Probabilmente conosciamo tutti qualcuno (molto più di qualcuno) che per lungo tempo magnifica la bellezza e amenità di un luogo, senza entrare mai troppo nel merito. E quando, piuttosto stufi di ascoltare quella solfa, di sentire ripetere all’infinito il nome di un luogo, proviamo giusto per noia a capirne di più, quasi sempre scopriamo che al nostro interlocutore di quel posto in realtà non frega proprio nulla o quasi, non ne conosce altro che il nome, magari giusto il cartello alla stazione, e poi il posto dove incontra i suoi amici o cari parenti. Fine. In pratica la «qualità del luogo» è del tutto immaginaria, o meglio coincide quasi al 100% con la qualità delle relazioni. Del resto, quel modo di pensare agli spazi, salvo quando ci si pone in una prospettiva particolare (da studioso, da turista ecc.) è molto più frequente di quanto non si pensi: considerare un ottimo luogo accogliente il proprio quartiere, ad esempio, significa esattamente quello, e addirittura si tratta di un giudizio a-spaziale che è riuscito a scalfire anche la dura scorza degli architetti. Perché gira e rigira il quartiere è chi lo abita, e con pochissime eccezioni, diciamo i capolavori riconosciuti e perpetuati come tali dalla storia dell’arte, le fortune critiche di tante realizzazioni architettonico-urbanistiche dipendono esattamente dalla qualità delle relazioni che riescono a indurre.
La società dei trasferelli adesivi
In fondo lo si misura esattamente in questi termini, il passaggio di certe forme urbane da simbolo di futuro luminoso a immagine di sventura e tempi cupi, il che risulta ancor più vistoso se si calcola l’arco di tempo in cui avviene, a volte di una generazione circa, ovvero per una città un battito di ciglia. Lampante l’esempio classico dei volumi razionalisti: nel secondo dopoguerra condiviso manifesto di auspicato benessere e progresso, abitato presumibilmente dal Signor e Signora Modulor, con loro due Modulini standard; i quali modulini una volta raggiunta la stazza dei genitori qualche anno più tardi, provvederanno, coi loro graffiti ma soprattutto coi comportamenti antisociali, a transustanziare senza alcun vistoso cambiamento fisico quelle immagini nel simbolo stesso della paura, dell’incubo da scacciare a ogni costo, usando anche le cariche di dinamite se necessario. Per dire del rapporto fra società e spazi, e di come quella capacità di plasmare la prima coi secondi, cara agli architetti, si ribalti nel suo esatto contrario in realtà. E quel che salta vistoso agli occhi con gli squadrati volumi del quartiere modernista, quando le figurette trasferibili adesive si trasformano in soggetti reali, quasi ovviamente si replica per tanti altri spazi, piccoli e grandi, che non hanno alcun senso (come parrebbe ovvio capire, ma di solito non si capisce) né qualità, senza quello delle relazioni che vi si sviluppano.
Rivitalizzazione senza vita
Accade così che si parli di riqualificare a vanvera, fedeli alla linea secondo cui basta predisporre un contenitore e il contenuto si riverserà felice là dentro come se fossimo in bottiglieria, e non in una città. Accade che si cerchi un «senso del luogo» pensandolo da puri osservatori, esattamente come quei tetragoni progettisti che cercano coerenza solo nei loro strumenti tecnici, scordandosi completamente l’indispensabile componente umana e sociale, senza cui i loro capolavori subiscono le mutazioni ovvie riassunte sopra. Peggio ancora quando il rapporto spazio-società-comportamenti-aspirazioni si vorrebbe modulare in modi ancor più rigidi di quelli del signor e della signora Modulor del tempo che fu, a riprodurre certe improbabili «vasche» commerciali di fatto mai esistite, e forse vagamente avvicinate solo in qualche scatolone suburbano o galleria urbana a metà ‘900. Quelle cose puntualmente raffigurate nei rendering degli architetti, dove ogni passante è benvestito, sorride, non butta le cartacce per terra, non deve fare mai la pipì, non litiga, e soprattutto sta lì a far shopping, massima aspirazione dell’umanità plastificata di riferimento. Purtroppo non succede mai così, e allora? Chiamare la forza pubblica, perché distribuisca droghe adeguate alla popolazione? Forse sarebbe meglio iniziare a costruirsi un’idea un po’ diversa di «trasformazione urbana», pesando adeguatamente, e prima, il fattore sociale.
Riferimenti:
Daniel Kravetz, Conflict and Placemaking: Tactical Urbanism on Nicollet Mall, Rooflines, 10 novembre 2015
City of Minneapolis, Online Resources for Nicollet Mall Redesign Proposers