Quando si critica (benevolmente) certo approccio ideologico, o rigidamente militante, alle nuove funzioni urbane emergenti del terzo millennio, non lo si fa certo perché non si ritengano quelle funzioni del tutto positive, adeguate, sostenibili e compagnia bella. Accade ad esempio con la mobilità, che tutti vorrebbero comoda, non inquinante, poco invadente nelle strutture dedicate, ma che a volte proprio concedendo troppo all’uno o all’altro rischia di diventarlo, invadente, a scapito di questa o quella modalità. Accade con certe funzioni nuove o tradizionali, che in teoria invocate a conferire vitalità, sicurezza, controllo, finiscono spesso e volentieri per interferire con altre: dalla movida serale, alle limitazioni del traffico e pedonalizzazioni, che se introdotte un po’ ideologicamente (ovvero senza la necessaria gradualità o ascolto) favoriscono gli uni penalizzando troppo altri, ovvero almeno sui tempi brevi falliscono l’obiettivo. La stessa cosa si può dire del complesso ciclo ambientale/alimentare urbano.
L’attività agricola e orticola nelle aree cittadine e periferiche ha notoriamente una storia piuttosto lunga e gloriosa, che solo nel ‘900 conta momenti di grande visibilità, ad esempio con i cosiddetti orti di guerra, o in Italia come elemento fondativo dell’urbanistica moderna nel concetto di intercittà. Ma è solo da alcuni anni, che lo spazio dedicato a verde produttivo inizia ad assumere il ruolo complesso attuale. Se volessimo fissare tra tante una data di nascita del ciclo alimentare metropolitano contemporaneo, potremmo scegliere ad esempio il 2007, anno in cui i coniugi giornalisti di Vancouver, Alisa Smith e James B. MacKinnon, pubblicano per i tipi della Random House il loro Plenty, storia di un anno di sperimentazione diretta della cosiddetta “dieta delle cento miglia”. Che si riassume nel progetto di alimentarsi in modo esclusivo con quanto viene prodotto entro un raggio di circa 150 km dalla propria abitazione urbana: una distanza apparentemente notevole, ma che presto all’atto pratico si rivela non priva di problemi, almeno se si vuole seguire alla lettera l’impegno. Perché appunto un conto è pontificare al bar di chilometro zero, ma altro conto verificare davvero e su tutto quanto si mangia e beve la provenienza, evitando anche gravi scompensi alimentari.
Basta pensare, solo per fare un esempio, la rituale ma non solo uscita in barca nell’oceano, a raccogliere al largo un grosso contenitore d’acqua marina pura da cui poi ricavare il sale, alimento essenziale ma di solito non considerato. La cosa più interessante, direi intrigante, del racconto di Smith e McKinnon, a parte certi aspetti inediti del sistema agricolo metropolitano, è cogliere sino a quale punto la loro dieta delle cento miglia debba forzatamente avere una impostazione ideologica e militante. Forzatamente, non solo perché le attività produttive alimentari cittadine (a Vancouver come nel resto del mondo, un po’ di più, un po’ di meno) sono tutt’altro che inserite organicamente nel tessuto fisico, sociale, economico della grande metropoli, ma soprattutto perché vivere di ciò che produce il territorio locale obbliga al fai da te più improvvisato per il passaggio dal campo al piatto. Non è un caso se in altre grandi città nordamericane una recente esperienza di coltura tecnologicamente e socialmente innovativa, ma assai florida sul versante produttivo e della visibilità, come Growing Power, ancora stenta a vedere chiaramente un canale di sbocco commerciale. Il vero punto debole, oggi, del rapporto fra agricoltura a chilometro zero e società locale è rappresentato dai legami a dir poco deboli con la distribuzione.
Certo in molti casi grazie a gruppi di acquisto solidali, meccanismi organizzati di autoconsumo, accordi con enti pubblici, ciò che cresce nelle periferie o nei lotti inedificati delle grandi città riesce a proporsi felicemente sulle tavole dei consumatori, ma siamo sempre nel campo della buona volontà, dell’improvvisazione, della precarietà. Suona così particolarmente significativa la vicenda di una azienda agricola a orientamento sociale di Vancouver, che cerca decisamente di coprire anche questa lacuna della distribuzione, per quanto in modo autogestito con un negozio proprio o qualcosa di simile. Perché i prodotti dei campi e degli orti, pena il restare poco più che testimonianza di una potenzialità teorica, devono trovare uno sbocco normale in canali altrettanto locali, e se possibile via via anche in quelli già esistenti della distribuzione organizzata. I modi saranno quelli decisi dal rapporto tra domanda e offerta, oltre che dalle specifiche strategie degli operatori e delle società locali (ivi compresi i sostegni pubblici), ma è certo che se si vuole raggiungere davvero qualche tipo di equilibrio, la strada sia questa, magari con più serietà e controllo di quanto non sia avvenuti con le produzioni biologiche.
Riferimenti:
Randy Shore, Vancouver urban farm looks to open retail locations, The Vancouver Sun, 1 maggio 2014
La mia recensione all’allora appena pubblicato Plenty, di Alisa Smith e James B. MacKinnon, su Mall col titolo Ascolto il tuo stomaco, città