Antiurbano vuol dire incivile

A volte guardare con attenzione e un certo distacco le mosse dell’avversario aiuta ben oltre l’obiettivo tattico di «vincere la partita». L’antiurbanesimo dei regimi totalitari tra le due guerre mondiali del ‘900, per esempio, che si può leggere secondo prospettive assai più ampie di quelle sostanzialmente sindacali, limitate all’equazione concentrazione operaia = opposizione organizzata ai regimi, che gli stessi regimi combattevano appunto col decentramento. Si coglie quanto questa interpretazione possa essere magari in buona fede ideologica, addirittura ai limiti del meschino, se consideriamo l’antiurbanesimo di fatto di tutta la cultura del cosiddetto «decentramento pianificato». Dove proprio la parola pianificato dovrebbe distinguere questa forma di dispersione dall’antiurbanesimo autoritario, qualificandola invece come democratica e tesa a promuovere la piena realizzazione del cittadino. Ma torniamo invece all’inizio per chiederci seriamente: cosa vedono nella città i regimi totalitari (e non solo loro), che la rende sentina di ogni malattia sociale? Ci vedono la straordinaria, densa, fittissima e complessa rete delle relazioni, che va ben oltre l’organizzazione delle forze antagoniste a un regime, ma soprattutto va ben oltre quegli equilibri artificiosi di carattere spaziale, sociale, ambientale che ogni regime reale o virtuale prova a modo suo a imporre.

Città ideale come antitesi

Siamo abituati a considerare, forse anche correttamente da un certo punto di vista, le utopie nel ruolo della sintesi tra due realtà contrapposte, l’ambito nel quale le contraddizioni si ricompongono in equilibrio perfetto. E immancabilmente ogni utopia appare completa, confusa direi, col suo contenitore spazio-sociale della città o territorio ideale, benissimo rappresentata in questo senso dalle Tre Calamite della dialettica mediatizzata-pubblicitaria: Città – Campagna – Utopia. Ma se proviamo a ribaltare la prospettiva guardando al presente, quello che statistiche e futurologia chiamano «Urbanizzazione planetaria», si può tranquillamente sostenere che le utopie, praticamente tutte (ovvero che abbiano o non abbiano trovato qualche forma concreta di realizzazione), altro non sono se non espressione antiurbana, che contrappone equilibri parziali e artificiosi alla complessità reale, sfrondandola strumentalmente dei suoi elementi di vitalità: vuoi per ignoranza, vuoi per sottovalutazione, vuoi per un consapevole quanto strampalatamente sciagurato «progetto». Certamente ideale sarà quella città/territorio/società, certamente in qualche modo equilibrata, ma artificiosamente tale, già pronta a evidenziare una crisi più o meno grave e definitiva non appena si indeboliscono quegli artificiosi strumenti di controllo.

La città ideale della dispersione

E cos’è, il cosiddetto American Dream suburbano, poi replicato a fotocopia in tutto il mondo «di mercato» e non solo, se non una variante su questo precario artificioso equilibrio dell’anticittà ideale? Dove da sempre si è sostituita l’organicità, la complessità, ovviamente la contraddizione urbana, con quella caricatura degli steccati bianchi, delle vie solo residenziali, della simulazione di un villaggio tradizionale senza nessuno dei caratteri socioeconomici e spaziali base, di quei villaggi, salvo forse l’inclinazione delle falde dei tetti. Semplificando al massimo, a questa critica (antica tanto quanto lo stesso suburbio di massa novecentesco) si è sempre risposto con la tecnologia dei trasporti e delle comunicazioni: l’auto che portava fisicamente alla città vera o nelle altre «città ideali» del commercio, del lavoro, dell’istruzione, della salute ….; oppure il telefono, la radiotelevisione, oggi internet e il social network, che dovrebbero sostituire nel medesimo modo parcellizzato l’interazione urbana. Ma non c’è niente da fare: non funziona proprio il manico, il metodo, lo zoccolo duro di un ambiente artificioso e ad equilibrio molto, molto precario, un «ecosistema» anche sociale pronto ad entrare in crisi profonda appena cambiano di pochissimo i termini dell’equazione. Come, di recente, l’apparire improvviso della povertà, inusitata in quelle stradine, una povertà che ha letteralmente fatto saltare sulla sedia gli stessi sociologi, abituati a non ipotizzare neppure qualcosa del genere, come incontrare un gatto che passeggia in fondo al mare. Eppure, la povertà fa da sempre parte del mondo, ad essa corrispondono degli anticorpi fisiologici, e dove si trovano? Facile: nella «città non ideale», quella vera.

Riferimenti:
Scott W. Allard, Why poverty is rising faster in suburbs than in cities, The Conversation, 31 maggio 2018

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