Sono noti i danni alla salute e all’ambiente delle varie concentrazioni di sostanze chimiche, volontariamente o involontariamente introdotte sul territorio o nell’aria dalle attività umane. Per molti anni (anche giustamente) l’attenzione da questo punto di vista si è focalizzata sui poli stessi di attività industriali che quelle sostanze producevano come finalità principale, o emettevano nel corso delle lavorazioni. In seguito è emerso che, pur senza accantonare la centralità di questo aspetto, ce n’era un altro altrettanto pericoloso, introdotto dalla cosiddetta “rivoluzione verde” novecentesca, che in pratica ribaltava certi rapporti città/campagna inducendo processi di industrializzazione dei contesti rurali, non tanto per la massiccia presenza di abitanti, manodopera, manufatti, ma per quella di know-how, organizzazione spaziale, macchinari, e additivi chimici in grado di far in qualche modo trasmigrare i processi naturali di crescita verso un modello più artificiale e stimolato.
Con risultati da un lato positivi per l’accresciuta disponibilità di alimenti, ma dall’altro assai negativi per la dispersione e a volte la ri-concentrazione di fertilizzanti, pesticidi ecc. O addirittura di nuovi perversi cicli di metabolismo indotti, come quelli noti della mucca pazza riguardo all’alimentazione, o delle deiezioni che riconcentrano pericolosamente alcune sostanze dei mangimi riversandole sul territorio e nei corsi d’acqua, senza alcun tipo di depurazione trattandosi, si riteneva, di cose perfettamente “naturali”. Col tempo si è iniziato a reagire a questa situazione, regolamentando sia la produzione che l’uso e dispersione dei vari prodotti chimici in agricoltura e nelle campagne, ma nel terzo millennio emerge una inusitata nuova tendenza: a quanto pare lo scavalcamento del 50% di popolazione planetaria urbana si porta con sé sorprese inaudite, tra cui un record urbano di inquinamento da prodotti tipici dell’agricoltura.
Non è una battuta. Uno studio reso noto dall’Environmental Policy Network rileva come, anche in un simbolo mondiale di urbanità, lontanissimo dalle atmosfere agresti, come New York, i cittadini risultino più esposti ai pesticidi dei loro corrispettivi abitanti di campagna. Due questioni: da dove arrivano questi pesticidi? E cosa si può fare, in termini di politiche urbane generali, per risolvere il problema? Sotto sotto, vuoi vedere che la gran moda dell’agricoltura urbana è tutto fuorché naturale e sostenibile, ma fa malissimo agli abitanti e all’ambiente?
I prodotti chimici in città ci arrivano anche dall’esterno, visto che la metropoli ovviamente respira e partecipa del territorio vasto circostante, ad esempio importando e consumando derrate trattate con tali prodotti. Il grosso dell’inquinamento però, rilevano le ricerche, deriva da un consumo interno alla città, spesso in forme abbastanza insidiose e difficili da controllare: la lotta capillare tradizionale ai parassiti, roditori e insetti che da sempre convivono nelle concentrazioni umane trovandoci contesto ideale per nutrirsi scavarsi un comodo nido e riprodursi. Gli abitanti umani ormai da parecchi anni contro questi fisiologici quanto sgraditi coinquilini conducono una sistematica guerra a colpi di armi chimiche, un arsenale di prodotti velenosi (che senza pensarci compriamo al supermercato o in farmacia, e altrettanto senza pensarci ci rovesciamo per così dire addosso).
Così come avviene nel caso dell’agricoltura, esiste sia la somma e sovrapposizione degli usi individuali, sia soprattutto l’utilizzazione massiccia da parte dei grandi soggetti organizzati, agenzie pubbliche o ditte private di disinfestazione. Ad esempio è d’uso spargere i veleni in assenza degli abitanti, o allontanarli in qualche modo ad hoc durante i trattamenti, ma restano sempre dei residui, che via via si accumulano, o vengono dilavati e si accumulano altrove.Poi c’è la circolazione indotta dalle persone stesse, sul corpo, sui vestiti, sulle scarpe, dai locali pubblici, luoghi di lavoro, mezzi di trasporto, un incredibile minestrone chimico che finisce anche per mescolarsi ad altre sostanze inquinanti come gli scarichi dei motori e simili.
La risposta, oltre a quella ovvia di intervenire alla fonte sui prodotti chimici stessi, sta in una regolamentazione dell’uso dei pesticidi urbani simile a quella che da anni si è introdotta nelle campagne. Si tratta di un modo inusitato e strano, ma in fondo abbastanza ovvio a modo suo, di “ritorno dell’agricoltura in città”, tutt’altro che naturale e tradizionale, ma assai realistico. I contadini hanno imparato col tempo a convivere e gestire i prodotti industriali che servono alla loro vita quotidiana, e così anche chi opera fra ascensori e gallerie della metropolitana deve iniziare a coltivarsi la metropoli con le medesime cautele, anche quando ci danno tanto fastidio quei parassiti che rovinano i gerani sul davanzale.