La maggior parte di chi dice destra e sinistra sono uguali, guarda abbastanza ovviamente solo a una parte della faccenda. Chi ritiene assolutamente discriminanti cose come il proprio stipendio, quel che succede davanti alla finestra di casa, o altro magari di più ampio respiro e comunque settoriale, ha facile gioco a dire che «sono tutti uguali» quando si tratta di aumentare le tasse, o costruire quel palazzo di là dalla strada, o sostenere quel tale governo non proprio simpaticissimo. E anche nelle questioni ambientali il discorso non cambia di molto, soprattutto perché in realtà, stringi stringi, una volta capito il senso del problema diventa piuttosto impossibile non dichiararsi, e via via anche diventare, «ambientalisti», senza particolari etichette. Quel che è certamente vero, è che di norma le questioni ambientali vengono individuate e messe all’ordine del giorno dai movimenti di tipo progressista, i quali a loro volta tendenzialmente sono più vicini alla sinistra che non ai conservatori. Ma le cose si fanno assai più intricate se il problema ambientale a ben vedere non è solo ambientale, e coinvolge al 100% proprio tutti i classici aspetti che dividono destra e sinistra, competizione e solidarietà, progressismo e reazione, chi più ne ha più ne metta. La città e il territorio, se li consideriamo seriamente e in modo comprensivo, sono esattamente un campo del genere.
Cosa c’è dietro
Ogni tanto le cronache ci raccontano di qualche «esperienza ambientalista» con una famiglia o gruppo che va a costruirsi casupole più o meno rudimentali in qualche valle remota, magari con generazione di energia forzatamente da fonti rinnovabili (perché manca la rete), orti, stili di vita molto spartani. E la domanda che dovremmo porci, suona più o meno: ma questi, indipendentemente dalle loro intenzioni, sono davvero ambientalisti, progressisti, oppure semplicemente strambi, o sottilmente reazionari? E la risposta la si può trovare abbastanza facilmente uscendo un istante da qualche immaginario che scatta automatico, e osservando davvero il caso con spirito clinico. Ci può essere l’esperimento sociale, di un gruppo che cerca nuove relazioni familiari, intergenerazionali, economiche, e che si allontana dagli altri gruppi proprio per sviluppare l’esperienza in una logica da laboratorio: ma dal punto di vista ambientale ci possono essere incoerenze enormi, perché l’apparente «sostenibilità» di certi stili di vita non è affatto tale. Poi c’è l’esperimento davvero ambientale, quello della autoproduzione alimentare ed energetica, in cui il fattore delle relazioni (sociali, familiari, economiche) non è affatto considerato centrale, ma come si sa dall’infinita serie di casi concreti il progressismo di queste esperienze si valuta in proporzione alla consapevolezza di essere solo un laboratorio, non certo un modello replicabile. La conclusione, almeno a guardare storia e cronaca, è che tutti, piuttosto rapidamente, tornano al proprio ovile, anzi ai rispettivi ovili che naturalmente ospitano le pecore bianche e quelle nere: la città e il suburbio. Quelli che piaccia o no sono i luoghi naturalmente qualificanti la conservazione e il progresso, in subordine la destra e la sinistra, di sicuro l’impatto ambientale.
E rieccoci al solito dilemma
Che il suburbio sia per elezione il luogo della società conservatrice, ce lo racconta abbastanza esplicitamente la sua forma fisica: ognuno a casa sua, salvo per le attività economiche, spazio pubblico ridotto al minimo sindacale, e fruito con spirito che più conservatore non si può, ad esempio portandoci il cane per i bisognini invece di sporcare il giardino di casa. Casa che è il regno della famiglia tradizionale, progettata e costruita a misura, dentro e fuori, separata dagli altri contenitori analoghi e tendenzialmente autosufficiente, con quelle tipiche aberrazioni come le micropiscine, le microsale proiezione, i microgeneratori di calore a sperperare energia, ma farlo privatamente. Poi là dentro possiamo anche introdurre ogni genere di innovazione ambientale, se ce lo lasciano fare: risparmio e sostenibilità energetica, telelavoro e mobilità locale dolce, addirittura innalzamento delle densità urbane e una certa composizione funzionale utile a far andare a regime il tutto. Ma saremo ancora, socialmente e «politicamente» parlando, nell’incontrastato regno della famiglia tradizionale, e dei suoi sedicenti «valori», delle relazioni gerarchiche, della preminenza del provato sul collettivo e pubblico, insomma di tutto quanto gli studiosi attenti in genere legano poi al voto conservatore alle elezioni. Indipendentemente dalle bandiere o parole d’ordine sventolate strumentalmente dagli eletti, o dalle stesse intenzioni degli elettori. Quindi non stupisce affatto, che come raccontato con dovizia di particolari e links dal lungo articolo che segue, certa destra Repubblicana Usa paia aver sposato il credo architettonico new urbanism, e il suo peraltro blando e schematico «ambientalismo»: perché non sono certo i compartimenti stagni del numero di piani, o delle emissioni pro capite, o i chilometri/auto annui a fare la differenza tra destra e sinistra. Anche se come ben sappiamo per esperienza e osservazione, a volte sono sintomi inequivocabili. Pensare organicamente aiuta, sempre.
Riferimenti:
Jeff Turrentine, «How Conservative Pundits Have Become the Most Vocal Champions of Smart Urban Planning», Pacific Standard, 17 luglio 2015