Nei secoli cosiddetti bui (probabilmente un po’ bui lo erano sul serio) seguiti alla caduta dell’impero romano, inizia a brillare nelle tenebre mondiali una sottile rete di scambi, che prende il nome da un antico termine tedesco, Hanse, traducibile più o meno con raggruppamento. La Lega anseatica delle città, ovvero dei luoghi di scambio, inizia da un lato a specificare quello che poi diventerà il senso prevalente dell’urbanizzazione moderna, tanto diverso dal tradizionale caposaldo simbolico, religioso, militare, dall’altro ad allargare proprio nei gangli di quella rete extra-urbana il proprio potere e primato. Lasciando come ovvio e come altrettanto noto intatta, se non per quella esile rete dei collegamenti e di eventuali nodi intermedi, la dicotomia città-campagna intesa in senso classico, e anzi approfondendo il divario tra i luoghi dell’affrancamento borghese e del privilegio, e quelli dell’arretratezza e dell’asservimento. Di leghe neo-anseatiche si parla o straparla da qualche lustro, più o meno da quando si è andato definendo quel corpus teorico detto delle «città globali» e ben sintetizzato dal lavoro della sociologa Saskia Sassen (1994), che le colloca appunto dentro il processo di progressiva globalizzazione.
Globale, locale, sempre lì stiamo
Da molte parti si sostiene che in fondo il processo di globalizzazione è già perfettamente delineato da Marx e Engels quando nel Manifesto del Partito Comunista (1848) scrivono: «Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia». Allo stesso modo viene appunto evocata la Lega Anseatica delineando il ruolo contemporaneo delle città come luoghi di intersezione tra globale e locale, centri e nodi per il commercio, la finanza, le innovazioni. Nodi «collegati ma fisicamente sconnessi» per via delle tecnologie della comunicazione in tempo reale, e i cui territori intermedi sterminati finirebbero per assumere forme ruoli e valori analoghi a quelli in cui esisteva l’originaria rete commerciale medievale delle città. Pur riconoscendo le numerose analogie, sia nell’uno che nell’altro complementare caso, forse è il caso qui di porre l’accento su quanto di nuovo e inedito propongono gli scenari attuali, almeno da tre punti di vista concatenati: grazie appunto agli sviluppi scientifici e tecnologici, comunicazioni e relazioni oggi avvengono in tempo reale, a scala globale e tra i nodi globali; a differenza sia di ciò che avveniva all’epoca della lega anseatica originale, sia dello scenario capitalistico mondiale fotografato da Marx e Engels, siamo da decenni nel pieno e ancora indiscutibile dispiegarsi della massa critica (il termine è di Giuseppe Mazzini, mi pare) degli stati nazionali e del loro ruolo essenziale in ogni aspetto della vita; terzo ma per nulla ultimo, oggi urbanizzazione e globalizzazione sono un processo assolutamente di massa e per nulla elitario, anche a fronte dei noti processi di esclusione ed emarginazione.
No alle scorciatoie
Tutto ciò premesso, dovrebbe apparire evidente come chi, dopo la vittoria del referendum britannico per affrancarsi dal «peso della sovranità extranazionale» europea, prova a darne una lettura del tipo globale contro locale, urbano contro rurale, conservatore contro progressista, economico contro culturale, non coglie se non molto parzialmente il punto. O quantomeno non lo coglie in una prospettiva progressista e realistica, per esempio pensando ai tanti scenari di sviluppo che pure tante qualificate e accreditatissime fonti continuano a riversarci addosso, prima fra tutti l’idea di «urbanizzazione planetaria», con ciò che si porta appresso. Dentro questo scenario, ad esempio, non esiste più la figura tipica che è stata meccanicamente evocata, dell’abitante suburbano-rurale o veterourbano appartenente a una certa fascia di età e reddito, meccanicamente contrapposto al millennial di belle speranze un po’ fighetto e con titolo di studio superiore. Non esiste più neppure (e questo è stato pure notato, ma in modo vagamente distorto e strumentale) la classica dicotomia socio-territoriale città-campagna integrata dall’idea di sprawl o suburbio, così simile alla terra di nessuno che solcavano i mercanti di era anseatica transumando da una porta daziaria di borgo urbano all’altra. Per questo immaginarsi uno scenario futuro di cittadini contro campagnoli, perlomeno interpretato con concetti vetero come quelli emersi analizzando qualche frammento o brandello dei dati elettorali Brexit, è per così dire parecchio «antiurbano». Ripensiamoci, alla svelta ma senza frenesia concettuale.
Riferimenti:
Dave Hill, In or out of the EU, London and other British cities need more control, The Guardian, 23 giugno 2016