Sapevo che sarebbe arrivato quel giorno ma ancora mi punge all’improvviso: rinuncio all’apicoltura. Avevo iniziato più di vent’anni fa aiutando mio suocero tra le sue arnie. E poi cominciando a tenerne di mie in un quartiere nel pieno centro di Toronto. Ma questa primavera sarà la prima in cui non sentirò più quel ronzio: lo faccio per le centinaia di specie di insetti impollinatori locali che nonostante tutte le mie ottime intenzioni mettevo a rischio. Quando il mio non ancora suocero mi aveva invitato ad aiutarlo tra le arnie in giardino, era fine estate e le api andavano e venivano da quelle cinque scatole. Ciascuna contenente quattro o cinque stagionati telai che avremmo controllato insieme aprendo i coperchi. Mio suocero non si proteggeva in alcun modo il viso o il corpo. Usava soltanto una piccola latta per fare fumo e tanta buona sorridente disposizione. Fu l’inizio di un periodo decennale di collaborazione.
Lui teneva api da quando era un ragazzino di campagna in Germania. Non sapevo ancora che, esattamente come mio suocero, anche le api da miele erano immigrate dall’Europa. Oggi gli apicoltori ne tengono una unica specie, Apis mellifera, importata dai colonizzatori insieme a capre polli e vacche. Ogni stagione, man mano apprendevo gioie e dolori dell’attività, mi rendevo sempre più conto del conflitto tra questa specie europea e quelle selvatiche locali, dai grossi bombi ad altri insetti che alle api sembrano non assomigliare neppure un po’ con quella lucente carrozzeria verde brillante. Per millenni queste api sono state i cavalli da tiro di tutto il nostro territorio, trasferendo polline da fiore a fiore, facendo sì che le piante, evolute insieme a loro, potessero riprodurre semi e frutti.
Ma sull’arco di parecchi anni, studi dopo studi hanno delineato un quadro allarmante: le popolazioni di insetti crollano del 45% solo negli ultimi quattro decenni. Dalle farfalle alle lucciole tutti hanno grossi problemi. Ma resta al centro l’attenzione pubblica per le api. Con questa consapevolezza crescente, molti benintenzionati (compreso il sottoscritto), singoli imprese o associazioni sostengono la campagna «Salviamo le Api» e gli impollinatori, incluse quelle domestiche. Ma si sottovalutava il fatto che gli insetti delle nostre arnie competevano con quelli delle specie native. Nel corso di un’estate, una singola arnia arriva a 50.000 api grandi raccoglitrici di nettare e polline. Pessima cosa per tutti gli altri insetti dei dintorni che dipendono dalle medesime piante e fioriture.
Una ricerca pubblicata da poco documenta il massiccio incremento delle quantità di arnie sull’Isola di Montreal, calcolando per la prima volta gli effetti sulle altre specie. Dal 2013 al 2020, il numero di sciami si è impennato da meno di 250 a quasi 3.000: un salto del 1.200% in dieci anni. Mentre contemporaneamente crollava la quantità delle api selvatiche. Come sottolineano i ricercatori l’aspetto cruciale sta nelle concentrazioni. E indicano un massimo precauzionale di circa tre sciami per chilometro quadrato.
Ciò vuol dire che a Montreal ce n’è già oggi il doppio di quanto non appaia sostenibile, considerando in teoria una diffusione omogenea sul territorio. Nel mio centrale quartiere esiste almeno una dozzina di apicoltori nel raggio di un paio di chilometri da casa mia. Ma, facciamolo per tutte le altre api, è tempo che gli apicoltori urbani iniziano a rinunciare a quell’attività. Magari senza per forza obbligare nessuno ad appendere la rete di protezione al chiodo, spero siano molti a seguire almeno il mio esempio di approccio precauzionale. Rinunciamo alle arnie e mettiamo al loro posto qualche fioriera di specie vegetali locali su cui possano posarsi tante specie di insetti, api farfalle e altri. Magari vi ho punto all’improvviso con questo messaggio, ma facciamolo per le api.
da: Toronto Star, 23 maggio 2023 – Titolo originale: Why I’m giving up beekeeping: Urban beekeeping is, paradoxically, bad for bees – Traduzione di Fabrizio Bottini