Alla ricerca della sostenibilità urbana

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Foto M. B. Style

A volte si esagera col metodo induttivo, magari un po’ per via della moda a femminilizzare eccessivamente tutto oggi, in reazione a quanto si faceva in passato sbilanciandosi sulle grandi categorie, magari anche perché in concreto abbiamo sotto mano pochino, oltre all’esperienza quotidiana e personale, da proiettare sull’universo cavandoci conclusioni varie. Ma così si finisce per ragionare, individualmente come collettivamente, pensando (errore madornale e frequentissimo) che semplificare strumentalmente in un senso abbia già poi segnato la strada per semplificare procedendo in senso inverso. E si finisce così per proiettare piccoli progetti su grandi piani, l’economia domestica sullo sviluppo sociale ed economico, la bottega sulla grande azienda e via di questo passo. Però come ci avvertivano secoli e secoli fa i primi filosofi così geniali da intuire le potenzialità dei due percorsi, se usati sistematicamente, fare induzione aiuta davvero a interpretare la realtà, specie per fini concreti operativi. Nella cultura urbana tutti ci ricordiamo probabilmente il leggendario e leggendariamente equivocato slogan «dal cucchiaio alla città», dove secondo un principio apparentemente solo induttivo veniva proiettata sull’universo della produzione industriale e standardizzata l’idea di una sua componente base minima. L’errore, forse, è stato nell’interpretazione strumentale e confusa, a volte davvero letterale, di quell’efficacissima sintesi.

I tasselli e il mosaico

Indubbio, che un edificio sia composto di stanze, aggregate in alloggi, e che vuoi nella composizione urbanistica elementare del quartierino di casette unifamiliari, vuoi in quella più complessa del settore urbano multifunzionale, la somma degli edifici sia già da sola una bella fetta della complessità. Lo stesso si può dire degli abitanti, singoli, nuclei familiari, formazioni socioeconomiche definite, relazioni, ovvero del contenuto di quelle stanze, alloggi, quartieri, settori. Ma certo non basta accostare le individualità l’una all’altra per fare pluralità e complessità, e l’abbiamo imparato sulla nostra pelle già da subito, quando i primissimi esperimenti di progetto standardizzato producevano «industrialmente» degli alloggi in serie, montandoli l’uno sull’altro col solo vincolo sanitario, e mettendoci poi dentro una «società» più che altro immaginata, o sognata, che non corrispondeva affatto alle aspettative e ne esprimeva di proprie, diversissime. Non a caso però si è citato qui quel vincolo sanitario-ambientale, perché quel campo specifico di saperi a differenza del piano-progetto spaziale riesce a muoversi con più efficacia su e giù nel percorso induzione-deduzione, se non altro perché molto più prossimo all’oggetto naturale e tangibile del proprio operare: i corpi, la loro verificabile salute e benessere, la qualità degli elementi che li circondano e ne garantiscono l’eventuale prosperità e soddisfazione.

Schegge di sostenibilità sperimentale

Il mito della sostenibilità, pur ampiamente intaccato da certe tragicomiche interpretazioni politiche, per non dire della malafede, continua ovviamente ad essere all’ordine del giorno nelle faccende urbane, per il semplice motivo che non possiamo farne a meno, a fronte delle crisi incombenti. E però non si capisce benissimo da dove partire, e qui torniamo alla dialettica deduttivo-induttivo: massimi sistemi o introspezione individuale? Forse qui ci può tornare utile una bella riciclata dello slogan razionalista «da cucchiaio alla città», arricchito naturalmente dalla consapevolezza che molto, troppo, non ha funzionato applicandolo nel modo che sappiamo. Oggi però, se sostenibilità energetico ambientale significa taglio di consumi, emissioni, impatti, provare a incrociare certe variabili molto precise (e calcolabili quasi al millimetro) sulla dimensione dell’alloggio, e del nucleo familiare che ci vive, possiamo fare un bel passo in avanti anche nella lettura dei grandi sistemi, con cui quel tassello elementare si interfaccia naturalmente e spontaneamente in rete. Il fatto poi di collocarlo dentro un «laboratorio urbano» ben più complesso e stimolante della solita tabula rasa da splendido isolamento rurale, in cui di solito si collocano questi esperimenti di edilizia innovativa, fa l’ultimo passo nell’aprire le porte a un dialogo con la prospettiva generale e davvero strategica. A questo punto, messi tutti i paletti logici, si può rispondere tecnicamente alla domanda: come si realizza una casa a consumi energetici e di risorse totalmente integrati, fuori rete elettrica, idrica, termica? E il prototipo per iniziare il percorso opposto (che non vuol dire clonarsi all’infinito) prende forma.

Riferimenti:
Ed Kemmick, Off-The-Grid in (Urban) Montana, Counterpunch, 11 luglio 2016

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