Uno di punti dirimenti a proposito dell’esistenza o meno di una destra o di una sinistra politica, nello scenario postmoderno metropolitano, è ovviamente quello sociale. Tutti hanno certamente presente, per esempio, i legittimi dubbi sulla collocazione conservatrice o progressista dell’ex sindaco di New York, Micheal Bloomberg, per tutti i mandati coerente paladino di una tutela ambientale per nulla di facciata, che andava dalla qualità dell’aria, all’abitabilità dei quartieri, alla mobilità, alle resilienza complessiva al cambiamento climatico (ci ricordiamo dell’esperienza con l’uragano Sandy). E anche allo scontro con certe lobbies economiche e di interessi, quando necessario, pur di riaffermare la centralità della questione ecologica in senso lato: cosa c’è di più progressista di così? Eppure, è bastato il cambio della guardia con la sinistra politica rappresentata dal «tradizionalista» Bill de Blasio, sindaco attuale della Grande Mela, per evidenziare la netta persistente differenza fra una politica liberale e una sociale, e se non altro chiarire quell’equivoco che ci vorrebbe sempre far semplificare al massimo: i buoni tutti da una parte, i cattivi dall’altra. Non è affatto così, perché se certi avanzamenti poniamo nella qualità abitativa teorica si pagano allontanando intere fette di abitanti (è accaduto a residenti e esercizi commerciali nel decantato quartiere della High Line, e non solo), appare ovvio che il «progresso» per pochi privilegiati è molto relativamente tale. E via dicendo, dalle case economiche, alla mobilità dolce che esclude, al verde accessibile solo per chi vive nei carissimi quartieri adiacenti.
Le attività post-moderne di massa
Uno degli aspetti meno evidenti di questa riqualificazione urbana – newyorchese e non newyorchese – apparentemente tutta virtuosa per ché amica dell’ambiente e di tanti corollari trendy è la desertificazione dei posti di lavoro urbani tradizionali, che va ben oltre il classico ciclo della deindustrializzazione tanto praticato teoricamente e amministrativamente dalla sinistra. Con le grandi fabbriche prima se ne vanno gli operai, poi a stretto giro le imprese minori dell’indotto (anche dell’indotto che non sa neppure di esserlo) e relativo lavoro, poi gli esercizi commerciali che si rivolgono a questa fascia di ceti sociali. Salvo, naturalmente, l’eventuale capacità di adattamento al nuovo contesto, che è in sostanza il tasto su cui ribattono ostinatamente i fautori della gentrification buona come panacea di tutti i mali. Ma si è iniziato abbastanza presto a capire che anche certi scenari come quello della famosa creative class urbana emergente, i giovani delle nuove professioni che vanno a riempire le nicchie socioeconomiche e spaziali lasciate dalla città industriale, sono quasi sempre teorici, tutto lo straparlare di startup innovative, insomma, si riduce a ben poco, giusto qualche caso «pilota» che non ci guida da nessuna parte. Ma qui entra in campo quello zoccolo duro che sinora mancava, ovvero l’idea forte di città postindustriale davvero alternativa a quella delle fabbriche, e non semplicemente terreno di caccia per speculatori finanziari o stilisti globalizzati senza alcun serio rapporto col territorio locale. Perché il nuovo settore, di sicuro in qualche modo vincente e localmente avvitato, è quello di farla vivere, la metropoli: niente meno che darle da mangiare bere e respirare.
Infrastrutture verdi umane
Perché la produzione, distribuzione, innovazione alimentare, assai oltre le pur visionarie immagini di certi studi di architettura che si sono immaginati torri vertical farm a partire da alcune intuizioni di Dickson Despommier, si sta già rivelando uno sterminato campo di creazione di nuove professionalità, posti di lavoro, interi comparti. Sbaglia chi, seguendo la moda un po’ reazionaria di immaginarsi catastrofi ambientali e medioevi prossimi venturi, fa l’equazione fra colture cittadine e modello Detroit da cartolina, ovvero pura scomparsa di quartieri costruiti per far posto a ubertosi campi arati. Si parte dalle radici, con un concetto di planning integrato e resiliente lontano mille miglia sia dai classici modelli regionali autocontenuti, sia dalle semplificazioni high tech della fabbrica idroponica laboratorio atterrata come un’astronave aliena tra i quartieri. L’urbanistica per l’agricoltura integrata mescola le infrastrutture a rete verde, direttamente produttive e non, ai sistemi di residenza, attività economiche, servizi, trasporti, dove l’idea di chilometro zero assume senso ben lontano da quello ruralista di certa compiaciuta pubblicità. Accanto alla produzione alimentare vera e propria, nelle varie strutture al suolo o tecnologicamente sovrapposte, ci sono trasformazione, confezione, distribuzione, promozione, e infine ricerca e formazione. In altre parole la città postmoderna che studia sé stessa per riprodursi in forme innovative, innescando un feedback analogo a quello dell’epoca industriale, che chiude il cerchio. E se il passaggio è ben gestito lo chiude «a sinistra».
Riferimenti:
Next generation of urban farmers to handle future food production of vital importance, Farming Uk, 7 aprile 2016