Alzi la mano chi, avendo seguito qualcosa in più di una battuta fugace sull’unità di vicinato o quartiere coordinato, non ha mai sentito parlare dell’architetto Clarence Perry. Più che al nome e cognome, mi riferisco qui alla qualifica professionale, nel senso che il rapporto di Perry con l’architettura è simile a quello delle viti autofilettanti con le zucchine trifolate. Il buon Clarence era un laureato in scienze della politica, con orientamento sociologico e neppure troppo pencolante verso l’urbano, almeno nell’accezione che stava prendendo ai suoi tempi (epoca prima guerra mondiale) con la cosiddetta scuola ecologica di Chicago. Lui, di formazione newyorchese, nella città ventosa sul lago Michigan ci andò solo per fare alcune ricerche e interviste sul campo, notando appunto che c’erano dei rapporti fra società e territorio, tutti da scoprire. Punto. Solo una quindicina d’anni dopo avrebbe davvero incrociato il suo percorso con quello degli architetti, introducendo nelle sue considerazioni sulla regione di New York una serie di progetti virtuosi, che a suo parere potevano essere modelli di metodo da seguire, per chi volesse realizzare contenitori adeguati a certi comportamenti. Di nuovo, punto.
Terrorismo psicologico a mattonate
Il che non evita, e vorrei vedere, che l’ottimo Clarence Perry venga adeguatamente classificato in tutta la letteratura scientifica come planner, ma architetto proprio no, non c’entra nulla con lo spazio fisico in sé, col progetto spaziale, con la forma dei contenitori di relazioni sociali. Tornano in mente, queste considerazioni, mentre da un lato si trasformano assai ideologicamente, dopo i tragici fatti di Parigi, certe contraddizioni della periferia in contenitori ideologici immensi (le pallottole amplificano, certo, ma non esageriamo, please!), dall’altro in Italia ma non solo si continua pervicacemente a considerare qualsiasi problema urbano come cosa da architetti, o al massimo come cosa da architetti affiancati da qualcun altro. Senza ritirare in ballo di nuovo Perry, ma saltando ai nostri giorni, un interessantissimo saggio autobiografico di Susan S. Fainstein racconta nell’ultimo numero del Journal of the American Planning Association (vol. 80, n. 3) quella che definisce «la mia carriera di urbanista per caso». Dove il per caso non si riferisce tanto alla sua formazione originale in scienze della politica e sociologia, ma alla proposta di ricerca che le viene fatta, da giovane dottoranda, appunto per caso, di operare in un contesto urbano. Poi da cosa nasce cosa, e il suo interesse sociologico, poi di genere, poi nell’organizzazione familiare eccetera, avrà sempre quel particolare contenitore di metodo e contesto: la città e il territorio. Questo non fa di lei certamente un architetto, come non ne fa una cuoca o un chirurgo, nondimeno sarebbe surreale negarle un posto di primo piano nella cultura del planning contemporaneo.
I guardiani del soglio
Ma ancora in questi giorni, circola l’intervento dell’archistar Rem Koolhaas che in sede europea in pratica denuncia come rischiose certe sbandate della cosiddetta cultura della smart city, in quanto rinunciando a un rapporto organico e fondativo con la città delle pietre finirebbero per lasciarne insolute le questioni essenziali. Se da un certo punto di vista nel suo argomentare troviamo abbondanza di argomenti condivisibili, del resto abbondantemente trattati in altra sede, non si può non rilevare un automatico istinto di bottega, quando in buona sostanza rivendica la propria centralità di ruolo, in quanto depositario della forma fisica, ovvero il contenitore sopra tutto, anche a governare i flussi più o meno materiali. La vecchia idea dell’architetto-urbanista novecentesco, che al massimo recepisce miriadi di input esterni, ma poi li elabora in una sintesi propria, senza cedere di un millimetro al proprio ruolo demiurgico. La stessa concezione che ispira, tutto sommato, quell’idea di progetto periferie italiana con al centro il senatore architetto Renzo Piano, i suoi collaboratori giovani progettisti, e anche le numerosissime critiche, tutte interne all’idea di spazio fisico. Ripensiamo un istante al problema periferie, o banlieu volendo, così come emerge evidente dagli attacchi terroristici di Parigi, ma anche da altri eventi come quelli dell’estate londinese dei saccheggi, o nel suburbio americano di Ferguson e via dicendo. Dove forse esiste un contenitore fisico delle contraddizioni, ma dove pensarlo come essenziale, vuoi per definirle, vuoi per ipotizzare rimedi, appare desolatamente cretino: dall’interno del supermercato kosher in cui stava asserragliato, non risulta certo che il piccolo delinquente riciclato nella sua personale jihad lamentasse problemi architettonico-urbanistici. Ecco: se è vero che la colpa non è dei progettisti, non sta a loro neppure trovare, in esclusiva universale, le soluzioni. Siamo seri.