La questione ambientale con l’urbanizzazione del mondo si sposta via via da un’idea centrata sulla tutela di ciò che è naturale e lo deve restare, a un modello di metropoli essa stessa parte dell’ambiente, e non più escrescenza tumorale nociva da arginare. Forse è il caso di cominciare a spiegarglielo da subito, ai nostri loquaci chiacchieroni della promozione immobiliare, di non usare più quell’orrenda cosa della lottizzazione definita paradiso immerso nel verde. D’ora in avanti molto meglio, anzi molto politicamente e ambientalmente corretto, parlare di paradiso verde che si immerge dentro a qualcos’altro. Ed esattamente la città: quella che esiste e quella che esisterà in futuro. Naturalmente la categoria dei promotori immobiliari, televisivi o di altro genere, non è l’unica né la prima a dover essere interessata da quello che dovrebbe essere un vero e proprio cambio di paradigma. A chi non piace la parola paradigma si può suggerire un più meccanico e virile cambio di marcia, ma il senso rimane più o meno identico, e suona: l’uomo fa parte dell’ambiente, questo ambiente ormai da decenni si avvia ad essere sempre più urbano, interessando nel giro di pochissimi anni superfici, ambiti, soprattutto quote di popolazione mondiale immensamente più estese delle attuali, e tocca adeguarsi, questione di vita o di morte.
Sinora si poteva anche girarsi dall’altra parte, continuare con la litania della città sentina di tutte le perversioni, e della campagna culla dei veri valori universali, salvo poi scoprire che non solo la campagna era stata trasformata in modo molto più brutale della città dalla tecnologia, ma che anche ciò che chiamavamo campagna in tantissimi casi non lo è affatto, salvo i simulacri di bel tempo antico sparpagliati ad arte nello sprawl metropolitano. Non solo il picco demografico (il 50% della popolazione planetaria urbana) ce lo siamo già lasciato alle spalle, ma nell’arco brevissimo di una generazione avremo percentuali ancor più da brivido, relative a cifre assolute naturalmente superiori, e un terrificante triplicarsi delle superfici di ciò che chiamiamo città. Basta guardare le cartine di tanti e tanti studi di tanti e tanti organismi internazionali o locali, per rendersi conto dell’impatto macroregionale e planetario di quella che pare improprio definire espansione urbana. È una vera e propria esplosione, a cui appunto non si può replicare col solito (solito da diversi secoli) vado a vivere in campagna, e neppure col più recente vado a fondare una città ideale più bella giusta e sostenibile. Non c’è più spazio per queste finte utopie.
Finte appunto perché il fenomeno dell’urbanizzazione, visto da tutte le prospettive necessarie, ha smesso di avere dimensioni locali, per quanto dilatate, assumendone di planetarie. È questo in sintesi il nuovo paradigma: salvo cercarselo nello spazio siderale, non c’è più un altrove territoriale a cui guardare come nuova frontiera di alcunché legato all’idea di urbanizzazione alternativa, o stato naturale. La città ha conquistato la terra, come in una specie di film di fantascienza senza invasori alieni, e adesso le due devono iniziare in qualche modo a convivere, perché è impossibile distinguerle. Ecco cosa vuol dire, che i promotori immobiliari devono smetterla di immergerci idealmente nel verde: a furia di immergerci qualcosa, quel verde non c’è più, e ci tocca cambiare prospettiva. Come? La strada ce la indica forse uno che di prospettive planetarie dovrebbe intendersene, quando spiega: «le città sono in grado di riconciliare la società umana e la biodiversità, costruendo ambienti ecologicamente sostenibili, economicamente produttivi, politicamente partecipativi, culturalmente stimolanti». Firmato Ban Ki-moon, segretario generale dell’ONU, nella sua introduzione a un rapporto tematico di qualche anno fa.
Il che detto in altre parole suona smettiamola di pensare alla città come al male, per cui c’è bisogno della terapia utopica dell’antiurbanesimo, o del modello ideale da ricercare altrove: è la città stessa ad essere la terapia ideale, e a questo stato delle cose anche l’unica. Che non ci fosse più alcuna campagna in cui cercare idilli arcadici ce lo dicevano da decenni parecchi studiosi di cose territoriali: da chi già all’alba dell’automobilismo moderno guardava il paesaggio ex rurale assomigliare sempre più a un quartiere a bassissima densità, a quanti più recentemente osservano come la globalizzazione, ad esempio coi processi di land grabbing, le monocolture, le tecnologie Ogm ecc. abbia talmente spostato l’idea di dialettica città/campagna da renderla un concetto del tutto teorico, e soprattutto micidiale per qualunque equilibrio tra natura e artificio, fra i tempi del pianeta e quelli della nostra cosiddetta vita economica. E in fondo è da questo genere di considerazioni che nascono per esempio le culture del chilometro zero, a cercare all’inizio soprattutto simbolicamente un dialogo diverso, non un ritorno a un impossibile passato tradizionale ma una riflessione approfondita e scientifica sul rapporto fra vita umana/urbana e habitat locale/planetario.
Quello che è accaduto è la presa di coscienza, ormai abbastanza diffusa, di un effetto città fuori controllo dal punto di vista degli impatti sulla biodiversità e gli ecosistemi, ovvero ciò che (conviene ricordarlo) ci tiene in vita molto più direttamente del conto corrente bancario, o del nuovo modello di auto a quattro ruote motrici. Si calcola che ai ritmi attuali di crescita demografica ed espansione insediativa già nel 2030 (dopodomani) la superficie urbana possa triplicare rispetto al 2000, con un raddoppio della relativa popolazione di cittadini: l’idea insomma, piaccia o meno, è che ogni persona consuma sempre più spazio. Così come avvenuto sempre, la crescita urbana attinge per forza a risorse naturali per alimentarsi, l’acqua ad esempio, o i terreni intesi come superfici coltivabili che una volta trasformati non lo sono più, e si capisce che un’autostrada o un centro commerciale, almeno nell’idea di oggi, la biodiversità e gli ecosistemi li considerano e incorporano pochino.
C’è da aggiungere, che come già accade oggi la crescita urbana/demografica avverrà in contesti di relativa povertà, e che quindi potrà essere difficile governare e far convivere le prevedibili aspirazioni, per esempio ai consumi individuali, con un’idea di contenimento degli impatti sull’ambiente. O che povertà spesso si accompagna a poca informazione, poca democrazia, poca trasparenza, e quindi almeno in parte il motore del cambiamento dovranno essere altre aree e contesti socioeconomici, ovvero noi paesi più ricchi, di soldi e conoscenze. Per esempio, la storia dell’urbanizzazione europea ci insegna che la città può essere, o meglio essere diventata, assai più biologicamente diversificata della campagna che la circonda, e questo si deve anche a fattori culturali, come l’attenzione dei cittadini a conservarsi spazi di elevata vivibilità, che in qualche modo poi anche inconsapevolmente attirano flora e fauna dalle aree extraurbane: da tutte le possibili erbacce, a specie più o meno infestanti ma inserite, a casi eclatanti come quelli di colonie di prede e predatori insediati fra negozi e case anziché fra gli alberi della foresta.
Anche sulla scorta di queste conoscenze, si capisce quanto se l’urbanizzazione sta cambiando la natura del pianeta, gli equilibri della biodiversità, si debba anche superare un approccio tradizionale di conservazione, progettando consapevolmente su larga scala ambienti urbani compatibili, dove «ambiente urbano» è ovviamente qualcosa che va ben oltre il concetto attuale, specie dal punto di vista del coordinamento scientifico, tecnico-operativo, decisionale. Così come sta già oggi accadendo localmente ad esempio per i bilanci energetici, o le emissioni, occorre che negli strumenti e nelle politiche di governo del territorio, nei programmi di sviluppo socioeconomico sottesi (ovvero tutto quanto interessa spazio e ambiente senza toccarlo in modo diretto ed esplicito come avviene coi piani territoriali), vengano integrati obiettivi strategici per la biodiversità. Biodiversità che, è il caso di ripeterlo, un tempo nella logica della città in qualche modo finita e delimitata si cercava ed eventualmente tutelava altrove, ma oggi deve crescere insieme all’espansione insediativa globale, e via via interessare anche quanto oggi è già urbanizzato, ma lo è con criteri di impatto troppo elevati.
Solo da questi pochi cenni, si inizia a intuire quanto strada sia necessario percorrere, soprattutto quando si parte da sciocchezze ideologiche e piuttosto ignoranti come i calcoli degli urbanizzatori a oltranza (quelli che dicono lo sprawl non esiste, e le crisi climatica ed energetica neppure, basta qualche innovazione tecnica e via amici come prima). E che conservano un approccio anche istituzionale segmentato ai temi dell’urbanizzazione, dove magari esistono gli approcci ambientale, energetico, di efficienza edilizia e nei trasporti, di tutela del paesaggio e contenimento del consumo di suolo, ma ciascuno chiuso nella propria dimensione e obiettivi, lasciando una improbabile ricomposizione solo alla decisione politica, che così avviene in modo assai poco informato. Per non parlare della separazione fra i piani e progetti che interessano lo spazio fisico, e altre decisioni magari importantissime che possono contraddire o cancellare quelle virtuose, ma che non vengono mai messe nel conto. Insomma se oggi consideriamo sempre e comunque una bella cosa piantare alberi, magari potremmo scoprire che ci fanno malissimo (perché no?) se si sceglie una certa essenza, o se stanno in un posto invece di un altro, o se sono troppo vicini alle case, o attirano specie di animali poco desiderabili … Se nella biodiversità ci abitiamo tutti i giorni, forse è meglio iniziare a adeguarsi