Efficienza economica e profitto speculativo
Il problema principale è di mettere a disposizione la maggior quantità di nuove abitazioni ad affitti accessibili, col minimo di spesa pubblica complessiva. La questione non ha nulla da spartire col solito «rilancio del settore edilizio» come si è fatto tante volte in passato. Al contrario, visto che è proprio l’agire in quel modo che ha provocato l’attuale situazione delle città, l’esistenza di un «problema della casa» di enormi dimensioni, dobbiamo considerarli superati, quei metodi, e iniziare a usarne invece degli altri. I nuovi alloggi, per conservare la propria qualità del tempo, devono essere sottratti alla speculazione e al mercato. I nuovi criteri e metodi devono essere fissati non secondo una logica di emergenza, ma secondo efficienza e praticità in modo da prendere del tutto il posto degli antichi, anche là dove non esiste alcun sostegno pubblico. In altri termini occorre arrivare a fissare una nuova qualità della domanda. Deve diventare normale costruire ottime nuove abitazioni che siano, immediatamente come nel lungo periodo, assai più economiche delle pessime e costose di prima.
Fissato questo obiettivo, e sulla scorta delle sperimentazioni di prima della guerra, esiste una sola risposta adeguata: è la dimensione del quartiere, e non della casa o edificio ad appartamenti, ad essere l’unità minima di intervento, dal punto di vista del progetto, della realizzazione, dei finanziamenti e della gestione. Anche senza tener conto di alcuna considerazione sociale, bastano quelle economiche a sostenere una decisione del genere. Esistono cinque grandi ambiti in cui si articola la produzione edilizia abitativa, e ciascuno di essi trae vantaggi dall’operare a scala di quartiere.
Il costo dei terreni se sostenuto da adeguate politiche cittadine di acquisizione, espropri, o altre forme di controllo, ovviamente si abbassa quando non si deve procedere per acquisti parcellizzati, vendite e speculativi riacquisti di singoli lotti. Inoltre operando sistematicamente per parti di città diventa possibile prevenire future speculazioni sui terreni, e ridurre i prezzi di mercato delle superfici gonfiati dagli speculatori in passato.
Grazie alla scala di intervento si fanno diminuire anche i costi di urbanizzazione. Strade e reti concepite per scopi ben precisi e definiti, correlate all’insieme, significano eliminare gli sprechi incredibili sinora subiti dalle amministrazioni cittadine. E le economie dell’agire su vasta scala significheranno affitti più bassi, non andranno certo a vantaggio della speculazione.
Altro fattore di economia è il costo di costruzione. Qui è possibile razionalizzare, produrre in serie le componenti, agire in modo efficiente, cosa impossibile alla piccola dimensione dell’impresa privata. Si possono anche fare esperimenti strutturali, verifiche sui materiali e i metodi, vere e proprie rivoluzioni di settore. E arriviamo qui al costo del denaro, che probabilmente è la parte più essenziale nella produzione edilizia, in particolare nell’Europa del dopoguerra. Il denaro costa, e comunque gran parte delle risorse devono provenire dalle casse pubbliche. Ergo qualunque metodo per tener bassi interessi e ammortamenti significa enormi economie. Il modo migliore per abbassare il costo del denaro sono sicuri investimenti sul lungo periodo, e questo per le abitazioni vuol dire mantenere il proprio valore e qualità nel tempo. Non devono degradarsi, né loro né il contesto in cui si trovano, devono stare oggi e domani in una situazione che ne prevenga l’obsolescenza. E l’unità di quartiere coordinata e a proprietà unificata, pensata per una gestione continuativa, è l’unica soluzione.
E oltre ai motivi finanziari, la pubblica amministrazione ha un’altra ragione per sostenere una vita lunga del prodotto quartiere. I sussidi, che si debbano a prezzi da dopoguerra che subiscono l’inflazione o a bassi salari a cui devono corrispondere bassi affitti, si possono poi rateizzare annualmente e diluire. Infine, esistono i costi di mantenimento e gestione che grazie all’uso di componenti standardizzate e a servizi centralizzati si riducono considerevolmente. Per il caso europeo, basti dire che usando criteri del genere si ha un affitto «economico» che anche al netto da ogni altro vantaggio fra quelli citati riesce ad essere la metà di quanto accadrebbe in America.
Tutto ciò premesso, va detto però che tutto il senso autentico della casa economica non sta certo nei risparmi, ma nella qualità elevata del prodotto. Forse anche se costasse il doppio, varrebbe prima o poi la pena di farle in quel modo. Se accettiamo l’unità di quartiere come sistema di sviluppo, ci sono una serie di idee vecchie che perdono di senso. Quelle vie urbane standard senza un inizio né una fine, che si progettano negli uffici tecnici municipali, non troverebbero spazio dentro un piano organico che fissa forme e margini definiti. Insieme alla via scompare anche il classico isolato standard con arretramenti prefissati, cose che servono solo agli operatori e non certo agli abitanti.
Questi spazi non sono più una merce che si vende sulla base di una mappa, sono un luogo fisico, con proprie caratteristiche, che deve essere accuratamente progettato per le infinite funzioni che deve svolgere. Si cambia, in sostanza, da una meccanica standardizzazione mercificata a un orientamento al valore d’uso. Solo in questo modo i vantaggi tecnici della standardizzazione possono essere effettivamente goduti. Invece di lotti e strade tutti uguali, che si traducono in sprechi di superfici verdi e asfaltature, possiamo avere una qualità urbana che riduce i costi delle vie al minimo. Invece di case isolate la cui forma tipo è definita da criteri obsoleti, e che risultano al tempo stesso costose monotone e brutte, possiamo standardizzare le singole componenti, che si possono ricomporre armoniosamente e variamente a seconda del bisogno. Col primo metodo non si innova nulla, col secondo si mettono quantomeno le premesse di nuove forme.
Termini quali «unità» oppure «standard» oppure «produzione su larga scala» possono, capisco, stridere un po’ all’orecchio dell’americano medio se si applicano alla casa. Domina ancora l’idea tradizionale secondo la quale chi lavora e risparmia può comprarsi un pezzo di terra a farci la sua casa, progettata così come preferisce. Ma che sia poi una bella cosa oppure no, si tratta di un miraggio che appartiene al mondo dell’immaginazione. Chiunque ci abbia pensato anche solo per un istante, forse non si è mai guardato attorno in una città americana. Delle diciassette studiate di recente, l’edilizia risulta prodotta tra l’80% e il 90% in forme seriali, di solito da costruttori grandi o piccoli che non si avvalgono della collaborazione di alcun architetto o urbanista.
Quindi ne abbiamo in abbondanza, di «standardizzazione», solo che produce forme brutte, sprechi, bassa qualità. E per tornare a quel resto del 10% o 20% che dovrebbe costruirsi la casa secondo i propri desideri? Anche in quel caso paiono realizzate secondo criteri «standard», sempre un lotto fabbricabile e una casetta, assai più costosi di quel che valgono. Una casa e un giardino non fanno un ambiente residenziale, una casa unifamiliare in città o in suburbio che sia non può avere alcuna esistenza indipendente. Una casa in sé può anche andar bene, ma tre del medesimo tipo, organizzate senza alcun rapporto l’una con l’altra su tre piccoli lotti contigui, compongono già una specie di slum.
Dal punto di vista materiale stretto, un’abitazione moderna costituire un nodo in una rete di servizi. Dal punto di vista estetico, dipende da ciò che le sta accanto. Dal punto di vista sociale, non si può dire riuscita senza uno stretto rapporto con scuole, negozi, luoghi di ritrovo, campi da gioco, linee di trasporto, posti di lavoro. Ma se ciò accade in qualcuna delle nostre città, è solo per felice caso, e comunque non esiste alcuna correlazione integrata e profonda migliore di quelle che si riesce ad ottenere con un progetto unitario sin dal principio.
Cos’è una unità urbana
Che dimensioni deve avere un complesso residenziale? Quali funzioni deve svolgere? Queste dimensioni devono essere calcolate in base alla superficie, al numero degli abitanti, o a qualche altro criterio? Soprattutto: dove dovrebbe essere localizzato? Probabilmente esistono tante risposte a queste domande, quante sono le possibilità di realizzazione. I nuovi quartieri in Europa variano da cento famiglia o meno, sino a Becontree nella zona di Londra, oltre centomila abitanti. Plessis-Robinson, realizzato dall’Ufficio per la Casa del Dipartimento della Senna nell’area di Parigi, ha una popolazione prevista di venticinquemila persone, e molti complessi in Austria e Germania ospitano cinquemila e più abitanti. Di sicuro non esiste una formula derivabile da questi casi.
L’ideale è certamente la città regionale autosufficiente, dotata anche di industrie, fascia agricola, e tutti i servizi sociali. È un modo per sviluppare sino a una conclusione coerente le premesse di una casa e di una città moderna. Costruire un centro completamente nuovo, di dimensioni prefissate, localizzato scientificamente in relazione alle risorse naturali, alle necessità di produzione e distribuzione, è l’unico modo in cui i criteri funzionali della piccola scala nell’abitazione moderna si possono allargare a costituire un ambiente umano. L’unico modo per cancellare definitivamente tutti gli sprechi e le confusioni che ci portiamo dal XIX secolo.
Ma per farlo, pare impossibile agire entro un sistema economico basato sul profitto e la proprietà privata, anch’esso eredità del XIX secolo. Anche più impossibile pare farlo in uno stato fascista, che è in sostanza una semplice cristallizzazione forzosa del primo. Ma il fondamentale problema della effettiva pianificazione statale non rientra purtroppo tra i temi che questo libro può affrontare con qualche risultato, occupandosi delle realizzazioni di case in una decina di stati capitalisti. Non sorprende quindi che quell’ideale della città regionale autosufficiente pianificata non abbia visto realizzazioni sinora, tranne l’esempio degli esperimenti privati a Letchworth e Welwyn, o in alcuni progetti russi che costituiscono un ottimo materiale critico.
Alcuni passi preliminari importanti nella pianificazione regionale delle risorse sono stati compiuti nell’area tedesca occidentale della Ruhr, ma si trattava principalmente di obiettivi di crescita industriale, ed è comunque poco probabile che vengano sviluppati dall’attuale regime. In Inghilterra gli studi regionali stanno raccogliendo una gran quantità di conoscenze scientifiche che si riveleranno di immenso valore, se e quando diventerà possibile una pianificazione economico-territoriale. Per quanto riguarda la distribuzione delle gigantesche linee di energia elettrica – dorsali della programmazione neotecnica – diversi paesi, specie Norvegia, Svizzera, e oggi ancora Inghilterra, hanno dimostrato grande preveggenza. Ma in nessun paese con l’eccezione della Russia si può però affermare che la realizzazione di complessi residenziali sia stata influenzata da tali grandi tendenze emergenti.
Esistono graduali passaggi, dalla spontanea disordinata metropoli del XIX secolo, anche nella sua successiva versione dell’immenso suburbio dormitorio, e la città regionale autosufficiente, programmata a partire da un nucleo in relazione alle risorse continentali. E anche in quel caso non si tratta di entità unica, ma composta da formazioni urbane integrate. Nella tecnica di progettazione realizzazione e gestione delle componenti di base più semplici, di cui l’unità di quartiere rappresenta probabilmente il termine più adeguato, i complessi residenziali di Germania e Inghilterra, insieme ad altri paesi occidentali, hanno compiuto significativi progressi.
Come ho già detto, in pochissimi casi sono state davvero integrate attività economiche – eccetto in Germania coi villaggi agricoli, «autosufficienti» nel senso ristretto della essenziale vita contadina – e comunque le abitazioni vengono quasi sempre realizzate in relazione ad attività economiche e posti di lavoro: uno dei migliori esempi è quello di Berlino vicino alla fabbrica Siemens. In gran parte delle città tedesche, con la loro efficacissima localizzazione urbanistica industriale, si è riusciti a introdurre nuovi complessi residenziali in modo tale da consentire alla stragrande maggioranza degli abitanti di evitare lunghi spostamenti quotidiani da e per altre zone della città, solo per andare da casa al lavoro e ritorno.
Ma esistono dei principi generali con cui determinare dimensioni e forme di un quartiere residenziale? Non si tratta comunque certo di regole precise, sia dal punto di vista economico che sociale. I vantaggi della realizzazione su larga scala non crescono indefinitamente e geometricamente con le dimensioni. Molti dei complessi più grandi sono stati suddivisi in parti, schiere di appartamenti, gruppi di abitazioni singole. Lo stesso con altre varianti sociali o di aspetto esteriore. Uno dei più interessanti quartieri moderni che ho visitato è quello di Neubül a Zurigo, di soli duecento alloggi. Ma d’altro canto anche Römerstadt a Francoforte o Dammerstock a Karlsruhe paiono ottimamente riusciti, pur con migliaia di alloggi sia singoli che in complessi di appartamenti. Watergraafsmeer fuori Amsterdam ha circa le stesse dimensioni (pur notevoli in proporzione ad altri quartieri olandesi) mentre i suburbi di Berlino o alcuni complessi di Vienna vengono progettati in quanto unità di vicinato, circa duemila alloggi.
Si possono comunque affermare alcuni criteri generali desunti dalle esperienze europee. Non si può progettare e gestire adeguatamente un complesso residenziale dal punto di vista sociale, se non comprende almeno una scuola elementare, i negozi per le esigenze quotidiane, gli spazi aperti per il tempo libero rivolti a tutte le età, anche se non deve necessariamente trattarsi di formali campi gioco. Credo vadano anche comprese cose come un caffè o altri luoghi di incontro. In un quartiere così di norma esistono ambienti da gioco per i più piccoli, e in Europa in media è disponibile una lavanderia centralizzata, specie quando si tratta di complessi soprattutto ad appartamenti. Anche i giardini privati, vuoi legati al singolo alloggio, vuoi raggruppati per le organizzazioni in linea, dovrebbero essere tenuti in conto nella pianta di un quartiere.
Quindi alloggi, verde, scuole e asili, spazi aperti accessibili, lavanderia, caffè: componenti minime dell’unità di vicinato. Ma ce ne sono molte altre, spesso utilizzate. In parecchi casi in Germania esistono centrali termiche a fornire acqua calda a tutti gli abitanti, in cambio di una bolletta mensile. Di norma in tutti i quartieri di una certa dimensione sono disponibili i cicli scolastici completi dell’obbligo. Le realizzazioni delle cooperative offrono quantomeno un edificio centrale per le attività sociali. Là dove non esistono bagni negli alloggi, o nei seminterrati dei singoli edifici, si devono realizzare strutture centralizzate per il bagno. Le dimensioni delle famiglie mediamente diminuiscono, la loro autosufficienza organizzativa, e c’è il problema dei lavoratori single, per cui anche il servizio di un ristorante diventa importante. Si devono valutare le attività sportive organizzate, e i relativi campi. In alcuni quartieri olandesi esistono delle cucine cooperative.
In un semplice elenco dei servizi realizzati dai complessi residenziali di Vienna si evidenzia quanto risolvere il problema della casa non significhi affatto solo costruire case. Certo non ci vuole tutto dappertutto, ma sicuramente molte categorie: bagni, lavanderie, asili, scuole, biblioteche, centri per i giovani, cinema, nidi, consultori, ambulatori generali o specialistici, piscine, assistenza sociale, palestre, uffici postali, campi da gioco, orti di quartiere. Plessis-Robinson, nella zona di Parigi, venticinquemila abitanti, è un complesso urbano integrato salvo per i posti di lavoro. Comprende una sede municipale, centro sociale, teatro all’aperto, mercato pubblico, chiesa, ampi complessi sportivi, sala concerti. Riscaldamento e acqua calda centralizzati.
Non si aggiungerebbe molto a queste considerazioni, credo, costruendo una matrice di tutti i possibili servizi di quartiere in rapporto alle quantità di popolazione da servire. Ci sono enormi varianti da un caso all’altro, impossibili da standardizzare su base puramente statistica. Quando una società è capitalista, nazionalista, comunista, esistono enormi differenze nelle necessità e domanda di servizi e strutture, e da città a città, da regione a regione. L’unica base solida per programmare questi aspetti è la conoscenza degli abitanti che ci andranno a stare. Pare comunque essenziale decidere sin dall’inizio in fase di progetto tutto ciò di cui ci sarà bisogno. Lasciar spazio per ciò che magari non si costruisce subito. Un approccio che significa al tempo stesso nuove responsabilità e nuove occasioni per gli architetti.
Per la prima volta si possono utilizzare tanti diversi elementi in contemporanea, raggruppati e bilanciati in masse e ritmi a definire forme per specifiche funzioni. Le componenti standardizzate, invece di creare piatta uniformità, si trasformano in forza propulsiva a creare un tutto armonico. Le decorazioni aggiunte prive di senso, un tempo utilizzate per celare allo sguardo e interrompere l’insopportabile uniformità, non solo non sono più necessarie, ma appaiono ridicole. Ottimi materiali, linee semplici, forme geometriche, quando combinati in un buon progetto e spazi aperti a verde, sono tutto quanto serve per un’architettura autenticamente moderna.
Ma torniamo ancora al problema delle dimensioni. Dal punto di vista sociale il fattore determinante pare quello della scuola. Insieme al suo spazio dedicato al tempo ibero, dovrebbe trattarsi del punto focale di un progetto di quartiere. Se poi si tratti di un asilo con nido, come succede nei quartieri in Svizzera, o di un ciclo completo come in Germania, Olanda, Inghilterra, è problema da affrontare caso per caso. Dal punto di vista fisico, ci sono vari elementi che tendono a definire le dimensioni. Un quartiere deve essere grande a sufficienza da costituire un ambiente di vicinato, e non lo intendo in senso sentimentale. Far sì che gradevolezza e abitabilità non possano subire influenze esterne casuali, come quelle di un degrado prossimo. Questo pare essenziale. E non troppo grande, perché i servizi siano egualmente a portata di mano di tutti gli abitanti. Ciò significa che quando l’insediamento cresce di dimensioni, aumenta proporzionalmente il numero delle unità di vicinato, autosufficienti per le proprie necessità. Lo si è sperimentato a Becontree, al Britz di Berlino, e in tutti gli altri casi di grosse dimensioni. Fisserei una soglia minima attorno ai duecento alloggi, e una massima a mille, che corrispondono rispettivamente a ottocento o cinquemila persone.
Per quanto riguarda le attrezzature, e il progetto che le inserisce come elementi essenziali della forma, si ribalta la graduatoria dei vari contesti nazionali per quanto riguarda il rapporto netto con lo spazio privato dell’alloggio. La gamma più completa di servizi la troviamo nei complessi viennesi, là dove gli alloggi sono i più piccoli e semplici. Mentre in Inghilterra, dove le nuove case comprendono cinque o sei stanze, bagno, ampio giardino privato, non ci sono servizi comuni o quasi, salvo una scuola, uno spazio verde centrale, un paio di negozi. La Germania sta più o meno nel mezzo dei due estremi, da ogni punto di vista. Ma la qualità architettonica dei servizi centrali nelle Siedlungen è massima. Alcune delle scuole sono eccellenti esempi di architettura moderna, all’esterno come all’interno, esteticamente e funzionalmente. E spesso si coglie una straordinaria innovazione anche nella semplice disposizione di negozi e caffè.
L’obiettivo di mantenere, per tutta la comunità, l’incremento di valore degli spazi commerciali determinato dal quartiere stesso, si realizza col semplice prevedere sin dall’inizio questi spazi e mantenerli in una unica proprietà immobiliare. In Scandinavia, Austria, Germania, poi, il negozio che risponde alle necessità quotidiane è anche una cooperativa di consumo. Nella città giardino di Letchworth il concedere gli spazi commerciali in affitto di lungo periodo ha privato la comunità di questo incremento di valore degli immobili. Mentre Welwyn ha fatto tesoro dell’esperienza ed è partita da subito con un grosso edificio cooperativo in cui i singoli spazi vengono concessi a scadenze brevi. Tempi più lunghi si rinviano eventualmente a quando sarà raggiunto il massimo di popolazione.
Da: Modern Housing, Houghton Mifflin Company, Boston-New York, 1934 – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini