Un tempo, quando tra fine ‘800 e primi decenni del ‘900 ancora si osava pubblicare manualistica urbanistica di un certo respiro, sia tematico che geografico, non mancava mai un capitolo interamente dedicato al modello dell’insediamento, in cui (purtroppo a volte prescindendo dalle vere motivazioni storiche, ambientali, sociali) si presentavano vantaggi e limiti della forma urbana concentrica, a griglia, a fasce o cunei, di solito accostate ad esempi storici o a casi contemporanei. Quel prescindere parziale o totale dalle motivazioni e obiettivi derivava probabilmente dalla ricerca abbastanza ossessiva di una certa efficienza meccanica dell’insediamento, della sua gestione dei flussi, del collocarsi dentro il contesto geografico ambientale specifico e i suoi vincoli e invarianti. Ma sottovalutando la complessità degli obiettivi, di quei modelli teorici, forse, se ne indebolivano anche le potenzialità di applicazione in tanti casi in cui sarebbero risultati utilissimi e coerenti. In sintesi i modelli insediativi e di crescita urbana riguardano una forma geometrica di riferimento che definisce i pieni e i vuoti, intesi come zone più artificiali o più naturali, e poi il sistema dei flussi, la distribuzione delle funzioni, a volte delle densità. E già il solo uso del termine pieni e vuoti indica ad esempio che il modello è già una scelta più o meno consapevole di equilibri geografico-ambientali, i quali quando sono consapevoli già indicano una strategia di lunghissimo periodo storico caratterizzante quella città.
La sfida tra idee di città
Che oggi potrebbe essere rideclinata secondo una «contingenza» come quella del cambiamento climatico, secondo le varie linee di azione che ciò comporta. Appare infatti evidente come per moltiplicare gli effetti di alcune scelte, a volte davvero puntuali e settoriali per quanto importantissime (dalla riconversione energetica, o trasportistica, edilizia, e via dicendo) possa rivelarsi fondamentale saperle contestualizzare entro un sistema più ampio, che sarebbe proprio quello del modello storico di crescita/sviluppo dell’insediamento, qualora esso fosse abbastanza chiaro e consapevole nei tratti essenziali, e soprattutto virtuosamente praticato pur con qualche sbandamento dalle successive generazioni. Ridurre le emissioni urbane di gas serra che contribuiscono al riscaldamento del pianeta, ma al tempo stesso adattarsi in qualche modo al clima che cambia comunque, adeguando la propria struttura insediativa e funzionale: due obiettivi che secondo alcune ricerche sarebbero contrastanti, perseguirne uno annullerebbe l’altro. Perché un intero filone di ricerche dimostra come la cosiddetta città compatta con la prossimità delle funzioni complementari riduce le emissioni legate alla mobilità e all’edilizia, rispetto alle forme disperse a bassa densità. Ma quella medesima forma compatta, specie nella declinazione che ben conosciamo della città moderna con edifici alti concentrati, produce l’innalzamento locale delle temperature noto come isola di calore, coi suoi problemi sia climatici che socio-sanitari e di abitabilità. Come conciliare questi due opposti?
Tecnica, efficienza, modelli storici
Qualcuno di fronte alla questione riesce ad elaborare quello che parrebbe una replica moderna degli antichi primordiali modelli di insediamento, in forma di «cornice geometrica ottimale» calcolata tridimensionalmente, tale da ridurre al minimo quel conflitto tra riduzione delle emissioni di mobilità-edilizia, e induzione di isole di calore. Più specificamente si lavora sull’idea, del resto per nulla nuova, di uno sviluppo edilizio-funzionale e delle reti di trasporto pubblico lungo assi radiali centro-periferia, accoppiato a un controllo delle densità che non saranno automaticamente ed esponenzialmente crescenti man mano ci si avvicina al nucleo centrale degli interessi. Una neo-modellistica, che si dichiara «aderente agli andamenti anche economici dello sviluppo urbano» così come rilevati dominanti, e che precisa di ritenersi valida e praticabile solo là dove si pensano e costruiscono nuclei urbano-metropolitani del tutto nuovi. La perplessità, molto molto forte, di questo approccio, che pare addirittura più lineare di quelle specie di «assi attrezzati» proposti come panacea di ogni male, sta nel confondere la parte col tutto, i mezzi coi fini. Vero, la lettura di alcuni parziali processi di crescita urbana, e relativi effetti morfologici e climatici, porta anche a individuare l’importanza di legare insediamenti, trasporti, densità governate: ma ignorare la storia (ovvero ragionare solo sulla tabula rasa della ennesima New Town ideale-utopica) non pare conformarsi al concetto stesso di modello come l’abbiamo riassunto in partenza. Insomma questi approcci che si vorrebbero scientifici a un grande problema come quello climatico-urbano, meglio farebbero a evitare di allargarsi troppo a temi che non conoscono (per esempio l’economia urbana letta come se fosse una invariante al pari del clima o del passare del tempo). E pensare che comunque anche là dove non c’è nessuna «città» così come la intendiamo noi, esistono sia una storia che un «modello», tutti da capire e interpretare, prima di spostare una sola pietra.
Riferimenti:
Carl Pierer, Felix Creutzig, Star-shaped cities alleviate trade-off between climate change mitigation and adaptation, Enviromental Research Letters, 2019
Immagini da: Cesare Chiodi, dispense del corso di Tecnica Urbanistica, Politecnico di Milano, anno accademico 1932-33