Up on housing project hill
Is either fortune, or fame
You must pick one or the other
Though neither of them
Are to be what they claim
(Bob Dylan, Just like Tom Thumb’s blues
Premessa
Bologna, una giornata qualsiasi. Chiunque attraversi passeggiando o guidando un’auto, oppure percorra in autobus, i quartieri periferici, non può fare a meno di notare spazi ben precisi, che si distinguono nettamente da tutti gli altri. A ben vedere, non sono i dettagli delle architetture a fare la differenza, né occorre una particolare competenza in materia urbanistica per intuire che quella fila di case, quella piazza, quel cortile, hanno caratteristiche sottilmente uniche, irreperibili nel resto del quartiere. La cosa stupisce particolarmente, a Bologna, dove (caso piuttosto raro nelle città italiane) ampie zone di espansione si sono realizzate in modo relativamente ordinato, pianificato, con la visibile presenza di attori pubblici, o comunque orientati a produrre spazi di elevata qualità collettiva: Comune, Istituto Case Popolari, Cooperative.
Queste parti di quartiere diverse e uniche, sono le realizzazioni dell’INA-Casa, che tra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta contribuì in tutta Italia a fissare un vero e proprio nuovo standard, non solo residenziale, a cui in un modo o nell’altro fecero riferimento sia l’edilizia pubblica che quella privata degli anni successivi.
La legge istitutiva dell’INA-Casa è la n. 43 del 1949, Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case, fortemente voluta dall’allora ministro del Lavoro, e futuro protagonista di primo piano della politica italiana, Amintore Fanfani. Approvata la legge alla fine di febbraio, già nella tarda primavera si inauguravano i primi cantieri, e nei primissimi anni Cinquanta le abitazioni INA-Casa iniziavano ad essere molto visibili nelle città italiane, a trasformare vistosamente l’immagine della periferia, come – a Bologna – nel caso del nuovo quartiere a Borgo Panigale, sulla via Emilia ponente, o del villaggio Due Madonne, ai confini con San Lazzaro. Ma, come già si diceva, la spinta innovativa e l’impatto visivo di questi quartieri vanno ben oltre la semplice qualità architettonica e urbanistica (peraltro ben diversa, nei due esempi citati): i nuovi spazi nascono, per così dire, già ben radicati nell’immaginario sociale italiano, o almeno di buona parte dell’Italia tradizionale, di cultura cattolica, di recenti origini rurali. Un’Italia che anche nell’accelerato processo di modernizzazione e urbanizzazione degli anni Cinquanta, cerca valori di tipo comunitario non solo nell’ambito della famiglia, ma anche negli spazi di vita sociale quotidiana.
A questo bisogno, non avevano sinora risposto in modo appropriato le politiche tradizionali della casa popolare, tese (logicamente, comprensibilmente, legittimamente) ad un approccio quantitativo, e in gran parte fortemente tecnicista anche nel campo della ricerca più innovativa. Il piano Fanfani, con un approccio tutto politico, ribalta i termini della questione: non la quantità, ma la qualità; non la quota di bisogno materiale effettivamente coperta, ma la creazione di aspettative, l’attivazione di risorse intellettuali, di immaginario collettivo, potranno innescare un circuito virtuoso fra una élite politico-professionale, e masse popolari improvvisamente affacciate all’industrializzazione, al suffragio universale, e in prospettiva alla costruzione di una inedita – per l’Italia – middle class in grado di produrre consenso, secondo forme inedite di partecipazione e inclusione. E si tratta di un progetto «vincente», se è vero – come è vero – che a mezzo secolo di distanza è ancora riconoscibile la differenza fisica di organizzazione e fruizione collettiva degli spazi, che distingue in positivo le realizzazioni INA-Casa da quelle (precedenti, contemporanee, successive) realizzate da altri soggetti, pubblici, cooperativi, privati. Alcune delle ragioni di questo straordinario successo saranno l’oggetto dei paragrafi che seguono.
Radici
L’epoca fascista in Italia si caratterizza, sul versante della politica urbana, secondo due linee principali di pensiero/intervento. Da un lato c’è la nota avversione del regime per le città, le concentrazioni operaie: insomma quei potenziali focolai di dibattito e confronto che, fisiologicamente, collidono con l’ordine totalitario e corporativo che si auspica. D’altro canto il fascismo persegue un’idea di modernizzazione nazionale che non può prescindere dalle città, e non è un caso se – di fianco ai progetti delle borgate rurali modello – i giovani architetti della nuova generazione si fanno le ossa sul tema della casa popolare urbana, importando più o meno coerentemente le idee del razionalismo europeo, a partire dagli studi di casa minima di Alexander Klein. Quello che manca ai pur volenterosi architetti progressisti, però, è una solida cultura urbanistica, ovvero quello che in Italia allora come oggi rappresenta la quadratura del cerchio: il rapporto fra tradizione e modernità, che nei nuovi quartieri popolari si declina in termini certamente diversi dalle polemiche sui centri storici. Semplificando al massimo, l’espulsione dalle aree centrali dei ceti popolari, indipendentemente dai risvolti politici e speculativi, si traduce in una indesiderata perdita di identità, a cui non corrisponde un preciso progetto di identità nuova. I nuovi quartieri periferici non esprimono (pur con tutti i conflitti de caso) un progetto di migliore società futura, ma deterritorializzano qualunque aspettativa individuale, familiare, collettiva, distruggendo il pur degradato tessuto socio/spaziale del centro storico, per sostituirlo con gli spazi burocratici delle case minime, ultrapopolari, con «quartieri» che non sono tali, perché non corrispondono ad alcuna aspettativa. Certamente, gli sforzi della nuova generazione di architetti italiani, soprattutto di quelli che fanno riferimento al razionalismo europeo, sono onestamente orientati a fornire una risposta coerente alle domande emergenti di spazio urbano, ma in massima parte la produzione di case popolari è lontanissima da qualunque tentativo di convergenza fra un ipotetico modello di città ideale, e le altrettanto confuse aspettative di operai appena sfrattati, o di ex contadini neo-inurbati. Nel caso specifico di Bologna, basta passeggiare nella zona di via Libia, fuori Porta San Vitale, per capire che l’idea di «quartiere» popolare di iniziativa pubblica degli architetti anni Trenta, può declinarsi anche in termini paragonabili (dal punto di vista organizzativo: certamente non delle densità) a quelli dell’iniziativa privata di tipo speculativo: studio dell’alloggio, dell’edificio, ma totale esclusione di qualunque «fuoco» collettivo, in una quasi totale uniformità planivolumetrica.
Contemporaneamente, negli stessi anni Trenta, si forma e si perfeziona l’idea di un rapporto più complesso tra idea di spazio e idea di società. Sono le stesse radici culturali, europee e riformiste, della cultura degli architetti innovatori, a portare con sé implicitamente un progetto di città e società progressista, nel senso di equilibrio più avanzato fra spazi urbani e reidentificazione individuale e collettiva. Troppo spesso, però, il progetto urbano inteso acriticamente come espansione modulare dell’alloggio, genera spazi alieni: ai contadini inurbati così come ai proletari espulsi dai centri storici. Questo vale però solo se ci fermiamo alla superficie delle cose, ovvero alle immagini dei migliori progetti noti, e alla percezione fisica contemporanea di quelli realizzati. E’ certo che il processo di ricerca e riflessione sul tema della casa popolare inizia a produrre, negli stessi anni in cui si consolida il «modello» che abbiamo sommariamente descritto, anche i suoi anticorpi.
Da un lato, il tema della complessità dell’impatto sociale dei nuovi nuclei, che sbrigativamente schematizzato da progettisti e burocrati riemerge: nelle eccentricità di uso quotidiano degli spazi, così come nella parallela decadenza dei (pochi) temi collettivi inseriti nei nuovi quartieri periferici. D’altro canto, la ripresa e articolazione delle riflessioni che erano all’origine, a cavallo fra ‘800 e ‘900, della legislazione italiana sulle case popolari. Ai fini di queste note, è utile ricordare almeno tre di questi approcci.
Il primo è quello più noto, della ricerca tecnica, formale, organizzativa, sul tema dell’abitazione di massa, che negli anni Trenta ben si riassume nel titolo e nei contenuti del lavoro di Irenio Diotallevi e Franco Marescotti, Ordine e destino della casa popolare. Oltre gli strali antiurbani del regime, in sintesi, la ricerca più avanzata propone un radicale superamento della logica del villaggio rurale, attraverso quartieri che pur fortemente caratterizzati in senso urbano possano fornire servizi privati e pubblici tali da far rapidamente dimenticare la vita rustica, le sue false arcadiche solidarietà, i suoi veri disagi quotidiani.
Il secondo approccio è quello manageriale/organizzativo, che consente per almeno tre lustri di sviluppare e monitorare su larga scala sia le suggestioni della ricerca di progetto, sia alcune intuizioni di obiettivo sociale enunciate all’inizio del secolo, sia infine di misurarsi con quella «politica dei quartieri» che, da ora in poi, sarà il segno caratteristico di azione degli Istituti Case Popolari, e delle varie agenzie e iniziative connesse all’edilizia pubblica e sovvenzionata. E’ nel quadro di questo secondo approccio che maturano due strategie che saranno alla base del futuro piano INA-Casa: quella socio/urbanistica, e quella connessa ai meccanismi di finanziamento. Il mix virtuoso di approccio sociale e urbanistico, si riassume nel personale contributo di Giuseppe Gorla, presidente dell’Istituto Case Popolari di Milano, e ministro dei Lavori Pubblici che farà approvare nel 1942 la prima legge urbanistica nazionale. Gorla intuisce che è indispensabile sviluppare due linee di intervento: quella quantitativa, con le case a costo minimo e una politica di acquisizione delle aree; quella qualitativa, con gli incentivi alla ricerca progettuale, al monitoraggio sociale, all’articolazione per segmenti di utenza. Alberto Calza Bini, fondatore dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, influente membro del Partito Fascista, Presidente dell’Istituto Case Popolari di Roma, enuncia nel 1939 uno straordinario elemento innovativo nel campo della casa popolare in Italia: il movimento dei lavoratori è pronto a farsi carico, direttamente, del finanziamento dell’edilizia pubblica. E’ un salto di qualità notevole, che sposta il problema dell’investimento pubblico in edilizia residenziale dal campo dell’assistenza a quello di una possibile, pianificata «autogestione», che l’idea dello stato corporativo sembra rendere ragionevolmente possibile e praticabile anche a tempi brevi.
Il terzo approccio al problema della casa per i non abbienti, parte decisamene sottotono e sottotraccia, nel 1930. Un gruppo di studenti iscritti alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano unisce l’utile al dilettevole/solidale, in collaborazione con le Dame di San Vincenzo. L’esercitazione proposta è una serie di interviste tramite questionario sulle condizioni abitative/economiche degli assistiti. I questionari saranno compilati durante le visite che gli stessi studenti effettueranno presso le famiglie, contestualmente alla prestazione di assistenza: è un semplice do ut des, informazioni in cambio di servizi gratuiti. Niente di innovativo, rispetto alle inchieste sulla condizione dei poveri inurbati che avevano caratterizzato la fine Ottocento nelle grandi città europee e nordamericane, nemmeno nei risultati: forte legame fra inclusione/esclusione sociale, qualità dell’occupazione, qualità dell’alloggio, prospettive di miglioramento e/o di spirale discendente, almeno per il nucleo familiare originario. Il vero elemento di novità ai fini di queste note, è il nome del ventitreenne assistente che coordina la ricerca sulle famiglie povere inurbate: Amintore Fanfani, che giustamente e orgogliosamente presenterà nel 1931, al Congresso internazionale di demografia a Roma, i risultati del suo lavoro. Ne emerge uno stretto rapporto fra qualità dell’abitazione, composizione familiare, circuito socio-economico-spaziale entro cui la famiglia è inserita. Niente di nuovo, se non fosse che a dieci anni di distanza l’ormai affermato Professor Fanfani, in un opuscolo cattolico militante dedicato ai Colloqui sui poveri (1942), torni sullo stesso argomento sostenendo, stavolta con un attento bilancio fra affermazioni di principio e argomentazioni tecnico-scientifiche, che è possibile ipotizzare vasti programmi di intervento sociale, focalizzati sul tema della famiglia, dell’occupazione, della casa.
Con la seconda guerra mondiale, nello stesso modo in cui nel 1914-15 il primo conflitto aveva interrotto l’implementazione del primo programma Luzzatti per l’edilizia popolare, si chiude un ciclo breve di riflessione e sperimentazione. Sono stati fissati, però, alcuni elementi base per le politiche che si sperimenteranno nel dopoguerra: la centralità dell’urbanistica; il ruolo strategico della ricerca innovativa in campo edilizio e sociale; la necessaria integrazione fra spesa pubblica e aspettative sociali diffuse, per innescare un circolo virtuoso di sviluppo e di creazione del consenso. Detto in altri termini e con diretto riferimento alla realtà bolognese, emerge (ovviamente) il diverso impatto sociale di realizzazioni come le case «popolarissime» dell’area di via Libia, o l’uniformità morfologica del quartiere fra Porta Lame, Porta San Felice, e lo scalo ferroviario, e invece la cura formale del «Villaggio della Rivoluzione» all’angolo fra le vie A.Costa e I.Bandiera. Non si tratta, solo, di forme diverse di intervento messe in campo da uno stesso soggetto (l’Istituto Case Popolari di Bologna), ma di un modo «perdente» di articolare gli investimenti. Negli anni del dopoguerra, emergerà secondo forme retoriche ma decisamente vincenti il superamento di una edilizia popolare che, nonostante gli sforzi, continua ad apparire anche ai beneficiari – per usare le parole di Carlo Levi – come architettura fatta con boria e disprezzo, per un popolo considerato inferiore … perché ci viva dentro tutte le sue povere ore, nel modo più scomodo e doloroso.
Nuova comunità
All’indomani della liberazione, a Milano il Convegno Nazionale per la ricostruzione edilizia mette al centro il problema della casa per i senzatetto, e in prospettiva una politica di ampio respiro per le città. Dal dibattito emerge un’impostazione «conservatrice», ovvero in linea con la cultura maggioritaria sulla casa popolare così come l’abbiamo descritta sinora: necessità di grandi investimenti pubblici, creazione di agenzie centralizzate e apparati tecnici, innovazione e industrializzazione del settore edilizio. In particolare, Piero Bottoni, che tanta parte avrà nella pianificazione urbanistica di Bologna negli anni Cinquanta, propone un Istituto Nazionale per la Casa, e forme di finanziamento simili a quelle applicate nelle imprese per l’assicurazione contro gli infortuni. Le case realizzate (da varie entità: Istituti Case Popolari, imprese private, cooperative) verranno cedute in affitto, restando di proprietà dell’Agenzia nazionale. Una posizione per ora minoritaria è sostenuta invece dall’economista cattolico Francesco Vito, maestro e collega accademico di Fanfani, che preferirebbe un intervento pubblico soprattutto stimolatore dell’impresa privata, anziché sostitutivo: la creazione di una grande agenzia per la casa, insieme alla temuta (dai proprietari) demanializzazione delle aree edificabili, deperirebbe ulteriormente – secondo Vito – un settore già messo in crisi dalla guerra, proprio nel momento in cui la ricostruzione delle città e delle abitazioni si pone con drammatica urgenza.
Ed è interessante, questa posizione di Francesco Vito, se si considera che più o meno contemporaneamente, durante i lavori della Costituente, si sta definendo anche nei dettagli quello che sarà, di lì a poco, il Piano Fanfani. Già dal 1947, come ricorderà anni dopo il suo ideatore, si inizia a far circolare l’idea di sommare interventi sull’occupazione a un approccio innovativo al tema della casa popolare. E, nelle settimane immediatamente successive alla schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana del 1948, inizia a costruirsi l’iter parlamentare dei Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia agevolando la costruzione di case per i lavoratori. In sintesi estrema l’idea di Fanfani è (parallelamente a quanto accennato dal suo amico Vito) è di attivare quante più possibili energie produttive, attorno a un settore chiave (l’edilizia) in grado di trascinare anche lo sviluppo di altri settori. In più, la realizzazione di case popolari sarà un formidabile elemento di visibilità del progetto, in grado di focalizzare l’attenzione del pubblico sull’attività del governo per la ricostruzione, di suscitare aspettative, e in definitiva di produrre consenso. Il finanziamento al Piano sarà garantito da un versamento di tutti i lavoratori (esclusi quelli agricoli) e datori di lavoro, e le abitazioni realizzate saranno sorteggiate, nel corso di pubbliche cerimonie da tenersi il giorno del Primo Maggio, e consegnate agli assegnatari e futuri proprietari il 2 giugno, festa della Repubblica. Dunque, in sintesi Fanfani propone di effettuare un prelievo forzoso sui salari di tutti i lavoratori, per realizzare case che saranno cedute in proprietà ad un piccolo numero di essi, scelti con il meccanismo dell’estrazione a sorte. Ce n’è a sufficienza per scatenare polemiche, politiche e non.
Polemiche che non mancheranno certo, sia nelle aule parlamentari che sulle pagine delle riviste più o meno specializzate, e che porteranno alla fine dell’inverno 1949 ad una legge modificata soprattutto in due punti: le case saranno cedute al 50% in proprietà e al 50% in affitto; il meccanismo dell’assegnazione sarà basato non più sulla «lotteria», ma su graduatorie che tengano conto della composizione familiare, dello stato dell’alloggio attuale, delle condizioni economiche generali. Molte delle critiche, così come molti dei commenti positivi sulla legge, sembrano però implicitamente coglierne il senso più profondo, di grande distanza rispetto ai due approcci cui sembra riferirsi, l’occupazione e la casa. Economisti e politici, anche quando documentano nei dettagli che Fanfani col suo Piano non potrà mai risolvere né il problema dell’occupazione, né tantomeno quello della casa, sembrano più o meno consapevoli di non cogliere, così, il vero senso del progetto.
Progetto che già nell’estate del 1949 può vantare un piccolo cantiere aperto, con un investimento di 36 milioni per 18 alloggi a Colleferro, in provincia di Roma. E’ l’inizio di un grande processo di visibilità, che inizia da subito a mostrare il lungo processo di riflessione da cui scaturisce, e soprattutto la capacità di suscitare sinergie particolari nel «sistema Italia», basato com’è su una struttura leggera, tesa a coinvolgere in un sistema a rete diffuso, anziché a creare grandi apparati centralizzati. Ai critici che accusano di voler creare l’ennesimo «carrozzone democristiano», l’INA-Casa risponde con una struttura semplice: un Comitato di Attuazione deliberante, e una Gestione esecutiva con un essenziale organismo tecnico di esame dei singoli progetti. Per il resto, il piano si articola di fatto localmente, attraverso le stazioni appaltanti (Comuni, Istituti case popolari, altri soggetti) che si occuperanno della pratica costruzione degli alloggi, e infine del tessuto diffuso delle imprese e dei professionisti. A ben vedere, quale metodo migliore di cooptazione, e nello stesso tempo di costruzione di una rete di consenso e visibilità? Non è certo un caso, se tra gli architetti – di tutte le parti politiche – il piano suscita immediatamente grandi aspettative, e non solo di carattere semplicemente economico.
Come già ampiamente accennato, Fanfani ha un’idea molto precisa della società italiana, così com’è, e come vorrebbe che fosse. Se le case sono l’immagine tangibile del suo progetto per l’Italia, allora queste case, questi nuovi quartieri, dovranno in tutti i modi rappresentare al meglio l’idea, declinarla regionalmente e localmente. Quale miglior mezzo, per fare questo, di un sistema di professionisti diffuso, e nello stesso tempo di poter attingere in modo coordinato alla migliore cultura nazionale e internazionale in materia? Da qui lo schema «vincente»: da un lato l’attivazione di un vero e proprio programma di ricerca e sperimentazione sulle tipologie edilizie, le tecniche costruttive, l’approccio urbanistico; dall’altro la raccomandazione base a tutti i progettisti, di dimenticare il tema della casa popolare così come era stato tradizionalmente affrontato. E’ questa, la grande innovazione e intuizione che scaturisce dai manuali predisposti dalla Gestione INA-Casa ad uso dei professionisti, il fatto cioè di «mascherare» il più possibile la natura pubblica e coordinata delle abitazioni e dei quartieri, ferme restando le necessità di economia (400.000 lire a vano) e una meditata innovazione nel taglio degli alloggi e nella composizione urbanistica. La crescita del Piano Fanfani coincide, a ben vedere, con il boom economico italiano del secondo dopoguerra, con l’industrializzazione e urbanizzazione secondo ritmi mai conosciuti prima. Le abitazioni e i villaggi «amichevoli» dell’INA-Casa, a mezza strada fra ambiente urbano e borgo contadino, non risolveranno certamente il problema degli alloggi, ma sono un’immagine eloquente di quella modernizzazione senza fratture cara a tanti politici, spesso auspicata e qualche volta anche realizzata.
Con il senno di poi, risulta perdente in partenza l’offensiva che, contro la politica economica della Democrazia Cristiana e contro Fanfani in particolare, mette in campo la CGIL, con il suo Piano del Lavoro. La linea di azione presentata da Giuseppe Di Vittorio alla conferenza nazionale del 1950, in materia di case popolari, ricalca a grandi linee quanto già proposto da Piero Bottoni nel 1945: una grande agenzia nazionale a finanziamento pubblico (attraverso tasse sulla grande proprietà), e un decentramento regionale per le realizzazioni. Di nuovo, esperi del calibro di Irenio Diotallevi e Franco Marescotti dimostrano, cifre alla mano, che questo è un approccio possibile, ma restano (comprensibilmente e legittimamente) nel campo dell’intervento sull’edilizia popolare che, come abbiamo detto, con l’INA-Casa ha poco da spartire. E non si tratta, solo, di una questione di maggioranze politiche: ad un piano costruito per generare soprattutto consenso, se ne contrappone uno economicamente ragionevole, ma di fatto privo di sostegno. Non è un caso, se il Piano del Lavoro sarà giudicato dagli storici soprattutto un’occasione di visibilità per la sinistra, e non una vera e propria piattaforma politica.
Del resto l’offensiva mediatica di Fanfani è inarrestabile, e va molto oltre i pur eloquenti paesaggi idilliaci dei suoi villaggi. L’ex ministro del Lavoro ha iniziato una folgorante carriera politica, abbandonando presto l’incarico per altri più prestigiosi, ma non per questo dimentica quella che considera, e considererà sempre, la «sua» creatura. Durante la quaresima dell’Anno Santo 1950, gli viene affidata una «meditazione» radiofonica sul tema Opere di misericordia corporale: Alloggiare i pellegrini. Siamo nel 1950, non esiste ancora la televisione, e possiamo dunque immaginare che molti dei possessori di apparecchi radiofonici, quella sera, siano sintonizzati sull’unico canale nazionale. Cosa significa, si chiede Fanfani, nell’epoca moderna alloggiare i pellegrini? E si risponde: costruire case per i lavoratori, in particolare case che mettano al centro l’uomo e la famiglia, come quelle realizzate nei villaggi INA-Casa. Si ricordino dunque, tutti i lavoratori che hanno contribuito con un piccolo prelievo forzato sul salario, e tutti gli architetti che hanno collaborato coi loro progetti: anche questa, nel mondo moderno, è opera di misericordia. Non è la promessa del paradiso, ma è certo qualcosa di molto simile.
La città del futuro
Oltre ai pulpiti privilegiati della politica, oltre a quelli – letterali – di parroci e prelati che inaugurano in pompa magna realizzazioni anche modeste dell’INA-Casa, il vero ruolo di amplificatore del massaggio fanfaniano è assunto più o meno consapevolmente dal mondo culturale dei progettisti. Già in epoca fascista, con i concorsi di piano regolatore, le città nuove della bonifica integrale, i quartieri modello (come quello della Rivoluzione a Bologna), si era iniziato a costruire un trait d’union fra architetti e creazione del consenso. Ora, anche se nelle forme più articolate di uno stato democratico e partecipativo, ai simboli e alle icone si iniziano a sostituire realizzazioni concrete, diffuse, e ampio coinvolgimento sia nel campo specifico della progettazione che in quello della ricerca innovativa. Al cantiere di costruzione, si aggiunge anche quello di formazione di una nuova leva professionale, in grado di sviluppare rapporti inediti con una «committenza» non più elitaria, ma di massa (anche se le «masse» sono i relativamente pochi assegnatari delle case INA), e di svolgere un ruolo di interfaccia fra cultura «alta» e bisogni diffusi. Per molti versi, è proprio nello studio di architettura che si incrociano le varie istanze di modernizzazione nazionale, e quelle più o meno regressive legate al mondo rurale, all’organizzazione della famiglia estesa, e al connesso uso degli spazi. Là dove la progettazione d’ufficio degli Istituti Case Popolari sembra continuare a produrre modelli di «razionalità» astratta, i metodi di lavoro dell’INA-Casa (nel loro privilegiare sempre e comunque la creazione di consenso) instaura un modello di interazione virtuoso: gli organismi attuativi centrali recepiscono e propongono modelli progettuali, via via declinati dai singoli tecnici secondo i contesti di applicazione; ad assegnazione avvenuta, una rilevazione campionaria verifica il grado di soddisfazione dei residenti rispetto alle singole soluzioni progettuali, e i dati elaborati e aggregati vengono comunicati all’Organo di Coordinamento tecnico.
Anche in questo, la ricerca di convergenze e consenso, anziché quella di applicazione rigida di un modello ottimale, si rivela vincente. I progettisti sanno di dover fare riferimento ai suggerimenti tecnici di massima proposti dall’organismo centrale, pena la non approvazione, ma sono anche ufficialmente ed esplicitamente stimolati ad inserire nelle proposte caratteri tipici locali e ambientali, sul versante dei materiali così come di organizzazione dell’alloggio e dell’insediamento. Gli inquilini e assegnatari, di fatto posti in una sicura e solida posizione di privilegio rispetto a chi non ha avuto diritto all’alloggio, non hanno remore nell’esporre ai ricercatori sociali quelle che considerano vere e proprie «rivendicazioni» sulla qualità residenziale dei nuovi quartieri. I valutatori finali di questo processo, attenti sia agli elementi di consenso diffusi che a quelli più elitari ma non meno importanti, sapranno quali elementi originali di progetto modificare in modo esplicito, quali in modo implicito, quali infine ritenere linee guida intangibili.
Per fare alcuni esempi pratici, la maggioranza degli abitanti dei quartieri INA-Casa ritiene negativo l’elemento di innovazione più consistente inserito in questi anni nella progettazione: l’alloggio su due piani, ripreso più o meno acriticamente dalla manualistica anglosassone, ma forse declinato dai progettisti secondo modalità (e vincoli economici) difficilmente accettabili da famiglie con radicate, diverse abitudini. Altro elemento, centrale per la società italiana di transizione dell’epoca del boom, è il ruolo della cucina all’interno della casa. Locale solo utilitario, destinato alla cottura dei cibi, oppure spazio polivalente in cui si sommano scopi pratici e di natura sociale simbolica, oppure ancora concetto da rimuovere, per sostituirlo con neologismi progettuali?
Le risposte degli inquilini e assegnatari alle varie domande sono, come previsto, estremamente conservatrici, ma contemporaneamente indicano ai coordinatori alcune linee d’azione. In sintesi, oltre ad alcune resistenze rispetto agli elementi innovativi (suggeriti spesso e soprattutto da esigenze di economia dello spazio) dei nuovi alloggi, emerge un dato generale: la maggioranza dei residenti INA-Casa sogna un alloggio il più possibile simile a quello borghese, direttamente conosciuto o semplicemente intravisto al cinema, o ancora immaginato. Questo significa in massima parte auspicata frammentazione degli spazi (come gli interventi di ristrutturazione degli appartamenti confermeranno nei decenni successivi) privati, e disorientamento nei confronti di quelli collettivi. E non è un caso se, nell’indagine coordinata da Salvatore Alberti allo scadere del primo settennio INA-Casa, gli spazi pubblici della piazza, del sagrato, del portico commerciale, non sembrano occupare alcuno spazio nella curiosità dei ricercatori. Il tema più strettamente «urbano», ovvero quello che in qualche modo caratterizza in senso progressista il piano Fanfani, è drasticamente e immotivatamente escluso dall’indagine questionaria. Pure, le riviste di architettura e urbanistica non fanno che ripetere da anni (le indagini sociali sulle preferenze degli inquilini iniziano nel 1955) che la vera novità del piano INA-Casa è l’approccio per quartieri. A Bologna, il Libro Bianco presentato dalla Democrazia Cristiana come programma alle elezioni comunali del 1956, punta molto, se non tutto, il proprio impatto immaginario su una costellazione di quartieri organici di periferia, dove la comunità locale sappia riconoscersi per quanto riguarda la vita quotidiana di relazione, senza per questo sentirsi esclusa dal grande organismo della città, i cui simboli anche visivi saranno da ora in poi da dividersi fra quelli della nuova monumentalità degli spazi qualificati di periferia, e quella storicamente radicata della città intra moenia. Questi quartieri organici, leggendo qui e là il programma che sostiene la candidatura a sindaco di Giuseppe Dossetti, potrebbero tranquillamente riassumersi nel modello dell’intervento INA-Casa, che tra l’altro è esplicitamente citato come esempio di costruzione della città a misura d’uomo.
Pure, le indagini sociali sulle reazioni degli assegnatari all’organizzazione degli spazi, non sembravano particolarmente attente al versante urbanistico della questione. Anzi, proprio il rapporto con la città (il rapporto strutturale ed esplicito con la città) sembrava l’elemento di cesura fra l’approccio da alloggio ai pellegrini del XX secolo, raccontato da Fanfani alla radio, e quello più meditato, che aveva coinvolto nel processo di progettazione e ricerca anche professionisti esplicitamente legati ai partiti di opposizione, e comunque portatori di una cultura della città apparentemente antipodale rispetto a quella emersa dall’indagine questionaria, focalizzata su elementi di dettaglio: cucina, vano scale, rapporto dell’alloggio con il piano campagna. L’elemento che emerge in questo 1956, anno delle elezioni comunali di Bologna ma anche dello scadere del primo settennio INA-Casa, è un altro, ed è di bilancio e prospettiva: il Piano ha iniziato a marciare con le proprie gambe, evolvendosi in direzioni che né l’ideatore, né gli oppositori, né gli altri attori coinvolti avevano pienamente valutato. Il rinnovo del Piano, e il dispiegarsi del secondo settennio fino al passaggio di competenze alla Gescal, darà il senso di questa trasformazione. Ci sarà, certo, la svolta in senso «fanfaniano» dei criteri di assegnazione, con una quota maggiore di alloggi in proprietà, ma ci saranno anche grandi elementi di innovazione, come la costruzione di un prodotto «chiavi in mano», dallo spazio alla sua percezione guidata e governata, attraverso i Centri sociali e l’animazione culturale effettuata da operatori professionisti. Ci sarà, ancora, il misurarsi dei modi di progetto, realizzazione e gestione INA con altri soggetti, nei quartieri CEP (Coordinamento Edilizia Popolare) come quello della Barca a Bologna, in una ansa del Reno. Nelle nuove, grandi unità dei CEP, oltre la dimensione fisica dell’insediamento, sarà la natura stessa di parte autonoma di città a mettere in discussione sia l’idea originaria del borgo comunitario, sia quella dossettiana di quartiere organico.
In definitiva, quindi, il ruolo degli spazi INA-Casa, con il loro individuarsi e distinguersi comunque dal resto del tessuto urbano, contemporaneo e successivo, può essere individuato soprattutto come un «laboratorio» di innovazione sociale, che segna il passaggio dell’Italia da società a prevalenza rurale a moderna nazione industriale. Non a caso, uno dei più benevoli ma attenti critici del Piano, Salvatore Alberti, sottolineerà sempre due elementi: il primo è la sproporzione fra bisogno di alloggi e concrete realizzazioni; il secondo, che però in buona parte riscatta e spiega il primo, è l’innalzarsi del livello qualitativo delle case, dei quartieri, delle aspettative sociali medie, e infine della professionalità di progettisti e altri operatori qualificati. Alberti, significativamente, indica come esempio di realizzazione non un caso di buon rapporto costo/qualità, o un modello di convivenza sociale, ma quanto di più «dimostrativo» si realizza in Italia con la partecipazione dell’INA-Casa: il QT8 di Milano, dove in una logica tutta sperimentale dall’immediato dopoguerra si costruisce un’esperienza unica e irripetibile di collaborazione fra soggetti diversi. Non è e non potrà mai essere un quartiere «tipo», ma solo un quartiere «modello», vetrina di soluzioni via via verificabili altrove, nei quartieri «veri» delle vere città italiane. Quale migliore metafora del ruolo dimostrativo assunto di fatto dal Piano Fanfani? Un ruolo dimostrativo verificabile ancor oggi, passeggiando in una giornata qualsiasi, alla periferia di Bologna o di altre città.
(articolo pubblicato da Metronomie n. 17, 2000)
Bibliografia generale
- Alberti S., «Il problema della casa in Italia sotto l’aspetto statistico ed economico», Moneta e credito 3, 1948
- Alberti S., «Considerazioni sul Piano Fanfani», Ulisse 8, aprile 1949
- Alberti S., «Fabbisogno e costruzioni di abitazioni in Italia», Rassegna di statistiche del lavoro, luglio-agosto 1952
- Alberti S. (a cura di), Caratteristiche e preferenze di un gruppo di famiglie assegnatarie di alloggi INA-Casa, Gestione INA-Casa, Ente gestione servizio sociale, Roma marzo1956
- Alberti S., «Il piano settennale per incrementare l’occupazione mediante la costruzione di case operaie», Economia e storia 3, 1960
- Allione M., « Processo capitalistico e utilizzazione del territorio in Italia», in F. Indovina (a cura di), Capitale e territorio, F. Angeli, Milano 1978
- Astengo G., «Nuovi quartieri in Italia», Urbanistica 7, 1951
- «L’attività del Piano INA-Casa», Quaderni di azione sociale, novembre-dicembre 1954
- «L’attività del Piano INA-Casa», Documenti di vita italiana, n. 38, gennaio 1955, pp. 3011-3014
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