Avviso: questa è una specie di instant-text che nasce dallo spunto di uno stimolo particolare del momento. Ma forse va un pochino più in là della reazione spontanea a una provocazione, trattando un argomento a dir poco di lungo periodo, se qualche migliaio di anni vi paiono un periodo abbastanza lungo. Perché dura molto, moltissimo, l’effetto micidiale e velenoso delle attività industriali sul suolo, come ben sanno gli abitanti delle zone dismesse, quando dopo aver visto svuotarsi i capannoni, speranzosi che alla fonte di lavoro in cambio di degrado si sostituisca almeno un’altra funzione, vedono invece per lustri il deserto, e altro tipo di degrado. Frutto della battaglia furibonda che si svolge altrove, su chi debba accollarsi gli esorbitanti oneri della cosiddetta «bonifica», ovvero cercare di ricondurre quel posto, se non all’arcadia primigenia, perlomeno a termini sanitari socialmente accettabili. Quello che pochissimi considerano, per colpevole ignoranza o superficialità, è però la natura di attività industriale ad elevatissimo impatto velenoso dei distributori di benzina e strutture associate alla manutenzione auto. Ovvero quel genere di cose che stanno letteralmente ovunque nelle nostre città, e anzi da molti se non da tutti vengono considerate indispensabili, un servizio, un diritto, un assset irrinunciabile da non mettere in discussione neppure per scherzo. Parte proprio da lì, lo spunto della riflessione instant.
Dal post di un amministratore che, osservando dei lavori stradali in corso, notava come l’aver impedito provvisoriamente il passaggio alle auto sottolineasse l’esistenza di una «piazza virtuale» prima insospettabile. Non valeva la pena di rifletterci, si domandava infine? Immediato il commento di un cittadino: voialtri amministratori, pensate invece a sbrigarvi con quel cantiere, perché c’è un distributore di benzina là in mezzo che sta rischiando di fallire senza il passaggio dei veicoli! Ed è questo commento che si merita una bella disamina a fondo, indipendentemente dal tono un po’ polemicamente aggressivo, perché riflette una serie di atteggiamenti e tic a dir poco surreali, ma a dir poco diffusissimi. Se l’amministratore pensava, il cittadino se ne guarda bene, lui agisce per automatismi, come un ginocchio picchiato dal martelletto che fa scattare all’insù la gamba. C’è una cosa chiamata città, che si percorre in macchina perché è sempre stato così, e anzi solo con la macchina e dalla macchina se ne fruisce adeguatamente, insomma cittadinanza e uso dell’automobile sono una cosa sola. Secondo, ma non certo in ordine di importanza, tutti gli spazi e servizi che ruotano attorno a quel mezzo meccanico, diventato inscindibile dall’essere umano cittadino e dalla sua vita, dal suo metabolismo, assumono carattere di sacra immanenza. Il gestore di una pompa di benzina, assurge a un ruolo quasi sacerdotale, per quanto di un ordine minore, e insieme a lui il garagista, l’elettrauto, il concessionario eccetera.
I loro templi sono luoghi sacri, aspersi dall’altrettanto sacro petrolio e dai suoi derivati, liquidi, solidi, gassosi, e da altri prodotti collaterali di complemento che rendono il mondo come deve essere. Cose, tutte, che non si discutono, al massimo si interrompono per qualche istante, esattamente come succede nelle funzioni religiose o per il restauro di un affresco sopra l’altare. E qui val la pena tornare a quanto detto nel paragrafo introduttivo: quei luoghi, nel cuore della città e mescolato con la gente che passa, mangia, dorme, vive, sono quanto di più micidiale e velenoso produca l’insediamento industriale. Ora, proviamo a fare uno sforzo di immaginazione anche più piccolo di quello che faceva quell’amministratore «sognando la piazza» nell’area provvisoriamente sbarrata per il cantiere, e al rimbrotto del cittadino offeso dal sacrilegio di sabotare l’attività di uno dei templi sacri dell’automobilismo, e i riti del suo sacerdote/lavoratore con famiglia a carico. Ovvero, restando molto più in qua di tutte le proposte (pur ragionevolissime) di limitazione del traffico automobilistico urbano, proviamo a lavorare solo sull’effetto più pernicioso per la salute, il petrolio e i suoi derivati che impregnano tutto e ci ammazzano più o meno lentamente.
Immaginiamo, cioè, che senza scalfire di un millimetro tutto l’immaginario pseudoreligioso (così l’abbiamo definito per comodità) del nostro cittadino inferocito, se ne cambi soltanto un aspetto rituale, come la messa celebrata in italiano anziché in latino, o qualche correzione di formula nell’amministrazione dei sacramenti. In termini di regolamentazione urbana, questo nuovo rito si chiama introduzione del veicolo elettrico, e progressiva esclusione di quelli a combustione interna, dal nucleo centrale urbano, e via via anche dall’area metropolitana. Pare, questo, un provvedimento dotato di ottime basi sanitarie, sia riguardo alla qualità dell’aria locale, sia riguardo all’inquinamento dei suoli, e quindi perfettamente attuabile. Si stimolerebbe (come già accaduto con altri provvedimenti ambientali) il mercato dei veicoli, magari con aiuti e stimoli pubblici di qualche genere, e finalmente l’industria privata vedrebbe nascere una domanda un po’ più corposa a cui rispondere, cioè quella di chi non per buona volontà e coscienza, ma puro dovere di adeguarsi alle regole, si compra una macchina un furgone o uno scooter ad alimentazione elettrica. Più mercato, più concorrenza, modelli migliori e meno cari, se tanto mi dà tanto: ma il posto di lavoro al distributore?
Beh, non si capisce perché complessivamente, tutta la rete di manutenzione, rifornimento assistenza, sosta vigilata delle auto, non possa e debba subire una riorganizzazione adeguata alle nuove esigenze, e magari mescolarsi ad attività emergenti come il car-sharing. Forse entrerebbero in campo via via nuovi operatori, magari in modo simile a quanto sta succedendo nell’ambito della distribuzione commerciale, magari addirittura in sinergia o sovrapposizione ad essa. Ci sono i punti di ricarica, equivalente dei distributori, ma anche appunto tutto il resto, che oggi ruota attorno all’automobilismo tradizionale a derivati del petrolio, e che si riconvertirebbe in qualche modo. E soprattutto c’è la riorganizzazione ambientale, bonifica di terreni, di edifici, trasformazioni spaziali correlate, e forse, perché come sempre tutto si tiene, anche la piazza a maggior ruolo pedonale immaginata dall’amministratore (si trattava di Piazza San Marco a Milano, tanto per non fare misteri) diventerebbe a portata di mano. Se invece il cittadino furibondo non vuol sentire ragioni, si cerchi un altro pianeta, anche perché pare che il suo stile di vita non sia compatibile col nostro.