Ora che i piani regolatori vengono presentati al Ministero per il Governo Locale e l’Urbanistica, sapremo finalmente se siano ben riposte le speranze di quanti credono che l’urbanistica possa essere un processo realmente democratico, basato sulla comprensione e approvazione dei cittadini, oppure se la pianificazione prenderà una svolta burocratica, con gli esperti a pianificare, per quanto espertamente, nel vuoto dell’indifferenza e apatia generale. Molti tra noi, a parole, sostengono l’ideale secondo cui l’urbanistica può essere democratica: la Conferenza nazionale della Town and Country Planning Association da tenersi più avanti quest’anno, col suo titolo «Pianificare per la gente», è una dichiarazione di questa fede. L’attivazione di gruppi di pianificazione locali, in collaborazione con il Servizio Sociale Nazionale è un’altra prova della volontà e del desiderio di creare una comprensione diffusa dei problemi relativi.
Ma anche chi più si impegna nel legare pianificazione e cittadini, certo non sa esattamente come lo si possa fare nel migliore dei modi. Siamo sin troppo consapevoli delle difficoltà che ci stanno davanti: l’ostilità di coloro i cui piani privati sono probabilmente destinati ad essere subordinati all’interesse generale, l’apatia e l’indifferenza di coloro che pur potrebbero guadagnare enormemente da una buona urbanistica. C’è da dubitare, se costoro si considerino come vittime di un sistema di potere lontano, sul quale non hanno controllo. Per la maggior parte essi sono sublimemente inconsapevoli dell’esistenza di qualunque sistema: un pensiero che ci riporta alla realtà, se riflettiamo sulle parole del Rapporto Schuster sulla formazione degli urbanisti: «Il controllo che le autorità di piano possono esercitare sull’ambiente fisico è, per quanto fisicamente praticabile, quasi assoluto».
Anche se i gruppi di pianificazione locali, sui quali sono appuntate almeno alcune delle nostre speranze, riuscissero oltre tutte le aspettative, dobbiamo ricordare che al meglio saranno in grado di influenzare direttamente una piccola porzione del pubblico. Possiamo, naturalmente, consolarci con la speranza di attirare una minoranza riflessiva e motivata, che possa avere un’influenza fuor di proporzione rispetto alla forza numerica. Possiamo, anche, chiederci perché abbiamo mancato tanto vistosamente di rendere popolare l’urbanistica. Qui, posso solo suggerire un ambito importante dove abbiamo sinora fallito, ma dove potremmo ancora fare notevoli progressi se affrontassimo la questione nel modo giusto.
Le donne influenzano l’abitazione …
L’influenza dell’urbanistica sul pensiero e l’opinione delle donne, sia come singole nelle proprie case che collettivamente nelle loro organizzazioni, è stata irrilevante. È strano, se pensiamo a quanto esse hanno influenzato lo housing, come entità distinta dal planning. In quest’ultimo campo il maschio predomina; nelle questioni direttamente legate all’abitazione, visto che il posto della donna è la casa, la sua influenza è stata incalcolabile. Mai, le donne hanno manifestato tanto attivo interesse nell’organizzazione della propria casa, quanto oggi. Le nostre cucine sono la testimonianza dei comitati che hanno studiato la distanza percorsa a piedi dalla donna di casa; la loro attrezzatura evidenzia il lavoro di donne che sono state davanti a lavandini, vasche da bucato, tavoli, fino a farsi venire il mal di schiena, per scoprire la migliore altezza utile di questi oggetti. Giustamente, anche, la donna di casa ha deciso che, potendo trascorrere anche qualcosa come una settimana di quaranta ore nella sua cucina, essa dovesse essere luminosa, piacevole e aerata, come le fabbriche moderne, e che in più dovesse essere una «stanza con vista». Come semplice maschio, a cui capita non infrequentemente di entrare in cucina come «mano in più», posso apprezzare questo miglioramento nelle condizioni di lavoro e la rivoluzione che le donne hanno compiuto nelle loro case, anche se ho il vago sospetto che tutto questo possa essere stato in qualche modo accelerato dal fatto che negli anni recenti i nostri architetti maschi hanno appreso la «pianificazione domestica» nel modo più difficile: con le maniche rimboccate!
… Ma non l’urbanistica
Ora, proprio questa preoccupazione per la cucina, e l’accettare che il posto della donna sia la casa, è in larga parte responsabile per il fallimento nel coinvolgere vaste e importanti sezioni del pubblico nell’urbanistica. Dobbiamo ricordarci sempre che le donne costituiscono la maggioranza degli elettori. Questo ci ha aiutato a produrre la cucina che risparmia fatica, ma ha fatto poco per eliminare la città che produce fatica. La verità di tutto ciò mi è apparsa grazie ad una visita alla Mostra delle Case Ideali, dove mi sono fatto largo tra la folla, che si accodava per ore, a vedere una «casa da esposizione». Esausto per la lotta, ho trovato infine il rifugio di un piccolo paradiso dove la folla non arrivava e potevo stare da solo coi miei pensieri. Era il padiglione del Ministero per l’Urbanistica, dedicato ai piani regolatori! Via dalla pazza folla ho potuto riflettere sull’ironia della situazione. Tutta questa preoccupazione per un progetto dettagliato della casa, e a malapena un pensiero dedicato a considerare in modo più ampio dove quella casa dovrebbe stare in relazione al lavoro, alla spesa, alla scuola, al tempo libero, e alle altre cose che vanno a costruire la vita.
Città che non risparmiano fatica
Le nostre case moderne sono progettate per la comodità e l’efficienza; lo stesso non si può certo dire per la somma totale di queste case, che chiamiamo città. Le donne si sono emancipate dalla schiavitù del fornello: il tempo risparmiato lo passano in defatiganti viaggi per la spesa, o nell’accompagnare i bambini a scuole dove sarebbe troppo pericoloso per loro andare da soli. Quelle che possono scegliere, non degnerebbero di uno sguardo una casa con una cucina mal progettata; ma non sollevano nemmeno un mormorio di disapprovazione contro una città che manca di soddisfare i più elementari bisogni del vivere civile. Le madri non esporrebbero mai volontariamente i propri figli a pericoli dentro la propria abitazione; ma quante di loro hanno mai tentato di influenzare la localizzazione delle scuole, per evitare ai bambini il rischio di attraversare strade di traffico? Con quanto più amore guardano alle proprie case, ai propri giardini, tanto meno sembrano interessate a guardare oltre la cucina, l’abitazione, il giardino, e vedere come le case sono sistemate riguardo ai servizi essenziali. È giusto e comprensibile che i pensieri delle donne abbiano al centro le proprie case; ma è riprovevole che i loro orizzonti non si amplino oltre questi angusti confini.
I piani si possono capire
L’urbanista deve solo incolpare sé stesso se, sapendo come le donne siano interessate al progetto della casa ma non alla pianificazione della città, non ha capito che a metà fra le due – e a collegarle l’una all’altra – sta il quartiere, la più piccola ma forse più importante entità della nostra urbanistica. È nel quartiere, dove le cose sono a scala umana e le questioni a scala locale, che l’urbanistica prende vita per la gente comune. È qui che le donne possono entrare a pieno titolo nel quadro generale, perché sono loro che passano tanta parte della vita nel quartiere. Sono loro che devono scortare i bambini a scuola, e poi andare nella direzione opposta per la loro spesa. Sono loro, che soffrono quando l’unico spazio da gioco dei bambini è la strada. Sono quelle che spingono il passeggino e portano pesanti borse per la spesa, che sanno quanto lontano stanno i negozi (un fatto pietosamente ignorato dai funzionari, che a quanto pare sembrano avere tutti l’automobile). Sono le donne ad essere le peggiori vittime della solitudine, della noia, della frustrazione dei grandi quartieri dormitorio dove tanto tristemente manca vita sociale.
La casa e il quartiere
Per tutte queste ragioni, quindi, non c’è compito più urgente per tutti coloro che sono impegnati negli aspetti sociali della pianificazione, che allontanarsi dagli astrusi misteri delle statistiche e trovare nuovi modi di interpretare l’urbanistica per la gente comune, secondo linguaggio e termini che essi possano capire. Non c’è niente di buono nel «prendere la gente da dove non sta, per portarla dove non vuole andare». Ma a partire dalla donna in casa, non dovrebbe essere impossibile portarla a vedere come essa sia portatrice di «interessi consolidati» nella pianificazione del quartiere: un lavoro che non può essere interamente delegato agli esperti. Ovviamente, sarà più facile in alcuni casi che in altri. Non è semplice parlare di urbanistica a coloro che abitano i più squallidi e degradati quartieri delle zone interne di tante nostre grandi città, dove qualunque prospettiva di ricostruzione può apparire ora remota e irreale come un sogno. Ma anche qui potrebbe rappresentare un potente stimolo al decentramento e a un migliore considerazione della città nuova, o della piccola città, come risposta a tanti nostri problemi. E visto che ora molte donne di Londra sembrano mostrare una resistenza inaspettata a muoversi verso le città nuove, è chiaro come ci sia lavoro in abbondanza da fare in questo campo. Forse sarebbero interessate a sapere qualcosa di più sulla new town di Aycliffe, di cui gli urbanisti vogliono fare una «città per la famiglia», con «in primo piano la felicità di donne e bambini», e il cui scopo, nelle parole di Lord Beveridge, è di aumentare «il tempo libero dei più importanti lavoratori senza salario del nostro popolo, le casalinghe».
Da: Town and Country Planning, settembre 1951 – Titolo originale: Good kitchens and bad towns – Traduzione di Fabrizio Bottini
copertina fermo immagine «Die Frankfurter Küche», 1924