Scorrendo il bel resoconto del viaggio sociologico di Richard Benjamin nel suburbio americano più profondo, non si può non concordare con la tesi di fondo, secondo cui esiste una specie di rapporto direttamente proporzionale fra il diminuire della densità e l’aumentare della segregazione e dei sentimenti reazionari, anche sotto le spoglie più strane. Anche quando certe distorsioni ed estremismi si manifestano nell’ambiente urbano denso tradizionale, sotto sotto cova sempre una loro origine esurbana, diretta o comunque culturale. Benjamin parte dal presupposto, abbastanza automatico ma non certo assoluto, secondo cui l’arida metropoli dispersa è molto bianca, non certo per il colore dei classici steccati che circondano villette e villone, ma per l’incarnato prevalente o tendenziale dei suoi abitanti. Oggi però, scoperta delle scoperte, qualcuno inizia a rilevare che anche le etnie coloured, addirittura anche in Europa, sognano la villetta con giardino. Orrore e sconcerto!
Già. Dove andremo a finire? Dove andremo a finire se gli analisti poi si rivelano mica tanto bravi ad analizzare, ma solo a celebrare l’ovvio guarnendolo di grafici e tabelle? I dati ci raccontano come le cosiddette minoranze, ovvero popolazioni di etnia o origine non locale, nel momento in cui raggiungono sufficiente agiatezza economica tendono ad uscire dai quartieri urbani densi in cui tradizionalmente li collocano la storia e l’immaginario, per cercare spazi che ritengono di migliore qualità, ovvero collocarsi nelle fasce suburbane esterne. C’è da stupirsi? Forse che il colore della pelle o le abitudini alimentari, o la religione, dovrebbero automaticamente spingere ad abitare ammassati, che so, di fianco alla stazione, o nei complessi popolari prefabbricati, o nei vecchi quartieri ex industriali-operai in cui tanto ci piace immaginare dei mercatini multicolori? Che sciocchezza.
Non solo questo global dream è qualcosa di ovvio e prevedibile, ma succede già da parecchi anni, anche se forse non con la rilevanza statistica notata solo oggi. A Londra, basta ricordare uno dei primi successi dello scrittore di origine pakistana Hanif Kureishi, significativamente intitolato Buddha of Suburbia, e da cui emergevano con tutte le ovvie varianti tic e aspirazioni non molto dissimili da quelle piccolo borghesi nostrane. Oltre Atlantico, dagli asiatici della California agli ispanici di New York ai neri nelle città in crisi della rustbelt, tutti prima o poi si cercano un angolino suburbano con steccato da riverniciare il sabato e annesso shopping mall con ampio parcheggio e offerte speciali. Forse, invece di stupirsi così da scemi, bisognerebbe magari invece preoccuparsi: c’è comunque qualcosa che non va nell’ex sogno occidentale, e non ha nulla a che vedere col colore della pelle. Chi l’aveva pensato anche solo per un istante si faccia vedere da uno bravo.
Si può reagire in molti modi davanti ai nuovi scenari. Uno è quello, si auspica non troppo frequente fra chi è o si ritiene progressista, di considerare un po’ più accettabile la villettopoli energivora e segregata, per il solo fatto di essersi dimostrata accogliente nei confronti delle etnie un tempo emarginate. Ma invece così, pensiamoci un istante: non solo l’emarginazione cresce e si istituzionalizza, ma aumenta la massa di consenso per qualunque politica di destra: dall’intolleranza verso i diversi (diversi in genere, non dimentichiamolo), all’ambientalismo prevalentemente nimby, alla scomparsa dello spazio pubblico e dello spirito comunitario, e via dicendo. La seconda reazione è quella reazionaria di opporsi in modo pure nimby, ovvero autosegregando i vecchi suburbi sul modello americano, riproducendo il quartiere monoclasse e monoetnico anche nell’insediamento disperso.
Per essere davvero sereni nel giudizio e nella reazione, forse è il caso di ascoltare attentamente il cosiddetto senso comune: pare intuitivo, che due ipotetici Mr. Smith con la sua bombetta e Mr. Singh col suo turbante in fondo facciano e vogliano spontaneamente cose piuttosto simili, quando non identiche. Ma guardandoci attorno, e rendendoci conto di dove stiamo, invece di fissare il televisore o fluttuare nel proprio immaginario infantile, certe cose non può fare a meno di vederle. A partire dalla propensione a certi consumi, quotidiani o più impegnativi, che comprendono di conseguenza, prima o poi, anche lo spazio urbano, quello privato e pubblico, i luoghi del commercio e della produzione. La melting pot non doveva essere proprio quello? E infatti a suo modo funziona: nessun essere umano senziente dovrebbe stupirsi più di tanto, se invece della chiesetta protestante o del chiesone cattolico il riferimento di un quartiere diventa la moschea o la sinagoga o chissà quale struttura più o meno variegata e colorata. E invece eccoci qui, con tanto di sacerdoti che si preoccupano della coesione comunitaria perché arrivano altre convinzioni religiose, o sociologi stupiti appunto perché nella villetta con giardino ci vanno a stare gli ex inquilini dei casermoni.
Alla questione ambientale, e anche a tutte le altre correlate, dagli spazi del commercio e della produzione, ai problemi infrastrutturali ed energetici, si aggiunge un quesito fondamentale, almeno per chi si proclama progressista: il suburbio, bianco o di altro colore che sia, è fatalmente reazionario? Diventeranno automaticamente portatori di istanze conservatrici gli immigrati di seconda generazione che si disperdono sul territorio nei quartieri di villette?
Ai posteri l’ardua sentenza, ma è certo che qui nel nostro piccolo mondo dell’uomo bianco, come insegnano generazioni di scienziati della politica, l’innovazione sociale e culturale abita la città, e la campagna è invece la sede privilegiata dell’esatto contrario, aria buona e uova fresche permettendo. In conclusione, dalla campagna possono giustamente emergere sintomi di disagio, sociale, economico, ambientale, ma difficilmente la comunità rurale nel corso della storia (senza offendere nessuno) ha saputo esprimere vere istanze rinnovatrici e riformiste. Il perché lo si capisce riguardando le solite Calamite della città giardino, che anche nell’epoca di Facebook evidentemente continuano a riassumere piuttosto bene le forze in campo. La campagna è conservatrice, la città progressista, e ci sarà pure una ragione, no?
Ne parliamo di continuo, infatti.