Agricoltura autenticamente urbana

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Foto F. Bottini

Che cosa differenzia la città dalla campagna? Pare una domanda scema parecchio, ma forse non ce la poniamo con la dovuta fermezza davanti alle promesse vaghe dell’altrettanto vaga idea contemporanea di agricoltura urbana. Ci raccontano, le mode e tanti studi più o meno settoriali, di quanto sia bello giusto e pure carino mettere i peperoni al posto del geranio sul davanzale, strappare via capannoni per farci orti di quartiere, e ovviamente di quanto in genere (almeno se non piove) sia tanto più bello aggirarsi per spazi aperti anziché chiusi. Ma di una cosa si parla assai meno: quanto e cosa produce tutto questo nostro agitarci, in termini di qualità? Una risposta, abbastanza sconcertante se la leggiamo in tutta la sua enormità, ce la danno le premesse della filosofia vertical farm: il trionfo della città nel terzo millennio, di fatto sancisce il fallimento di diecimila anni di storia agricola così come la intendiamo oggi, ovvero trasformazione colturale produttiva di spazi aperti. E torniamo alla differenza fra città e campagna, almeno da quel punto di vista: la campagna dà da mangiare, la città quel mangiare lo consuma. Punto.

Cosa è agricoltura urbana, oggi

Lo spazio urbanizzato è sterile, quello libero può essere produttivo, e si può chiamare agricoltura urbana. Detto così pare semplice, ma appunto se confrontiamo le forme della città con quelle della campagna, dovrebbe saltare evidente all’occhio che c’è qualcosa che non va. Esattamente come un capannone industriale è diverso da una bottega artigiana, o da uno studio professionale, o da un laboratorio sperimentale, così lo spazio urbano e quello rurale hanno caratteri diversissimi. Non basta tanta fantasia e buona volontà, esattamente come non basta mettere un letto e uno scaffale nell’angolo di un capannone, e ribattezzarlo loft, per concepire nuovi modi dell’abitare. Il profeta della vertical farm, Dickson Despommier, sviluppa un ragionamento radicale e provocatorio: la città è il regno dell’artificiale, ma ormai anche la campagna lo è, e questo fa malissimo all’ambiente e alla nostra vita. Per recuperare naturalità, dobbiamo sottrarre alle campagne la produzione agricola impattante, e portarla dentro i contenitori high-tech verticali metropolitani. Questo, è un modello di agricoltura coerente, e coerente con diecimila anni di storia dell’umanità stanziale e civile! Ma resta ovviamente il problema di che farne del prezioso peperone sul davanzale della Zia Pina, o dell’orto sociale invece del capannone delle segheria, che ne sarà di loro?

Di notte tutte le vacche sono pezzate

Ovvio che il radicalismo di Despommier, oltre che predicatorio e a sostegno della sua idea, possa anche essere utilmente interpretato. La piccola serra o le arnie delle api sul tetto dell’ufficio, la fattoria didattica nella green belt urbana, la vigna sperimentale sul pendio liberato dal vecchio cementificio, vanno tutti benissimo: svolgono (possono svolgere se ben contestualizzati) una funzione culturale, ambientale, di spazio pubblico, e marginalmente produttiva, il che non guasta e arricchisce il resto. Diciamo che gli orizzonti sono quelli di un verde urbano non più esclusivamente ornamentale e ricreativo, ma assai più complessi, e del resto gli igienisti queste cose già le sapevano all’alba della città moderna, mica le scopriamo oggi. Il vero problema pratico, di politiche municipali e non solo, è quello di concentrarsi sulle questioni vere, che sono sociali e ambientali, non alimentari e produttive. Esistono pericoli sanitari legati ad alcuni luoghi, dove magari si potrebbe abitare o piantare giardini tradizionali senza alcun rischio, ma dove invece si rischia raccogliendo fagioli o patate e poi mangiandoli. La questione non è tanto di bonificare, o meglio non solo: a volte la cosa richiederebbe troppo tempo, o troppi soldi che al momento non ci sono. Ed ecco spuntare una soluzione praticabile: informare i cittadini, e governare intelligentemente le piccole pratiche di trasformazione locale. Un approccio frattale a un problema planetario? Verificare per credere. In fondo anche la rivoluzione agricola/urbana diecimila anni fa deve essere cominciata con uno scimmione, che stava lì fermo pensoso ad aspettare che maturassero le bacche, invece di seguire il branco nella migrazione attraverso le perigliose savane.

Riferimenti:

Cornell University, What Gardeners Can Do: 10 Best Practices for Healthy Gardening

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