C’è un aspetto piuttosto interessante e spesso sottovalutato delle discussioni variamente «antiurbane» o disurbaniste dei primi del ‘900, e che le distinguono in modo fondamentale da quelli che sono i loro antenati ottocenteschi, ovvero i vari movimenti di ritorno alla terra o decentramento spontaneo: il fatto che il processo debba accompagnarsi a un programma, a un piano, alla composizione o ricomposizione di autorità in grado in qualche modo di gestirne l’attuazione. In sostanza, ciò che la nascente pianificazione territoriale di area vasta intuisce sin dal suoi esperimenti seminali, vuoi tradizionalmente pubblici come nei casi dei primi studi londinesi di Raymond Unwin, o del bacino carbonifero della Ruhr, o volontariamente privati come nel Regional plan for New York and its Environs promosso dalla Russel Sage Foundation, è che non tanto di «fine della città» si stia trattando, ma al contrario dell’inizio di quanto oggi chiamiamo senza remore urbanizzazione planetaria. Termine certo impossibile da usare nell’epoca della città ancora industriale-meccanica e dello sviluppo per pura rivendicata crescita quantitativa infinita, ma che proprio in quell’idea iniziale di «deurbanizzazione pianificata», a cui si ispireranno per lustri tanti schemi territoriali, vuole superare il dualismo urbano-rurale come doppia velocità e qualità di evoluzione sociale e umana.
Governare o galleggiare
Certo l’aspetto della regia, del coordinamento, del governo politico o tecnico-scientifico, top-down o bottom-up, più o meno affidato alle dinamiche del mercato o a un’utopia di qualche tipo, varia moltissimo anche quando più o meno a metà del XX secolo le teorie mature negli anni ’30 diventano leggi nazionali, programmi di ricostruzione, riconversione o quasi rivoluzione, dalle New Town britanniche alle nuove polarità autostradali-industriali-suburbane di altri paesi. E non è neppure un caso se proprio in quel momento si ripresenta l’antica dizione di Megalopoli, sistematicamente rivisitata da un geografo come Jean Gottmann che la riscatta dell’immagine torva e decadente appiccicata dal reazionario antiurbano Oswald Spengler, sognante Vandee autoritarie che da ogni punto di vista paiono il rovescio speculare del mito di Suburbia. La nuova composizione insediativa, già di fatto pronta ad accogliere i portati di quello che tanto più avanti si definirà «territorio smart» al tempo stesso spaziale e a-spaziale, continua nel suo percorso parallelo di consolidamento delle relazioni e degli interessi da un lato, della poca o nulla definizione politico-strategica dall’altro. Si parla di sistemi urbani, di città-regione, a volte anche di mega-sistemi nazionali o trans-nazionali, ma pur sempre restando nell’ambito della pura sovrapposizione di ambiti di potere gelosi (tranne quelli ovvi degli Stati nazionali) del proprio monopolio parziale. Fino ad arrivare all’epoca delle prime avvisaglie di crisi energetica, ambientale, e dei «limiti dello sviluppo».
Cos’è l’urbanizzazione?
La visione reazionaria della megalopoli di Spengler, osservata da una diversa prospettiva progressista, ne metteva comunque in risalto un aspetto essenziale e davvero deteriore: non certo il banale formale sostituirsi dell’urbano al rurale, e forse neppure meccanicamente dell’artificiale al naturale, ma più precisamente della totale discrezionalità e incoscienza di questa sostituzione. Ma già quell’idea seminale di mega-regione urbanizzata ma in modo equilibrato e pianificato anni ’30, quando veniva chiamata fine della città o disurbanizzazione, e praticata sperimentalmente con quei nuovi insediamenti vagamente utopici, dalla Tennessee Valley Authority alle colonie rurali integrate dei regimi totalitari europei, poneva decisamente l’idea del limite dello sviluppo, pur non chiamandolo ancora così. E poneva anche in termini compiuti quella di coordinamento in qualche misura «politico» (oggi forse lo chiameremmo anche democratico), degli enti preposti a garantire continuità, articolazione, equilibrio, a quell’enorme tentacolo umano che si allargava sempre più sul pianeta. Un tema attualissimo oggi, quando sostenibilità dell’urbanizzazione planetaria significa in sostanza governo degli equilibri di queste macroscopiche forme di sviluppo territoriale, che comprendono sistemi urbani, infrastrutture di grande rilievo, poli produttivi, vaste zone agricole, risorse naturali. Che rapporto tra il programma, la forma dell’insediamento, gli enti di coordinamento? Alcuni paesi ne hanno una visione centralista e top-down, altri propendono decisamente per un non-governo, affidandosi quasi totalmente alla discrezionalità di soggetti presenti alla pari nel territorio storicamente interessato dai processi di sviluppo. Ma sarebbe fondamentale convergere su un approccio più unitario, visto che la questione è sempre identica.
Riferimenti:
Stephen P. Groff, Stefan Rau, China’s City Clusters: Pioneering Future Mega-Urban Governance, American Affairs Journal, Vol. III n. 2 estate 2019