianifica di saturare lo stato (che ha solo 600.000 abitanti) con sette nuovi ciclopici mega-negozi, ciascuno con una superficie minima di 15.000 metri quadrati. I progetti di Wal-Mart sicuramente attireranno altri operatori commerciali di tipo big-box. Risultato probabile: degrado dello Stato delle Montagne Verdi e delle sue uniche caratteristiche spaziali, disinvestimento nelle attività commerciali urbane, scomparsa di attività a capitale locale, e l’erosione del senso comunitario che sembra essere un inevitabile prodotto collaterale dell’espansione disordinata dei big-box. Con profondo rincrescimento, il National Trust prende la rara iniziativa di inserire il Vermont nella Lista dei Luoghi Storici più in Pericolo d’America.
[…] Le nuove attività commerciali dovrebbero essere complementari a quelle esistenti, non divorarle: nondimeno ci sono città in tutti gli Stati Uniti che sono state devastate dall’arrivo del commercio big-box. I cittadini del Vermont non devono lasciare che questo accada nel loro Stato”.[…]
Le specifiche caratteristiche del Vermont – cittadine e villaggi storici, paesaggi rurali – potrebbero andare perdute se si consente allo sviluppo suburbano diffuso di diffondersi in modo casuale, fuori scala, con grande consumo di suolo. La chiave di volta della filosofia big-box, “la stessa dimensione va bene dappertutto”, si è dimostrata devastante […] Le comunità dovrebbero accettare uno sviluppo di tipo big-box ad occhi aperti, consapevoli dei costi a lungo termine. Alcuni negozi di questo tipo si sono adattati agli standards locali, riuscendo ad adeguarsi bene ai distretti commerciali esistenti. Alcuni si sono anche localizzati in spazi disponibili nei centri città, riutilizzandoli. I cittadini del Vermont devono imparare da quanto accaduto altrove, e convincere Wal-Mart e altri grandi operatori commerciali ad adattare il proprio modo di far affari alle caratteristiche delle comunità esistenti. È Wal-Mart a dover cambiare per adattarsi al Vermont, non viceversa”6.
Evidentemente includere un intero stato in un elenco di beni in pericolo è anche una provocazione culturale, ma non più di tanto se si considera il rapporto evidentemente squilibrato fra i bisogni comunque intesi di una popolazione paragonabile a quella di una città italiana, e i progetti di nuovo insediamento del solo Wal-Mart, che come osserva anche il comunicato faranno da traino e avanguardia per altre domande, per altri vested interests che rivendicano il proprio spazio sul territorio e nei consumi. Posto comunque che non è certo possibile generalizzare, estendendo per assurdo a tutto il pianeta o quasi un vincolo storico-paesistico, ancora dall’area culturale del National Trust arrivano consigli meno radicali, certo più pratici e articolati, perché comunità e istituzioni (e – perché no? – le imprese big-box) possano affrontare organicamente le sfide poste dalla modernizzazione commerciale.
Valutare l’impatto dei big-box – Le comunità devono poter misurare in qualche modo gli effetti dei grandi progetti commerciali sulle città. Le valutazioni di impatto ambientale sono ormai uno standard per i grandi progetti, meno comuni studi di impatto economico, nonostante i grossi insediamenti concorrenti possano devastare la vitalità di un centro urbano o di una arteria commerciale.
Ad esempio a Lake Placid, New York, Wal-Mart propone di costruire un negozio di 8.000 metri quadri, circondato da quattro ettari asfaltati in una zona paesistica di interesse ed economia turistica. L’ufficio urbanistica respinge il progetto di superstore perché il suo impatto economico negativo minacciava di creare vuoti fisici e sociali nel tessuto urbano, con conseguenza generali negative per l’attrattività turistica. Nonostante il ricorso di Wal-Mart la magistratura conferma la validità della delibera.
In generale è possibile e ragionevole inserire nella normativa la presentazione di uno studio di impatto economico, di traffico, e ambientale, per ogni nuovo punto vendita con una superficie superiore, per esempio, ai 5.000 metri quadrati, e per ogni ampliamento con quantità proporzionali, a cura dell’impresa proponente. I risultati dello studio possono anche essere d’aiuto per la stipula di una convenzione ad hoc che fissi il tipo di contributi che il nuovo venuto si impegna a fornire alla comunità ospitante.
Caratteristiche del progetto insediativo e edilizio – Lo accennava uno dei tecnici comunali citati nei paragrafi precedenti, come l’inserimento dei big-boxes nell’ambiente avesse caratteristiche anche qualitative legate ai modi della progettazione, oltre all’impatto visivo e ambientale delle pure quantità volumetriche e di traffico. Gli scatoloni sono proprio così: “indescrivibili, enormi, cacciati chissà dove al centro di un mare di asfalto, senza finestre, senza la forma di un tetto, senza nessun tentativo di rispettare le caratteristiche architettoniche di un luogo” 7.
È un aspetto preso in considerazione da molte amministrazioni locali, che hanno approvato linee guida progettuali in questo senso. A Evanston, California, tutti i negozi di superficie superiore ai 2.500 metri quadrati devono essere costruiti utilizzando determinati materiali, forme e colori adatti all’ambiente e tradizione locali, e i big-boxes non devono più essere tali almeno sulle facciate, che per regolamento devono essere movimentate da vari dettagli architettonici.
Le già citate regole della pianificazione sovracomunale nella zona di Cape Cod, Massachusetts, impongono tra l’altro che i negozi con una superficie coperta di oltre 5.000 metri quadri debbano essere schermati da vegetazione, è vietata la costruzione lungo il filo stradale, e parcheggi interposti fra la strada principale e il complesso commerciale. A questo si aggiunge naturalmente la valutazione economica preventiva, di cui sopra.
Limiti alle dimensioni – C’è consapevolezza diffusa che, in un modo o nell’altro, si sia avverata la citata previsione degli studi economici-territoriali secondo cui gli esercizi commerciali avrebbero già raggiunto un sostanziale sovradimensionamento, a scala sia locale che nazionale (negli anni Ottanta 0,5 mq pro capite, oggi 2 mq).
Da qui, la convinzione che nuovi esercizi, specie di grandi dimensioni e capitale non radicato sul territorio, possano facilmente sostituirsi, e non sommarsi, a quelli locali, generando decadenza di questi ultimi e insieme delle zone dove sono tradizionalmente collocati. Inoltre, a differenza del commercio localmente radicato, quello di nuova e nuovissima generazione tende ad avere un ciclo di vita molto più breve, e rapidamente genera degrado anche per abbandono dei contenitori dismessi, per trasferire la propria attività altrove, di solito in zone suburbane più esterne, con ulteriore consumo di suolo e impermeabilizzazione di superfici. Le limitazioni alla grandezza massima dei negozi offrono un metodo possibile per prevenire un eccesso di offerta, che spesso si è rivelata il presupposto ad una rapida dismissione.
Si tratta comunque di superfici consentite considerevoli, di 5.000-8.000 metri quadrati, sufficienti per qualunque idea e organizzazione dello spazio commerciale. Un altro metodo è quello di limitare le superfici coperte dei big-box, consentendo però di moltiplicarle su diversi piani (di solito due), il che consente di sperimentare strutture innovative, che possono trovare applicazione negli interventi in città per zone di ristrutturazione urbanisica e progetti di infill development.
Accordi interamministrativi – Una delle caratteristiche delle politiche insediative della grande distribuzione è quella di sfruttare le articolazioni di interessi territoriali fra le varie circoscrizioni amministrative, che spesso entrano in competizione l’una con l’altra a tutto vantaggio degli interessi particolari. In molti casi si teme che imponendo condizioni all’insediamento di superstores, gli operatori si sposteranno semplicemente nel territorio dell’amministrazione confinante, dove ce ne sono di migliori o non ce ne sono del tutto. Il comune ospitante almeno si prende alcuni benefici economici, e gli altri si prendono il traffico.
Anche negli Stati Uniti, pur se spesso su base volontaria, le città possono almeno evitare di essere pedine in una guerra interamministrativa di offerte, attraverso accordi garantiti ad esempio dalla contea o dallo stato, che producano sia documenti di pianificazione alla scala almeno dei bacini di utenza dei big-boxes, sia indirettamente siano elemento unificante delle politiche urbanistiche e socioeconomiche locali.
Moratoria urbanistica – Un certo numero di municipalità hanno messo in pratica una moratoria temporanea – di solito piuttosto breve – sulle costruzioni, per dare agli uffici locali il tempo di sviluppare nuove regole di progettazione, localizzazione, dimensione per i negozi big-box.
Si tratta naturalmente di un provvedimento parziale, che trova una logica conclusione costruttiva solo nel ristabilimento di una nuova prassi corrente, normata in modo efficace, ad evitare che le legittime battaglie dei comitati locali, e quelle opposte degli operatori della grande distribuzione, si svolgano a tutto campo e su basi labili o moralistiche.
Nelle parole di un commento organico alle varie ipotesi di regolamentazione dei big-box, la risposta chiave si può riassumere in uno slogan: “La nostra soluzione è, investiamo sulle città. Ristrutturando aree già urbanizzate si riduce il traffico e si sostiene il trasporto pubblico. Questo abbassa l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, e crea posti di lavoro. Quello che potete fare per proteggere il vostro lavoro e la vostra comunità: dite ai commercianti big-box di ristrutturare aree in città, non di partecipare allo sprawl all’esterno; sostenete i piccoli negozi che reinvestono i profitti, comprano e assumono a base locale; sostenete il trasporto pubblico”8.
Inutile ricordare, a questo punto, che almeno dal punto di vista dell’organizzazione fisica la maggior parte di questi obiettivi (e molti altri connessi) hanno tradizionalmente un solo ed efficace contenitore e luogo di sintesi: il piano urbanistico.
Pianificazione territoriale: la regione, la città, il quartiere
Scala territoriale vasta
È evidente, spesso se non sempre, la discrasia fra la dimensione delle strategie dei grandi operatori, che esprimono una ben definita idea di spazio individuando nodi e flussi entro cui collocare la propria azione, e l’ipotesi di territorio più comunemente accettata come ambito gestibile dalla comunità, ovvero la circoscrizione comunale. Va rilevato che anche nel contesto USA, dove pure una metropolitan community è teorizzata e definita sin dagli albori del grande commercio a base automobilistica, se ne faticano a vedere i risultati in termini di contrappeso pubblico almeno a dimensione di bacino d’utenza dei grandi contenitori.
Perché è chiaro come i negozi big-box e gli altri formati abbiano impatti economici, sociali, di traffico e ambientali che si fanno sentire ben oltre i confini della municipalità dove sono localizzati, ma la maggior parte dei bacini regionali manca di strumenti di piano che possano equilibrare i costi e benefici della grande distribuzione. La quasi totalità dei poteri regolativi si limita alle autorità e confini comunali, lasciando così spesso libero gioco ai noti processi di concorrenza, e comunque iniqua ripartizione degli oneri e onori. Ma nonostante esistano difficoltà culturali e legislative, anche nel contesto di libero mercato nordamericano sono possibili e si stanno sperimentando strumenti di scala regionale.
Una soluzione è offerta dai processi di regional impact review, in cui “comunità confinanti lavorano insieme per sviluppare una visione condivisa di uso dello spazio e crescita economica, e hanno creato uffici di pianificazione regionale che esaminano tutti i progetti insediativi di dimensione sufficiente ad interessare l’intera area. Per ottenere l’approvazione un progetto deve avere il nulla osta sia dal comune fisicamente ospitante che dall’ufficio regionale, che valuta costi e benefici a questa scala”9.
Lo stato del Vermont, che pure come si è visto non se la passa benissimo in termini di rapporti con il big-box-sprawl, e di bilanciamento dei poteri fra comunità locale e dimensioni operative della grande distribuzione, è uno dei casi storicamente più avanzati dal punto di vista della programmazione di area vasta, sin dai primi anni Settanta. Il provvedimento noto come Act 250 fornisce una possibilità di approccio territoriale a scala dell’intero stato, e nasce dal timore che un altro operatore di area vasta, ovvero le agenzie autostradali, innescasse un processo di crescita e trasformazione troppo rapida, e in definitiva la cancellazione delle caratteristiche storiche e paesistiche che costituiscono l’identità locale. Come si vede, un processo più o meno simile alla recente vicenda Wal-Mart/Vermont/National Trust trattata nei paragrafi precedenti.
Lo Act 250 richiede che gli insediamenti superiori ad una certa dimensione (in genere complessi oltre i 5 ettari) siano sottoposti all’esame di una Environmental Commission di nomina statale, responsabile per un distretto regionale. L’approvazione dipende dal rispetto di alcune caratteristiche economiche e ambientali, e il giudizio della Commissione è appellabile a due livelli statali: Ufficio Ambiente e Corte Suprema del Vermont. Oltre i criteri ambientali relativi all’inquinamento di aria e acqua, erosione del suolo, lo Act 250 specifica che gli insediamenti non devono gravare economicamente sulla capacità dei governi e delle società locali di fornire servizi e svilupparsi equilibratamente e secondo caratteristiche proprie. Si scoraggia una crescita a insediamento sparso richiedendo che i progetti siano contigui ad aree già urbanizzate, salvo quando l’incremento fiscale generato dal nuovo complesso superi i costi dei servizi pubblici che richiede.
Ciascun progetto che si presenta alla competente Commissione di Distretto deve essere redatto seguendo dieci criteri:
- Non deve provocare inquinamento dell’aria e dell’acqua, attraverso gli scarichi, o indirettamente nei confronti di coste, corsi d’acqua, zone umide.
- Deve avere una disponibilità d’acqua sufficiente alle necessità dell’insediamento
- Di conseguenza, non pesi in eccesso sulla disponibilità idrica.
- Non sia causa di erosione del suolo, e non influenzi la capacità di assorbimento.
- Non sia causa di pericolo o congestione riguardo al sistema stradale e in generale alla mobilità.
- Non crei eccessivi carichi sulle strutture scolastiche comunali.
- Non crei eccessivi carichi sulle municipalità per la fornitura di servizi pubblici.
- Non abbia effetti negativi sull’aspetto estetico, la bellezza panoramica, i siti storici o le aree naturali, e non metta in pericolo la fauna e le specie protette dell’area.
- Prenda in considerazione: a) l’impatto sullo sviluppo della città e della regione; b) i suoli agricoli di alta qualità; c) le aree forestali e i suoli agricoli di qualità minore; d) le risorse del suolo; e) l’estrazione di risorse del suolo; f) la conservazione energetica; g) i servizi privati; h) i costi dell’insediamento diffuso; i) i servizi pubblici; j) il rapporto con gli investimenti pubblici; k) le zone di sviluppo rurale.
- Sia conforme a tutti i piani e programmi regionali e locali10.
Si è in tal modo contenuto almeno in parte il numero dei grossi insediamenti commerciali nello Stato, e si è favorita in alcuni casi la localizzazione urbana e il riuso di aree e contenitori esistenti. Al punto che “vale la pena notare come l’insediamento commerciale a nastro che ha deturpato il Vermont fuori dalle principali città e cittadine, sia costituito per la maggior parte da piccoli progetti, che non ricadono sotto la giurisdizione dello Act 250”11. Naturalmente il senso di questo paradosso non va preso alla lettera: ci si limita qui a definire i limiti della programmazione territoriale di scala regionale, rinviando in una logica coerente di governance e sussidiarietà a scale diverse di intervento il governo spaziale degli insediamenti “minori”12.
L’altro caso rilevante di pianificazione regionale con effetti significativi sulle questioni dei big-box e della grande distribuzione in generale, è quello di Cape Cod, Massachusetts, di cui si è già parlato a proposito del caso specifico di Yarmouth, e di come in quel caso proprio la coerenza della pianificazione locale e di area vasta fosse di notevole efficacia nell’adattare il più possibile le strategie dei grandi operatori al contesto locale.
La Cape Cod Commission è istituita come organismo sovracomunale di coordinamento a livello di contea, per l’area della penisola, nel 1990. L’obiettivo generale è quello di contenere gli impatti negativi della rapida crescita sull’identità sociale e territoriale, che nel caso specifico rappresentano (come nel caso del Vermont) anche un valore economico di primi piano, vista la vocazione turistica della regione. Questo organismo di pianificazione regionale ha il potere di approvare o respingere le proposte di trasformazione del territorio che superano una determinata soglia dimensionale e possono quindi avere effetti a scala dell’intera regione. Esempi di progetti classificabili DRI (Development of Regional Impact) sono:
Lottizzazioni con superficie superiore ai 15 ettari
Costruzione di un numero superiore a 30 lotti residenziali o unità abitative
Costruzione di un numero superiore a 10 lotti per attività produttive o terziario-amministrative
Insediamenti commerciali o cambio di destinazioni a commercio per edifici superiori a 1.000 metri quadrati
Strutture di trasporto che superino l’ambito della contea
Demolizione o radicale trasformazione di elementi storici di interesse nazionale o statale
Ponti, sopraelevate, costruzioni stradali che forniscano accesso a vari tipi di superfici acquee e zone umide
Nuova costruzione o cambio di destinazione d’uso commerciale di spazi esterni con superfici superiori a 4.000 metri quadrati
Costruzione di torri/ripetitore di altezza superiore a 10 metri
Progetti mixed use residenziali e non con una superficie di pavimento superiore a 2.000 metri quadrati.
Discrezionalmente possono essere considerati DRI e sottoposti alla verifica di impatto regionale anche progetti di entità minore, purché proposti alla Commissione da parte delle municipalità dove sono ubicati13.
Risulta evidente la centralità delle strutture commerciali di medio-grande dimensione, nonché di quelle di accesso e servizio immediate. Tra l’altro, oltre alla funzione autorizzativa, alla redazione di strumenti di analisi, piano e programmatori a scala regionale, l’autorità di pianificazione agisce anche ad un altro e forse più efficace livello: “Dato che il personale tecnico locale è di solito poco, l’autorità regionale può affiancare i gruppi di pianificazione, programmazione, legali, delle città. Questo è particolarmente utile nell’adempimento del requisito regionale secondo cui ciascuna amministrazione deve redigere un Local Comprehensive Plan. Visto che i piani devono adeguarsi allo schema regionale, fornire questa assistenza è un modo per assicurare coerenza e cooperare al governo a scala regionale”14.
Si tratta di un caso certo particolare, che dal punto di vista decisionale e politico rende possibili decisioni e articolazioni di piano molto più problematiche in altri contesti15, ma che come già visto nella controversia fra la municipalità di Yarmouth e il big-box della Home Depot sembra funzionare: se i progetti seguono le linee guida municipali e regionali di redazione e impatto vengono approvati (e le percentuali del Vermont insegnano), altrimenti sono respinti, e di solito anche i ricorsi in appello con questi presupposti, e il richiamo ai vested interests o alla pur intangibile libertà di intrapresa, sono inutili.
E a livello locale appare del tutto coerente che “le municipalità dotate di un comprehensive plan certificato dalla commissione possono stipulare accordi di urbanizzazione con soggetti che propongono insediamenti”16 anche se questi soggetti presentano una proposta di big-box, perché sia il piano regolatore, che la cornice del Policy Plan regionale, sia le design guidelines locali orientative per la progettazione, garantiscono il rispetto di alcune regole minime. E soprattutto, l’operatore sa che nella municipalità confinante troverà lo steso tipo di accoglienza.
Il territorio comunale
Come mostra eloquentemente il caso della regione di Cape Cod, se il livello intercomunale affronta a scala adeguata la dimensione di intervento della grande distribuzione commerciale e in genere dei grandi operatori di trasformazione territoriale, è a livello comunale che se ne rendono tangibili e contemporaneamente governabili in senso fisico le modalità insediative. È qui, in altre parole, che prende forma e sostanza il dilemma posto dall’urbanista di piccola città all’American Planning Association: un big-box mi farà diminuire i valori immobiliari della zona? come se ne valuta efficacemente l’impatto visivo? fino a che punto le linee guida progettuali del comune sono efficaci? concetti nuovi come il new urbanism hanno davvero qualcosa da dire in proposito?
Tanto più che proprio nel caso del commercio big-box la stessa agenzia federale per l’ambiente, nelle sue linee guida per una urbanistica smart growth, sottolinea come i semplici criteri di azzonamento misto e cura nella qualità progettuale (che sono la ricetta ricorrente del new urbanism) non siano sufficienti ad assicurare un corretto e compatibile inserimento nel contesto insediativo17.
Già nel corso della prima grande crescita del fenomeno big-box negli USA, il piano generale comunale viene identificato come l’ambito all’interno del quale definire in dettaglio quali aree possano essere destinate a tale uso, e nel quadro di quale contesto di progetto: per la zona, gli usi compatibili, e l’intero territorio. È all’interno del piano comunale che si ha l’occasione di trattare in modo ampio il ruolo complessivo del commercio all’interno della comunità (e indirettamente della regione), evitando se possibile le facili semplificazioni della concorrenza fra municipalità confinanti e ponendosi nella redazione del documento di piano alcune domande specifiche:
quanta e quale superficie è destinata ad attività commerciali? si tratta di una quantità sufficiente?
si ipotizza un sistema commerciale prevalentemente orientato alla popolazione locale, o si intende servire un bacino di dimensioni regionali?
esiste un distretto centrale, o rete commerciale diffusa cittadina, che potrebbe essere influenzata negativamente dall’insediamento di big-box?
esiste un sistema di shopping malls consolidato che rischia di perdere clienti, negozi affittuari, ed entrare in crisi?
in che modo scelte anche equilibrate a scala cittadina possono avere effetti di squilibrio sulle circoscrizioni amministrative confinanti, e il bacino regionale nel suo insieme?18
Tutto questo naturalmente tenendo un atteggiamento realista e laico, e mettendo in bilancio come “Non esista nel lessico dei costruttori una parola odiata come le sei lettere di zoning”19. O meglio, un’idea di regole condivise e spazio comunitario inteso in senso lato, dove “i piani cominciano a riflettere uno stile tematico. Invece di avere capitoli distinti su singoli argomenti, si focalizzano su temi ampi, come la crescita equilibrata, la conservazione del carattere rurale, un’accresciuta vitalità economica e così via”20. Del resto, è universalmente riconosciuto come le strategie dei grandi operatori siano per loro natura in conflitto con quelle delle comunità locali, e alla soluzione di questo conflitto servono appunto i piani.
Piani che nel caso specifico del tema big-box, hanno storicamente quasi sempre la premessa di una moratoria urbanistica. Uno dei primi e più noti casi è quello della città di Fort Collins, Colorado, dove a metà anni Novanta governo e comprehensive plan locali sono per la prima volta interessati da una serie di richieste per l’insediamento nel territorio cittadino di negozi superstore, “che presentano problemi di pianificazione senza precedenti a causa della massa, dimensione e scala di questo tipo di esercizi, in particolare per quanto riguarda gli impatti estetici e sui trasporti”.
Si rende quindi necessario per la città un approfondito studio per “determinare la localizzazione appropriata di queste funzioni e il tipo di criteri da adottarsi per regolarne la progettazione, nonché il tipo di infrastrutture necessarie”21. Per trovare il modo di porsi organicamente domande come quelle riassunte sopra per punti, l’ordinanza di moratoria stabilisce che per la durata di sei mesi sarà sospesa qualunque domanda di autorizzazione in corso relativa a superstores all’interno del territorio comunale, intendendo col termine superstore “qualunque edificio, o combinazione di edifici, destinati ad uso principalmente commerciale, che superi(no) gli 8.000 metri quadrati”22.
Nel periodo di moratoria, gli uffici comunali dovranno sviluppare in collaborazione con il consiglio e le commissioni le modifiche da apportare ai vari strumenti urbanistici, dal Comprehensive Plan, alle norme di azzonamento, ad altre ordinanze cittadine correlate al problema. Dello stesso tenore, contemporaneamente o nel periodo successivo, altre moratorie approvate in città anche più piccole sospendono tutte le autorizzazioni, anche per edifici e complessi di dimensione minore, come nel caso di Easton, Maryland, “Ottava nella classifica delle migliori piccole città d’America”, che usa esplicitamente anche nell’ordinanza municipale il quasi dispregiativo termine big-box, e include nella moratoria tutte le superfici superiori a 2.500 metri quadrati23.
La stessa superficie minima di 2.500 metri quadrati è calcolata dalla municipalità di Evanston, Wyoming, per la sua moratoria, determinata occasionalmente da una domanda di insediamento Wal-Mart, ma per cui non si ritiene nel caso specifico di dover ripensare in qualche modo il piano generale (che già aveva consentito di negare una prima localizzazione suburbana). Scopo dichiarato del periodo di moratoria è quello di affinare le regole progettuali perché in futuro questo e altri big-box si adattino maggiormente alle caratteristiche architettoniche della città:
nascondendo il tetto piatto
trattando la superficie esterna con un minimo del 30% a mattoni (anche simulati), pietra o legno
utilizzando colori naturali per la maggio parte della costruzione, e limitando quelli più vivaci ai soli particolari
utilizzando illuminazione simile a quella del resto della città
inserendo nelle facciate principali aperture a forma di finestra, indipendentemente dalla funzionalità
arredando a verde i parcheggi e gli spazi circostanti, e progettando i percorsi pedonali24.
Ma per tornare alle strategie generali per il territorio municipale, e al ruolo che la grande distribuzione viene ad assumere entro questo quadro complessivo, è significativa l’immagine che emerge dalla “community vision” del piano cittadino di Fort Collins, soprattutto riguardo alle funzioni terziario commerciali.
Innanzitutto si conferma e rafforza il ruolo del centro fisico come luogo identitario per la collettività, dove il commercio – di alta qualità e servizio quotidiano di quartiere – formi con il terziario amministrativo e la tre funzioni come la cultura e l’intrattenimento una miscela downtown vitale. Non si tratta né di un centro con caratteristiche storiche propriamente dette, né di un distretto terziario metropolitano25, ed è quindi abbastanza agevole individuare già da queste poche linee la cultura indicativamente new urbanism degli usi misti, dell’integrazione funzionale, a cui si aggiungono gli elementi della pedonalità, del trasporto pubblico, dell’incentivo alla residenza. Al sistema commerciale/terziario del centro se ne affiancano però altri, diversi nell’orientamento specifico ma non nel tentativo di “fare sistema” anziché sovrapporre offerte simili.
Quelli che sono denominati commercial districts si collocano perciò entro una costellazione di altre tipologie a varia destinazione, e “contengono un’ampia gamma di usi per il commercio, servizi, tempo libero, per rispondere alle domande dei consumatori. Anche se il loro scopo principale è lo shopping cittadino o a scala regionale, possono essere localizzate al loro interno, funzioni che offrano impieghi in ambiti non commerciali, quali studi professionali, oppure strutture residenziali multifamiliari da collocare fra gli elementi commerciali del distretto. Si renderanno necessari nuovi modelli di edilizia commerciale, necessari a combinare i bisogni di quartieri percorribili a piedi con il commercio di grande scala”26.
Significativa, quest’ultima affermazione: è implicitamente delle grandi catene, il compito di sviluppare nuovi modelli edilizi e insediativi, che pur nell’offrire al cittadino consumatore nuove esperienze spaziali e di acquisto, sappiano adattare le proprie strategie ai bisogni della comunità nel suo insieme, bisogni che ovviamente non smettono di essere articolati e complessi quando si varca la soglia dell’abitazione, quella della grande struttura commerciale, o ci si sposta nello spazio intermedio della strada, dei percorsi pedonali, dei parcheggi o dei poli di interscambio. Un’articolazione del tutto alternativa al modello di shopping suburbano classico, dove esistono due ambiti privati interamente proiettati all’interno (l’abitazione e lo spazio commerciale), uno individuale e uno collettivo, mentre quello pubblico si riduce a una no man’s land di superstrade, svincoli, parcheggi, o poco più.
Entrando nel dettaglio delle prescrizioni di piano regolatore generale per le zone commerciali di scala urbana e regionale, le indicazioni di massima della vision iniziano a tradursi in più specifiche policies. I principi base sono ad esempio la variabilità delle dimensioni di questi distretti, ma al tempo stesso l’unicità della loro impostazione a usi misti, all’assenza di elementi strutturali dominanti, come un edificio molto più grosso degli altri, un piazzale a parcheggio vistoso o tendente ad isolare una parte del quartiere. Lo schizzo esplicativo proposto dal documento chiarisce meglio: vale qualunque organizzazione del rapporto strada/parcheggio/edificio, salvo quella corrente più comune, col piazzale a fare da cuscinetto alla struttura edilizia arretrata al massimo nel lotto.
È in questo contesto che si colloca la Policy 1.3. – New Large Big-Box Retail Establishments, che recita brevemente: “Nei distretti commerciali sono permessi i grandi elementi, ma soltanto nell’ambito di shopping centers di scala cittadina o regionale. A questi grandi elementi si richiede un livello minimo di varietà architettonica, compatibilità di scala, accessibilità pedonale e ciclabile, attenuazione degli impatti negativi”27. Il che, gentilmente ma fermamente, sembra eliminare tutte le caratteristiche tipiche del big-box, ovvero la sua estraneità al contesto, l’orientamento ultra-automobilistico, la tendenza ad una organizzazione isolata anche quando inserito in gruppi più complessi. Senza contare le limitazioni dimensionali che, caso per caso, tradurranno in cifre la “compatibilità di scala”.
In modo simile a Fort Collins, anche se forse con meno complessità ad orientamento visibilmente smart growth, la città di St. Petersburg, Florida, ha apportato modifiche al proprio strumento di pianificazione generale per inserire nuove politiche atte a controllare lo sviluppo edilizio commerciale. Il tutto a partire dal concetto di “sovraofferta”, ovvero più di un ettaro di terreno a destinazione commerciale per ogni trecento residenti. In sintesi e per punti, le politiche proposte a St, Petersburg sono le seguenti:
sono consentiti usi intensivi commerciali fuori dagli insediamenti già esistenti, solo dove sono disponibili infrastrutture, ed esiste compatibilità con gli usi dello spazio circostanti
è incoraggiato un uso degli immobili coerente alle loro caratteristiche di localizzazione, e soprattutto agli scopi, obiettivi e politiche del piano generale.
considerato che la città garantisce un’adeguata offerta di terreni ad uso commerciale per rispondere ai bisogni esistenti e futuri, le espansioni future saranno limitate al completamento di zone esistenti, eccetto dove se ne identifichi chiaramente un bisogno.
le attività commerciali e terziarie sono localizzate, progettate e regolamentate in modo da beneficiare dell’accesso da strade principali, con adeguate strutture per una comoda mobilità anche pedonale.
si scoraggiano schemi insediativi che sviluppano in modo continuo lunghi fronti stradali28.
Si ricalcano quindi, per sommi capi, gli elementi di policies generali di Fort Collins, primo fra tutti il concetto di compatibilità, ovvero di adattamento dei formati commerciali al contesto, spaziale e non. Per dirla con il documento del National Trust sul caso del Vermont: in questi documenti non è il territorio che deve adattarsi ai contenitori commerciali big-box, ma al contrario senza rinunciare agli elementi eventualmente innovativi offerti, sono gli scatoloni a dover smettere di essere tali, trovandosi uno spazio coerente in città e nella regione.
Linee guida per il progetto
A questo punto dovrebbe essere piuttosto chiaro (almeno per gli esempi virtuosi presentati) il quadro dei rapporti fra insediamento delle grandi strutture commerciali, con particolare riguardo ai big-box, e strategie generali di scala cittadina e di area vasta.
A scala di regional planning prevale l’elemento ambientale, con le sue strette connessioni anche ai quadri infrastrutturale e paesistico, e su queste caratteristiche puntuali e di rete si focalizzano le valutazioni quantitative e qualitative di caso e di insieme.
A scala cittadina il problema appare quello di inserire singolarmente e complessivamente l’innovazione spaziale dei nuovi grandi complessi all’interno di una community vision, dove emergano in modo più articolato i rapporti fra l’ambito pubblico e lo spazio privato originariamente brutalizzati sia dal vecchio enclosed mall che dal più moderno e invasivo big-box, sia nella versione stand-alone che in quella delle varie aggregazioni dimensionali e tipologiche.
Alla ridefinizione dei tre ambiti (destinati in un ipotetico paradiso degli urbanisti a diventare solo due, senza le no-man’s lands della monocultura autocentrica), si affianca a scala cittadina la maggior raffinatezza degli obiettivi ambientali, funzionali, estetici, che nella declinazione new urbanism sostituisce agli insediamenti specializzati e reciprocamente impenetrabili una rete sfumata di miscele funzionali a vario grado di prevalenza, densità, ruolo complementare29.
Letto in questo senso, il piano cittadino in modo per nulla tacciabile di dirigismo introduce al livello dei regolamenti esecutivi e linee progettuali, ovvero alla puntuale ma unitaria “valutazione degli spazi destinati al commercio in termini di usi consentiti, requisiti volumetrici, standards insediativi”30. Una considerazione a livello esecutivo e di progetto che nelle intenzioni delle autorità di piano si deve ancora articolare, da parte di tecnici, operatori, degli organismi di approvazione, secondo due direzioni complementari: gli standards veri e propri, quantitativi, cogenti; le guidelines indicative che li precedono e affiancano, precisandone scopi e suggerendo soluzioni di massima.
Ancora, il caso di Fort Collins, Colorado, spicca nel panorama USA per originalità (e capacità comunicativa) di contenuti, metodo, formazione di un’opinione pubblica consapevole. Nelle parole del principale consulente tecnico della municipalità, lo studio associato Clarion di Denver, “le zone commerciali devono essere rese compatibili con le funzioni circostanti e il quartiere, essere progettate per ridurre al minimo gli impatti negativi del traffico, comprendere ampie zone verdi, e gli edifici devono possedere caratteristiche architettoniche attraenti”31.
Ed è proprio dalle caratteristiche architettoniche che partono le guidelines municipali sul grande commercio: un elemento apparentemente non di primissimo piano, ma la cui posizione in apertura al documento racconta anche abbastanza chiaramente la sua genesi in primo luogo partecipativa, in seguito tecnicamente rifinita e formalizzata. L’aspetto architettonico è infatti il primo e più evidente degli impatti dei big-box per il cittadino comune, anche per quello meno attento, o mestamente assuefatto a questioni certo altrettanto o più rilevanti, come traffico, inquinamento ecc.
Obiettivo degli standards e guidelines in questo caso è di evitare le enormi facciate cieche, l’aspetto anonimo, il sistema degli accessi agli edifici da un punto di vista percettivo. Ora:
si proibisce uno sviluppo uniforme delle facciate superiore a trenta metri. Oltre questa misura si devono provvedere rientri e sporgenze almeno sul 20% dello sviluppo lineare. Il fronte strada deve ospitare sul 60% finestre, tende da sole, portali
i piccoli esercizi inclusi in un solo edificio devono avere vetrine e ingressi individuali esterni
si suggerisce l’uso di scansioni ritmiche verticali e orizzontali riguardo ai colori, superfici, materiali
si impongono per le coperture parapetti e/o cornicioni aggettanti, tetti a falde, ad attenuare ulteriormente la forma di scatola
gli ingressi principali devono essere visibili e caratteristici, con pensiline, portici, arcate, arredi a verde.
Già ampiamente definite per gli aspetti strettamente funzionali e di relazione urbana, le interfacce del big-box rispetto alle strade e al quartiere circostante presentano anche aspetti particolari riguardo ai dettagli visivi e organizzativi, abitualmente ignorati nella logica di una progettazione anche nei casi migliori totalmente rivolta all’interno. Se la regolamentazione dell’aspetto architettonico dell’edificio o complesso partiva dalla percezione del consumatore e cittadino medio, la parte riguardante l’interfaccia visiva e funzionale si focalizza sui residenti del quartiere, nonché sugli operatori delle attività complementari e/o confinanti:
tutti i lati di contenitore commerciale direttamente affacciati su una strada devono avere almeno un’entrata per clienti. Se gli affacci sono su più di due strade, la regola vale solo per due lati
l’arretramento minimo è di 10 metri. Di fronte a spazi residenziali, si richiede un margine a terrapieno di almeno due metri piantumato
si devono contenere al massimo gli impatti visivi, acustici ecc. sul quartiere, delle parti di servizio per il carico/scarico, e gestione rifiuti, progettando queste sezioni inserite nell’insieme dell’insediamento
ogni insediamento commerciale deve fornire al proprio esterno spazi pubblici di quartiere: portico/area di sosta con sedili, fontana, piazza pedonale.
Di particolare interesse l’incentivazione dei flussi di traffico pedonale, dove si misura davvero, nella definizione minuta spaziale e delle strutture, il grado di affrancamento dalla monocultura automobilistica e dalla rigidità dei tre ambiti.
Il pedone secondo le nuove regole e indicazioni potrà avvicinarsi ai giganti con meno timore, perché tanto per cominciare lungo i lati affacciati su una strada devono scorrere marciapiedi di 2-3 metri. Poi tutto l’ambito commerciale, dall’edificio ai parcheggi alle zone di interscambio con la viabilità e il quartiere, deve essere attrezzato con un percorso pedonale chiaro e definito. Questo percorso sarà attrezzato a verde, con panchine, e altri arredi come ripari per la pioggia, per non meno del 50% dello sviluppo.
Nella stessa logica si pone la regola per i piazzali a parcheggio, che qui e in tutto il modo conosciuto sono l’inconfondibile marchio di fabbrica dell’insediamento commerciale. L’ordinanza promuove la localizzazione di queste strutture più vicino alle strade, e la discontinuità degli spazi a parcheggio, spezzettati secondo moduli separati da verde o altri elementi. Prima regola obbligatoria è che “non si localizzi fra la facciata principale e la strada principale, più del 50% dell’area a parcheggio”32. Apparentemente semplice, e però del tutto controcorrente rispetto alla media.
Questo solo per riassumere alcuni punti delle guidelines, che come ho suggerito nelle premesse vanno lette in stretta correlazione con gli altri strumenti di piano, specie di livello superiore. Quello di Fort Collins non è certo un caso unico, ma abbastanza raro sì, visto che “per una serie di ragioni, la grande maggioranza delle città hanno, o srotolato il tappeto rosso di benvenuto, o almeno approvato, brontolando. I negozi big-box offrono prezzi bassi e una grossa comodità, per una società sempre più povera di tempo. E per le amministrazioni locali che contano sulle entrate delle tasse commerciali per finanziare i servizi municipali, i grandi negozi big-box sono come manna dal cielo. La questione cruciale, per queste comunità è: in quali termini dare il benvenuto a queste grosse scatole?”33. Un benvenuto critico, ma pur sempre un benvenuto.
Certo esiste anche una non irrilevante posizione culturale che considera le grandi catene di distribuzione del tutto irrecuperabili alla logica democratica del confronto sulle regole, e colloca il momento della pianificazione urbanistica – dalle regional policies attraverso la strategia cittadina fino alle design guidelines – in un più ampio contesto che si caratterizza per l’opposizione frontale a Wal-Mart e simili.
Ma si tratta di posizioni difficilmente sostenibili proprio da parte dell’autorità urbanistica che, insieme agli altri settori di regolazione competenti, dovrebbe come nel caso di Fort Collins e delle altre comunità citate favorire il moltiplicarsi dei soggetti, purché su un piano di pari opportunità, e non favorire il “locale” contro il “globale”. Tutto questo ovviamente secondo una pura linea teorica, visto che anche dai paragrafi precedenti emerge la disparità fra big-box e comunità, come ripetuto l’azione dei comitati locali per quanto radicale è parte integrante e accettata della cultura del piano34.
(Qui la prima parte – Questo testo è un estratto dal terzo capitolo di F. Bottini, Nuovi Territori del Commercio, Alinea, Firenze 2005)
NOTE E RIFERIMENTI
1 Cfr. International Council of Shopping Centers, “Big Box” Retail Development … cit.
2 Wal-Mart, Our Pledge to Our Planet: Recycle, Conserve, Beautify, dal sito ufficiale http://www.walmartfoundation.org sezione Environment Commitment.
3 Non si tratta solo di critiche a carattere locale: un’indagine ufficiale promossa dall’EPA federale ha rilevato numerosissime violazioni di carattere urbanistico e ambientale degli insediamenti Wal-Mart soprattutto nell’inquinamento dell’acqua e nell’erosione del suolo. Cfr. Environmental Protection Agency, U.S. v. Wal-Mart Stores Inc. Fact Sheet, 12 maggio 2004. http://www.epa.gov
4 7 new big-box Wal-Marts are proposed in Vermont http://www.vnrc.org
5 Intervista della manager Wal-Mart, Mia Masten, a Maria Newman, “Endangered: Quaint Towns. Green Hills. Vermont!”, The New York Times, 24 maggio 2004.
6 National Trust for Historic Preservation, National Trust Names the State of Vermont one of America’s 11 Most Endangered Historic Places, comunicato stampa, Washington, 24 maggio 2004. http://www.nationaltrust.org
7 Questa breve citazione testuale, nonché il senso generale e gli esempi delle misure preventive, sono desunti e riassunti da: Constance E. Beaumont, Leslie Tucker, “Big-Box Sprawl and How to Control It”, The Municipal Lawyer, Vol. 43, n. 2, marzo-aprile 2002. Con ampia bibliografia.
8 Wisconsin Sierra Club, Protect Your Job and Community from Big Box Sprawl [2003] http://www.sierraclub.org/sprawl
9 Institute for Local Self-Reliance, Project New Rules/Retail, Regional Impact Review
10 Caratteristiche desunte da: State of Vermont, Environmental Board, District Commissions – Act 250 – Hearing Information
11 State of Vermont, Environmental Board, Act 250 – A Guide to Vermont’s Land Use Law, 2000 – Tutti i materiali ufficiali dello Environmental Board sono disponibili al sito http://www.state.vt.us/envboard – Il rapporto annuale dello Environmental Board relativo all’anno 2003, conta un totale di circa 500 progetti presentati per l’approvazione, di cui solo una decina respinti, e meno di venti che hanno presentato ricorso in appello. La tendenza generale sembra essere ad una diminuzione delle dimensioni medie dei progetti, e ad un loro crescente adeguamento ai criteri generali di compatibilità ambientale e socioeconomica. Cfr. Environmental Board Annual Report, febbraio 2004.
12 Perché qui e altrove l’accusa di dirigismo statalista, intralcio al libero mercato, e relative possibilità di ricorsi alle varie corti, è sempre in agguato. Per la regolamentazione degli insediamenti commerciali di scala minore nello stato del Vermont esistono ovviamente altri documenti di riferimento. Cfr. Vermont Forum on Sprawl & Vermont Business Roundtable, The New Models Project. The Report of a Partnership Project for Achieving Smart Growth in Commercial and Industrial Development, ottobre 2003;
13 Caratteristiche quantitative e qualitative desunte e riassunte da: Cape Cod Commission, Developments of Regional Impact (DRIs)
14 Lisa Schneiderman, Regional Governance in Cape Cod, Center for Urban and Regional Policy – Northeastern University, Boston
15 “La pianificazione territoriale regionale può funzionare meglio in aree di dimensione sub-regionale dove città e abitanti non sono estranei gli uni agli altri. … Il Massachusetts è abbastanza piccolo perché il governo dello stato possa operare in rete regionale, e lo ha fatto negli anni ‘80. … Forse l’esperienza di Cape Cod può essere usata per creare alcune forti collaborazioni sub-regionali fra municipalità”. Robert W. Smith, Regional Land Use Planning and Regulation on Cape Cod: Reconciling Local and Regional Control, University of California, Berkeley, Department of City and Regional Planning, febbraio 2002.
16 Commonwealth of Massachusetts, Act of Establishment, Cape Cod Commission, 1990, Section 9 (d) http://www.capecodcommission.org/act.htm
17 “In un insediamento mixed-use, dobbiamo decidere come organizzare reciprocamente questi usi l’uno rispetto all’altro. I convenzionali controlli nell’uso del suolo, che separano attività considerate incompatibili, non sono più molto utili. Con l’eccezione della grande industria e del commercio big-box, la compatibilità non è un problema, se le unità sono di piccola dimensione ed esteticamente controllabili”. Environmental Protection Agency, Smart Growth Best Development Practices s.d.
18 Questioni generali desunte e riassunte da: “Big Box Retail”, OSPlanning Memo, cit., par. Municipal Master Plan.
19 Jonathan Walters, “Anti-Box Rebellion. There’s no easy way for a small community to fight monster retailers. But there’s a right time to do it: before they show up”, Governing Magazine, luglio 2000. La frase riportata nel testo è di Al Norman, già citato nelle note precedenti.
20 Michael Chandler, “The 21st Century Comprehensive Plan”, The Planning Commissioners Journal, n. 31, estate 1998.
21 Ordinance n. 111 (1994) of the Council of the City of Fort Collins Establishing a Temporary Suspension of the Processing of Applications for Retail “Superstores” Within the City for a Period of Six Months disponibile anche sul sito: Institute for Local Self-Reliance, Project New Rules/Retail, Development Moratorium, Fort Collins, Co.
22 Idem. Le superfici espresse in metri quadrati, qui come in tutti gli altri casi, sono restituite arrotondando gli square feet del testo originale a cifre tonde indicative.
23 Cfr. Town of Easton, Big Box Moratorium Info.
24 Indicazioni riassunte da: More on the Struggle with Big-Box Retailers, sul sito Small Cities US, – È disponibile anche un Memorandum/accordo fra la municipalità di Evanston e la Wal-Mart, dove la grande catena si impegna ad osservare alcuni criteri organizzativi interni ed esterni al proprio punto vendita, orientati soprattutto a sostenere la vitalità commerciale complessiva della zona.
25 Fort Collins è un insediamento piuttosto recente, dato che nasce nel 1863 come stazione di posta per lo Overland Trail. La popolazione al censimento 2000 era di circa 120.000 abitanti. Una delle particolarità locali, certo non ininfluente riguardo agli alti livelli di partecipazione e aspettative di qualità urbana, è il fatto che Fort Collins ospita l’università statale del Colorado.
26 Fort Collins, Colorado, City Plan. Adopted February 18, 1997, Updated May 4, 2004, Community Vision and Goals/Land Use, p. 18.
27 City Plan … cit, Principles and Policies/Commercial Districts, p. 200.
28 Punti desunti e riassunti da: City of St. Petersburg, Development Services, Comprehensive Plan, capitolo 2, Future Land Use Element. Materiali disponibili al sito della municipalità http://www.stpete.org/
29 Nel piano generale di Fort Collins il commercio appare non solo articolato fra la main street del distretto centrale e i poli di quartiere e di scala regionale, ma proposto già a livello di schema generale secondo classificazioni sfumate, dove trovano via via posto ruoli diversi della medesima tipologia, a seconda del contesto. A livello di community vision le zone commerciali sono proposte contestualizzate in: Downtown; Community Commercial Districts; Commercial Districts;Employment Districts; Neighborhood Commercial Centers. All’interno delle policies, si può poi verificare come queste definizioni non stiano semplicemente a indicare una maggiore raffinatezza nello zoning, ma rappresentino una proposta/sfida agli operatori commerciali e immobiliari, a introdurre criteri innovativi che possano trarre frutto da un contesto complesso di valorizzazione.
30 OSPlanning Memo, cit., par. Zoning and Development Regulations, p. 6.
31 Dal sito ufficiale dello Studio: http://www.clarionassociates.com – Una pubblicazione del principal di Studio, Christopher Duerksen, probabilmente chiarisce già nel titolo l’approccio culturale che emerge anche dalle linee guida per Fort Collins: Aesthetics and Land-Use Controls: Beyond Ecology and Economics, APA Planning Advisory Service, 1986.
32 City of Fort Collins, Community Planning and Environmental Service, Design Standards and Guidelines for Large Retail Establishments, 1997, Parking Lot Orientation, p. 10.
33 Chris Duerksen, Robert Blanchard, Belling the Box: Planning for Large Scale Retail Stores, Relazione alla Conferenza annuale della American Planning Association, 1998.
34 Decisamente a favore di uno squilibrio in direzione del commercio a radicamento locale, in una logica prettamente “alla Jane Jacobs”, Cfr. Stacy Mitchell, “Protecting Locally Owned Retail. Planning Tools for Curbing Chains and Nurturing Homegrown Businesses”, Main Street News (mensile del National Trust), febbraio 2004.