Aerotropoli e la patacca dell’utopia urbana tecnologica

Premessa

Di questi tempi, come accade ahimè troppo spesso, la stampa italiana scopre con notevolissimo ritardo e altrettanto notevole superficialità la company town aeroportuale inventata da un consulente aziendale per promuovere gli interessi propri e di qualche impresa del settore, oltre che degli speculatori che sempre le grandi trasformazioni territoriali si tirano appresso. Come dovrebbe apparire ovvio a chiunque, chiamare «città» un insieme di superfici e contenitori con gente che va e viene è non solo improprio, ma anche colpevolmente fuorviante. Una svista che non è però sfuggita a suo tempo a più critici osservatori internazionali di cui avevo tradotto diversi contributi quando uscì il primo libro dedicato. Ne ripropongo di seguito due (f.b.)

Karrie Jacobs, Urbanistica fai da te, Metropolis, febbraio 2011 – Titolo originale: Quick-Fix Urbanism – Traduzione autorizzata dall’Autrice http://www.karriejacobs.com di Fabrizio Bottini

Quando ho iniziato a imbattermi nello scrittore Greg Lindsay, più o meno dieci anni fa, lui sperava di costruirsi un proprio reality show televisivo. Nel quale abitava in aeroporto. Un progetto mai realizzato. Più tardi ho appreso che Lindsay aveva un contratto per scrivere un libro, qualcosa riguardante l’aeroporto come città, e ho pensato che sarebbe andato a dormire nei terminal, nutrendosi di yogurt, descrivendo un’esperienza urbana un po’ come Ryan Bingham nel suo Up in the Air.

Alla fine dell’anno scorso mi è stata anticipata una copia di Aerotropolis: The Way We’ll Live Next (uscirà da Farrar, Straus & Giroux), che mi ha sorpreso per due motivi. Primo, non parla degli aeroporti in quanto tali. Il libro è sull’aeroporto come motore economico centrale, cuore pulsante di una nuova città, che si alimenta del trasporto aereo così come un centro portuale tradizionale poteva prosperare su olio di balena o cacao. Secondo, il libro ha un co-autore, John D. Kasarda, professore di economia aziendale all’Università del North Carolina e consulente giramondo, che ha trascorso gli ultimi decenni vendendo a svariati governi la sua visione della aerotropoli. Il nome di Kasarda si guadagna il posto d’onore, ma la divisione del lavoro viene spiegata così: «Le parole sono tutte mie — sono Greg Lindsay — ma la struttura portante è di Kasarda». Al co-autore ci si riferisce poi sempre in terza persona, mentre Lindsay si riserva un personale «Io».

Cos’è esattamente una aerotropoli? Una città costruita attorno a un aeroporto, più grande è meglio è, dove nella fascia immediata si produce e/o si scambia, il tutto dipendente dal trasporto aereo, poi un anello di centri commerciali e alberghi, seguito da un altro anello di quartieri residenziali. In cui l’aeroporto non è affatto un fastidio, messo il più lontano possibile, ma al cuore della città, la sua ragion d’essere. Il libro vanta un punto di vista controcorrente sul tema della città, un po’ come a suo tempo Joel Garreau con Edge City (Anchor, 1991) o Robert Bruegmann col suo Sprawl a compact history (The University of Chicago Press, 2005). Due lavori che da un punto di vista economico e sociale difendevano uno stato delle cose esistente, sostenendo che ciò che quasi tutti considerano un male è in realtà un bene. Aerotropoli ha un obiettivo in qualche modo più ambizioso: dare un nome e un sostegno a una forma urbana che si nutre di globalizzazione e la alimenta.

Lindsay è un giornalista straordinariamente efficace (scoperta: abbiamo lo stesso agente letterario), e fra le grandi qualità del libro ci sono le ottime e approfondite ricerche svolte per l’occasione. Il settore dei trasporti merci via aereo, che si tratti dell’hub UPS di Louisville o del mercato dei fiori di Aalsmeer vicino a Schiphol, non ha mai avuto un cantore tanto appassionato. Ma ci sono dei momenti in cui si vorrebbe che Lindsay si fermasse un istante a tirare il fiato, fare un passo indietro, offrire qualche spunto di analisi, invece di continuare ad ammucchiare notizie. Un problema strutturale. Se Kasarda fosse solo l’argomento del libro, anziché il co-autore, Lindsay si sentirebbe più libero di criticarne le teorie, cosa che fa solo ogni tanto. Parla di alcuni progetti non riusciti di Kasarda, come la aerotropoli nel suo stato, il North Carolina, realizzata senza accessi diretti all’autostrada: «Kasarda è rimasto sorpreso quando l’hanno preso in parola, riguardo al fatto che la localizzazione non conta».

Il fenomeno aerotropoli — problema emergente nel nostro paese, specie attorno allo hub FedEx di Memphis (probabilmente anche a Seattle, sede della Boeing ma caso vistosamente assente dal libro) — è qualcosa di letteralmente scatenato in Asia. La Cina, naturalmente, sta realizzando un aeroporto dopo l’altro, in molti casi per spostare le attività economiche dall’intasatissima area del delta del Fiume delle Perle verso le isolate città dell’ovest. Ne discende che la nostra riluttanza negli Stati Uniti a investire in aeroporti nuovi e migliori, più relative infrastrutture, ci condannerà all’emarginazione dai mercati globali. Non è una cosa proprio nuova. La faccenda più intrigante del libro, che mi sarebbe piaciuto vedere con un ruolo anche più centrale, arriva verso la metà, nel capitolo intitolato Aerotropoli o Crollo. È il racconto di una visita di un gruppo di persone dell’area della Grande Detroit, tutti allievi di Kasarda, in Olanda per studiare il caso di Schiphol. Lindsay descrive efficacemente i tanti mali di Detroit, via via mettendo in discussione le basi della tesi del suo co-autore: «Kasarda propone che le città siano costruite dalle grandi imprese per le grandi imprese, la loro esistenza garantita dall’essere fatte su misura per le esigenze della clientela: a partire dall’aeroporto. Ma è esattamente quello che è successo a Detroit».

Una città su misura per l’industria automobilistica, e che muore insieme ad essa. La soluzione proposta dal libro — consideriamola una specie di rimprovero al movimento dei cosiddetti localovori — non è certo quella di coltivare spazi in edificati o trasformare case abbandonate in opere d’arte concettuale, ma una zona di scambi «senza attriti» (terminologia di Kasarda) attorno all’aeroporto. Attività di ricerca e sviluppo in questa fascia consentirebbero ad esempio agli ingegneri oggi disoccupati di Detroit di lavorare per le fabbriche automobilistiche cinesi senza spostarsi da casa. Qualche settimana dopo la visita, uno dei componenti del gruppo, Doug Rothwell, espone il programma Verso un Rinascimento, basato su una aerotropoli. Un gruppo di studenti di architettura di Ann Arbor ci aggiunge la visione di spazi in stile New Urbanist con metropolitane, un grosso nodo di edifici terziari, tanti pannelli solari. Beh: quel capitolo mi ha lasciato con la curiosità di scoprire cosa ne sia stato, di quel «rinascimento».

E poco tempo fa via e-mail Lindsay mi ha aggiornato sul caso di Detroit: «Il progetto avanza a tutto vapore — le esenzioni fiscali necessarie ad attirare nuove imprese sono diventate legge il mese scorso; altre due industrie automobilistiche cinesi dovrebbero trasferire qui le attività di ricerca e sviluppo — e mancano poche settimane all’annuncio ufficiale». Mentre sembrano scomparse le idee degli architetti. «Nessuno sta parlando di urbanistica». E forse è la cosa che mi lascia più perplessa di tutto il libro. Per essere una proposta di «come vivremo» non dice in realtà molto della vita. Tutto ruota attorno alla formula di un consulente per la competitività economica. Da questo punto di vista, non è molto diverso dai lavori di Richard Florida, ma dato che non è scritto direttamente dal teorico (indipendentemente da quanto dice la copertina), manca di spirito predicatorio. Va bene, dovremmo investire di più in aeroporti. E va bene, certo che va benissimo, anzi sarebbe meraviglioso se qualcuno iniziasse a far qualcosa per quell’ammasso di attività che in genere si concentrano attorno agli aeroporti. Ma quale sia la prospettiva per trasformare il tutto da una «arma» economica, per dirla con Lindsay, anche in spazio urbano abitabile, non occupa gran posto nelle pagine del libro.

Gli aeroporti non funzionano per magia. Quelli che vanno bene, di solito amplificano qualità esistenti: gli olandesi si occupavano di tulipani già da 300 anni, quando i fratelli Wright presero il volo, e Hong Kong era un nodo centrale dell’economia mondiale anche all’epoca in cui l’aeroporto era vecchio, sovraffollato e faceva anche un po’ paura. Il mercato dei fiori olandese si avvantaggia dalla vicinanza di Schiphol? Ovvio. E ci ha guadagnato Hong Kong chiudendo il terribile Kai Tak e realizzando negli anni ’90 una aerotropoli di livello mondiale, completa di torri ad appartamenti, strade e collegamenti ferroviari? Certo che si. Ma sono cose che si scoprono solo a pagina 382 (su 415) visto che (a quanto pare) Chek Lap Kok non è un progetto di Kasarda. Anche Dubai, dove si dimostra come un buon aeroporto (con compagnia aerea statale) possa far materializzare una città dal nulla, in un primo tempo ha verificato il valore economico di un’area di libero scambio nel Golfo Persico col suo modernissimo porto.

Riuscirà a riprendersi Detroit, usando il proprio aeroporto come risorsa strategica, motore per l’esportazione? Speriamo. Ma l’insegnamento inconsapevole di questo libro è che qualunque arma economica può essere resa obsoleta da un’altra. All’inizio, Lindsay parla dello hub FedEx progettato da Kasarda a Subic Bay, ex base della Marina Usa nelle Filippine. Nel 1995, la struttura era una «garanzia Kasarda». Solo dieci anni dopo, la FedEx decideva di spostarsi all’Aeroporto Internazionale di Baiyun a Guangzhou, Cina: «L’aerotropoli [di Baiyun] punta in alto, ai produttori di microchip e schede stampate attorno all’ex nodo FedEx di Subic Bay». La Cina aveva attirato la FedEx con piste a profusione e quantità illimitate di carico. Una aerotropoli può facilmente sostituirne un’altra. E invece le città vere, non sono tanto intercambiabili.

Jay Merrick, Aerotropoli, come abiteremo, The Independent, 4 marzo 2001 – Titolo originale: Aerotropolis: The Way We’ll Live Next – Traduzione di Fabrizio Bottini

Lo scrittore JG Ballard definiva l’aeroporto «vera città del XXI secolo». Molti anni prima di lui, l’architetto Le Corbusier dichiarava:«Una città costruita per la velocità è costruita per il successo». Due idee che provocatoriamente si fondono in un libro su un argomento apparentemente troppo gigantesco, di logistica commerciale globale, che sia Ballard che Le Corbusier avrebbero trovato assolutamente affascinante: ma per due motivi assai diversi. Aerotropolis spiega, con un linguaggio molto accessibile che si muove dentro a un labirinto di particolari, come si possano oggi comprare da Marks & Spencer delle rose, raccolte il giorno prima il Olanda; o perché un terzo di tutte le merci mondiali si sposti per via aerea, producendo solo il 2% delle emissioni; perché tutte le attività UPS del WorldPort si svolgano in uno scatolone vicino all’aeroporto di Louisville che è più grosso di tutto il centro di St Louis; perché la Cina sta progettando la costruzione di decine di «aerotropoli»; e infine, per usare le parole del co-autore, guru di economia aziendale e consulente globale americano John Kasarda:«Non sono le singole imprese a competere. Lo fanno le catene di fornitura. Sono i sistemi e le reti a competere».

Aeroporti come Schipol a Amsterdam, quello di Dallas-Fort Worth, o il Dulles di Washington, sono le aerotropoli originali. Organismi urbani multifunzionali che si estendono ben oltre lo scalo, a comprimere tempo e spazio delle decisioni, e lo«spostamento» di persone e cose: superconduttori di beni, idee, strategie. I prezzi del petrolio? Non contano tanto quanto il tempo che si può perdere. Il petrolio sta finendo? Nessun problema: il sistema del futuro, la precisissma NextGen delle tecnologie a reazione taglia sino a un terzo i consumi. E comunque si stanno perfezionando biocarburanti dalle alghe e dagli Ogm. L’aerotropoli dimostra straordinarie capacità di riqualificazione urbana. Memphis è rinata grazie a una aerotropoli dove hanno sede oltre 100 imprese internazionali, dopo che la FedEx ne aveva fatto il suo nodo centrale di distribuzione. Ci sono aree residenziali a pochi minuti in macchina dallo scalo di Dallas-Fort Worth e dall’aeroporto Dulles con valori immobiliari fra i più alti d’America.

Greg Lindsay ha analizzato in profondità queste aerotropoli e i vari soggetti coinvolti. Scrive molto bene a arricchisce il tutto di particolari; specie i paragrafi dedicati alla Cina sono stimolanti. Un libro che diventerà lettura obbligata per economisti, studiosi di organizzazione aziendale, architetti, urbanisti, sociologi, e probabilmente parecchi altri saggisti e romanzieri. Lo spunto polemico è brutalmente semplice: o si accetta l’aerotropoli, o sarà il caos, la vita diventerà insopportabile. Ma dalle pagine emerge anche un certo fondamentalismo. Certo non è possibile deplorare in assoluto questa crescita del ruolo delle aerotropoli nell’organizzazione urbana o dal punto di vista architettonico: superba efficienza commerciale. E c’è anche uno strano fascino in tutta questa idea di città logistiche.

Anche con qualche dubbio etico a proposito, ci sono molti milioni di persone che così possono guadagnare soldi che non avrebbero mai visto restando nei ghetti di produzione le cui spoglie passano attraverso l’aerotropoli. Difficile anche negare il più volte ribadito rapporto fra aeroporti e crescita delle città: l’aeroporto se ne va dalla città, la città segue l’aeroporto, l’aeroporto diventa la città, dando vita a stuoli di quadri intermedi specializzati in «revenue evaporation» o magari «fulfilment operations». Ma che effetto avranno poi nei cinquant’anni a venire sulla nostra psicologia, sui nostri comportamenti, questi sviluppi urbani completamente delegati al nodo aeroportuale? Il libro non risponde, almeno con qualche profondità, alle sfide esistenziali innescate da questi luoghi senza identità. Un tipo di psicopatologia affrontata già nel 1956 dall’artista Constant Nieuwenhuys con la sua Nuova Babilonia in cui «la gente viaggia costantemente. Nessun bisogno di tornare al punto di partenza, che comunque nel frattempo sarebbe già tutto diverso».

L’architettura dell’aerotropoli che emergerà nella Corea del Sud o in Cina nel Delta del Fiume delle Perle, nodo produttivo dominante mondiale, sarà una tundra di acciaio e vetro con appesi campi da golf e qualche casinò. A Nuova Songdo, il collage urbano propone gli stilemi di «città che tutti amiamo, riciclati come elementi compositivi». A Shenzhen o Guangzhou (dove la FedEx progetta la sua aerotropoli che dovrebbe produrre un volume d’affari di 65 miliardi di dollari entro il 2020), paiono di gran moda architetture distruttive, invece del solito vacuo pastiche. «I grandi aeroporti sono già il suburbio di una invisibile capitale mondiale» scriveva Ballard, «una metropoli virtuale i cui quartieri si chiamano Heathrow, Kennedy, Charles de Gaulle, Nagoya, città centripeta la cui popolazione orbita in eterno attorno a un centro teorico, senza mai intravederne il cuore di tenebra». Un’oscurità che però si rende visibile in Aerotropolis, particolarmente esplicito a pag. 358, con una sola frase la cui raggelante utopia sarebbe stata descritta da Ballard nei toni della più maligna satira:«La promessa implicita di un mondo sostenibile è che sei miliardi e mezzo di persone– o nel giro di quarant’anni, nove miliardi – possano vivere come oggi gli americani, senza penalizzare il pianeta».

É tutto un altro tipo di oscurità quello in cui sopra Memphis o St Louis, a Subic Bay nelle Filippine, a Las Colinas in Texas, jumbo e 777s perpetuamente riempiono senza attriti l’aria della notte. Le linee geometriche dei loro spostamenti, i loro carichi lievemente vibranti di giocattolini regalo di plastica, farmaci per chemioterapia o iPad, non appartengono più al mondo della satira di maniera, ma avanzano via via che si sviluppa la trama dell’opera gentilmente offerta dal mondo dell’impresa, in cui le nostre vite sono ridotte all’inseguimento delle due virtù essenziali: super-efficienza, e consumo compulsivo di un terminal.

Si vedano anche, su questo sito, gli articoli collegati al tag «Aeroporti», link in fondo alla pagina, oltre al mio «Cielo Grigio Su» 

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