Chi crede che si possano risolvere i problemi delle nostre città da qui a venti o venticinque anni grazie allo urban renewal evidentemente sta sognando, altrimenti si sarebbe accorto dell’inevitabile impatto della crescita di popolazione accompagnata all’esplosione metropolitana. Nessuno sa con esattezza quanti nuovi americani ci saranno tra un ventennio, e neppure come abiteranno, ma proviamo a immaginarlo ragionevolmente: fra il 1955 e il 1975 la popolazione USA crescerà probabilmente del 35%, 56 milioni in più. Guardando al 1976 che sarà il duecentesimo anniversario della nostra Dichiarazione di Indipendenza possiamo vedere:
- 55 milioni di persone che vivono dentro le cosiddette «aree metropolitane standard» con un incremento di oltre la metà. Nell’Ovest moltissime aree metropolitane probabilmente raddoppieranno di dimensione. In altre zone del paese la spinta al decentramento arriverà comunque ben oltre i confini attuali (e da un punto di vista statistico-spaziale ci limitiamo a proiettare le tendenze dell’annata 1955-56, se adottassimo le diverse proiezioni sul lungo termine avremmo previsioni assai più fantastiche).
- 9 di questi 55 milioni di persone potrebbero anche cercare di concentrarsi nelle grandi città centrali, che già oggi hanno poca superficie disponibile da offrire, ma molti potrebbero essere indotti ad andarsene altro, a meno di 1) enormi annessioni di nuovi territori alle circoscrizioni amministrative, assai improbabili se non quasi impossibili; 2) si verifichi una piuttosto radicale ricostruzione residenziale a densità assai più elevate di ciò che oggi avviene nelle zone di rinnovo e riqualificazione.
- La soverchiante maggioranza dei nuovi americani – almeno 46 milioni di persone ma probabilmente di più – si sposterà dalla città centrale verso fasce più esterne. Ne deriva: una popolazione suburbana raddoppiata e in alcune aree di crescita particolarmente forte anche quadruplicata o più. La fascia rurale, quell’enorme spugna che ha assorbito negli ultimi cinque anni oltre la metà dello sviluppo suburbano, verrà interessata da una dispersione senza precedenti.
Cifre che suggeriscono prospettive inquietanti. Ma ancor peggio sottolineano l’enorme lacuna programmatoria della cultura di piano americana di oggi. Di fronte ad una continua espansione e dispersione – un panorama di città dove oggi ci sono solo boschi campi vigneti – la cultura urbanistica pare capace solo di guardare al passato. In un’America tutta rivolta al principio della crescita e dell’espansione la nostra urbanistica pare orientata a ricucire strappi passati anziché riflettere sul futuro. Si spendono miliardi e si attribuiscono poteri speciali per la riqualificazione: demolizione dello slum e nuovi alloggi per i suoi abitanti; ricostruzione delle aree degradate; riorganizzazione delle arterie di traffico congestionate; riprogettazione e sostituzione delle strutture esistenti; realizzazione di parchi, verde attrezzato, a costi spropositati nelle zone già urbanizzate.
Ma la sfida del domani – la conformazione delle aree metropolitane in cui dovranno trovare spazio i nuovi 46 milioni di americani fuori dalle città centrali – nessuno in generale pare volerla affrontare. Gran parte dei nuovi insediamenti prendono forma al di fuori delle circoscrizioni in grado di esercitare un governo responsabile attraverso uffici tecnici adeguati. Questa crescita degli hinterland semplicemente avviene, determinato dal caso, dalle decisioni di singoli costruttori, o dai particolari criteri di investimento finanziario privato o della Federal Housing Administration. A dire il vero poi le comunità suburbane, quando arrivano a costituire una circoscrizione amministrativa, ci provano a controllare i propri destini futuri. Ma ciò si traduce spessissimo semplicemente nel tentativo di tener fuori persone «indesiderabili» o attività poco gradite, indipendentemente dal contesto più ampio territoriale e possibilità.
I deboli governi delle circoscrizioni di contea, pensati a suo tempo per erogare servizi minimi a regioni rurali, non riescono ad esercitare una efficace gestione dell’insediamento di tipo urbano. Alcune contee metropolitane si sono rafforzate da questo punto di vista iniziando a praticare l’urbanistica. Ma anche in questi casi le politiche di zoning o di altro tipo iniziano troppo tardi quando ormai la pressione al trasformarsi diventa insostenibile. Il crescere della questione metropolitana richiede una prospettiva di area vasta, però anche qui pare si badi più a correggere gli errori del passati che a pensare ai problemi del futuro. In alcune aree – come Cleveland, Atlanta, Detroit – esistono uffici di pianificazione regionale che iniziano pionieristicamente a muoversi. Ma in tutti gli USA non esiste alcun modello di governo metropolitano (come c’è a Toronto) in grado di gestire un processo di pianificazione regionale, per quanto minuziosamente predisposto. E dunque si continuano a ripetere gli errori del passato, a crescere su dimensioni sempre maggiori provocando problemi sempre più insolubili, certo garantendo una parallela crescita dei posti di lavoro per urbanisti specializzati in riqualificazione, ma senza particolari progressi innovativi.
Il grande errore
Una sorta di dipendenza dal fare e rifare – la potremmo definire – questa dell’urbanistica che risale a mio parere agli anni ’30, quando nasce l’attuale fase di interesse per l’abitazione e la città, e iniziano a prendere piede le prime politiche pubbliche. È in quel momento che la demografia fa il suo grande errore: osservando ciò che si dimostrerà poi un temporaneo calo del tasso di natalità si inizia a diffondere la buona novella di una futura «stabilità di popolazione». Le città dovrebbero crescere solo un poco, se non quasi nulla, e tutto quel volgare sviluppismo degli anni ’20 con le sue infinite curve verso un futuro di crescita continua pare terminato. Diventa un corollario l’idea della «economia matura», immediatamente adottata dal riformismo urbano: da quel momento in poi si tratterà semplicemente di sostituire, migliorare, rendere più efficiente e umanizzare ciò che era già stato realizzato prima. Riforma, anziché nuova forma, è la parola d’ordine.
Il boom di nascite del tempo di guerra ci prende alla sprovvista.ma sul momento pensiamo che sarà temporaneo. Oggi sappiamo che non è stato così ma ancora non si è imparato a pensare audacemente in termini di crescita futura, sui problemi e opportunità che si aprono. Eccoci ancora a pensare sempre alle vecchie aree centrali, con tutto il nostro armamentario per la riqualificazione, mentre tutta l’enorme ondata delle trasformazioni territoriali si allontana dalla nostra isoletta. Un’onda che si alza e si alza ancora, e nonostante il fatto che i demografi possano ancora una volta sbagliarsi sulle proiezioni future, pare certamente meno probabile, non esistono segnali di inversione della tendenza attuale.
Davanti a questi fantastici volumi della crescita metropolitana sarebbe semplicemente prudente e pratico considerare le possibili alternative di struttura del territorio e distribuzione della popolazione. Su dimensioni del genere, nella prospettiva di ulteriori sviluppi e articolazioni della nostra società costantemente in evoluzione, nemmeno i concetti più estremi paiono impraticabili. Di più: sperimentare e verificare ipotesi estreme pare l’unica soluzione pratica e scientificamente fondata. Per una seria analisi comparativa dei vari modelli urbani sarebbe necessaria una approfondita ricerca e precisa determinazione dei fattori in gioco. Qui possiamo soltanto indicare e commentare una linea di riflessione, senza i cui spunti non pare esistano criteri di giudizio. Se poi qualcuno ci trova stimolo a trovarne di migliori meglio ancora (ne stiamo sviluppando già alla University of California e qualunque argomentazione o idea è benvenuta).
Esiste una lunga sequenza di variegate proposte per la città ideale, e almeno quattro paiono oggi particolarmente significative: l’idea «decentratrice» originale della Città Giardino di piccoli insediamenti autosufficienti organizzati su scala regionale, così come riconcettualizzati da Lewis Mumford, Clarence Stein, ed esemplificati da Alfred E. Smith della New York State Planning Commission nel 1926; la Broadacre City di Frank Lloyd Wright che poi anche Buckminster Fullere rielabora in versioni più meccanizzate spaziali, e di cui la Los Angeles di oggi è riflesso primitivo spontaneo; la Ville Radieuse di le Corbusier, utopia tecnocratica di grattacieli che ritroviamo anche in parecchi lavori di Walter Gropius, Mies van der Rohe o di tanti costruttori di città (specie con Robert Moses per quanto forzato possa sembrare l’accostamento); l’adattamento britannico del concetto di Città Giardino con le New Town organizzate a satellite attorno a un antico cuore metropolitano. Quanto e come si possono adattare alle tendenze e bisogni e aspirazioni attuali questi concetti?
La Città Giardino
Sarebbe concepibile oggi seguire una linea di decentramento simile a quella originaria della città giardino? Si riuscirebbe cioè ad orientare così l’immensa ondata metropolitana dentro una rete di piccoli centri indipendenti dal nucleo urbano attuale? Nonostante tutte le argomentazioni sociali o civili, del tutto rispettabili, dubito che sia possibile. E le ragioni vanno oltre la fattibilità politica o gli interessi in campo o qualche indubbia attrazione nostalgica. Nel nostro mondo complesso, con l’intreccio di necessità di contatti e specializzazione interdipendente, pare esistere una solida base economica e culturale perché grandi quantità di persone impegnate in varie attività si riuniscano in centri o gruppi correlati di centri. Ed è sicuro che la dimensione ragionevole di queste entità sarebbe assai maggiore di quanto si riteneva un tempo. Anche se non si può certo espandere all’infinito, e neppure sino alle dimensioni di uno Stato come la California. Piaccia o meno, resta il fatto che le agglomerazioni metropolitane siano in qualche forma e misura non solo giustificate, ma attivamente desiderate.
Esistono ovviamente molte forme diverse di organizzazione urbana possibili, almeno in teoria. E nessuna rigidamente preferibile ad un’altra economicamente parlando. Potrà sembrare eresia agli occhi di un economista, ma come altro potremmo spiegare il contrasto tra New York e Los Angeles? Alle estremità opposte per quanto riguarda densità e centralizzazione, le due aree evidenziano la più prospera crescita economica degli USA: nonostante il sovraffollamento dell’una e la dispersione dell’altra (per non parlare dello smog). Questo fatto – che esista una varietà tanto ampia di modelli economici di città – potrebbe essere una delle ragioni per il nostro insolvibile problema di organizzazione urbana moderna. La determinazione economica pare sempre tanto più semplice di una responsabile decisione pubblica.
Anti-Città
L’ideale di Frank Lloyd Wright è una specie di agropoli: mezzo ettaro per ciascuna famiglia; fabbriche, uffici, servizi, negozi, sparsi per le campagne; collegati solo con l’automobile. Bucky Fuller, con le sue case volanti e ambienti mobili, va addirittura oltre sulla medesima linea immaginando una non-città nomade che si stacca del tutto dai valori urbani e comunitari, al punto da non essere neppure visualizzabile (non credo neppure ci abbia mai provato a ragionare su dimensioni regionali). Ma anche chi le città le odia e si schiera per tutt’altri valori, e quindi quelli per la terra del Profeta Wright o per la conquista dello spazio aereo del Profeta Fuller, in verità nel nostro mondo democratico e progressista deve comunque provare ad avvicinarsi alla sua Utopia per gradi.
Gran parte di quello spazio non viene trasformato dai Wright o dai Fuller idealisti, ma da normalissimi costruttori, investitori, geometri, architetti, che operano secondo tutte le norme e burocrazie esistenti. Le nuove idee sono importantissime, perché tutto cambia e ne viene costantemente influenzato. Ma prima o poi qualunque teoria deve essere sperimentata sul campo delle pratiche quotidiane. In questo senso l’immagine attuale della dispersione rurbana in California meridionale o se è per questo anche in tante aree esterne di ogni parte del paese assomiglia parecchio all’anti-città, o non-città, e ci aiuta in qualche modo a valutarne la validità concettuale. Se guardiamo a quei tangibili lotti da venti metri sino a che punto è un passo avanti verso la comunità ideale, o si tratta semplicemente di una infinita rur-urbanizzazione senza qualità? E pensarla pure con quel criterio mezzo ettaro per famiglia di Broadacre la rende forse più rurale?
Se i milioni di abitanti che verranno a sud di Tehachapi Mountain (60 km circa a nord di Los Angeles) si sparpaglieranno ancora di più di quanto accaduto sinora, finirà che tutti passeranno il proprio tempo in auto per andare in qualunque posto, senza poter lavorare, istruirsi, neanche badare al proprio prezioso grande lotto. Tutti i problemi che già gravano per servire quelle aree decuplicheranno, e la campagna, a cui idealmente avevamo sacrificato tutto il resto, si sarà spostata in qualche lontano altro territorio. Contro tutto ciò non esiste alcuna tradizionale virtù urbana in grado di consolarci. La rurbanizzazione è il gelido bacio della morte per la città e per la campagna, come può confermare chiunque sia stato in California di recente. Anche se si tratta di seguire obiettivi personali, familiari, di libertà nella natura il progetto non funziona affatto. Certo che magari il supertecnologico «Bucky» riuscirà a risolvere tutto per l’anno duemila, ma non certo per il 1976 che ci siamo posti qui come traguardo.
La Super-Città
All’estremità opposta rispetto a Fuller si colloca le Corbusier, la cui utopia tecnocratica è collettivista anziché individualista. Ordine neutro, non libertà personale, è la parola chiave. Ed ecco l’organizzatissima città dei grattacieli, conformata come un complesso industriale o alveare cosmico, ad imporre ai suoi abitanti una razionalità esterna. È certamente vero che le case torre, le elevate densità edilizie, in grado di contenere tutte le funzioni residenziali ed economiche di 55 milioni di persone, renderebbero più semplice risolvere i problemi delle comunicazioni e dei servizi metropolitani. E contemporaneamente risparmiare enormi zone di spazi aperti all’agricoltura e al tempo libero nella natura. Dovremmo allora iniziare a produrre in serie grattacieli su vasta scala?
La prima cosa da capire è quanta parte del previsto incremento di popolazione potrebbe essere gestita in questo modo. Consideriamo che circa un quinto di chi oggi vive nelle aree urbane delle zone metropolitane lo fa in quartieri degradati e slum. Consideriamo, inoltre, che nei prossimi anni ricostruiremmo tutte queste zone facendo un enorme balzo in avanti rispetto ai ritmi attuali di riqualificazione. Ma anche raddoppiando le densità edilizie di quelle aree utilizzando solo edifici molto sviluppati in altezza, potremmo sistemare al massimo 17 milioni di nuovi abitanti, al netto di attività economiche e servizi che gli sarebbero indispensabili. Ci restano da alloggiare gli altri 38 milioni, in diverse aree esterne a quelle urbanizzate, che sia in grattacieli o altro. E dunque anche il più radicalmente corbusieriano programma di riqualificazione non ci risolve la questione suburbana. E comunque: quante famiglie aspirano realmente ad abitare in un grattacielo anche promettendo loro tutta la comodità del mondo?
Già abbiamo dei laboratori di quel tipo di intervento centrale, dai progetti di Mies a Chicago, a quelli gestiti da Robert Moses a New York. Ciò che ci dicono quelle esperienze sinora è che il gradimento dell’abitare in edifici a torre, anche tra chi ha un reddito bassissimo e non ha mai potuto permettersi un alloggio decoroso, è davvero pessimo. Naturalmente è pur sempre possibile immettere sul mercato una quantità limitata di abitazioni in grattacielo di lusso o per redditi medi, specie nelle città dove sinora mancano fabbricati moderni multifamiliari. Ma in generale gli americani, anche chi non ha bambini piccoli, sono disposti a fare dei sacrifici per abitare in alloggi a livello del suolo con giardino privato, si tratta di abitudini e valori familiari consolidati. Si rileva anche da qualunque indagine come non appena si riesce a trovare una casetta a prezzo e requisiti adeguati ci si trasferisce immediatamente.
Forse alcuni nuclei familiari, in particolare quelli meno giovani (destinati ad aumentare di numero) o le coppie appena formate, potranno trovare interessante la vita di appartamento se offre autentiche convenienze localizzative e di servizi. E anche le famiglie con figli potrebbero convincersi che la serie di qualità funzionali che cercano si possono trovare anche nella città centrale, con l’espediente di ben progettate case a schiera o palazzine e medie densità anche su lotti di venti metri. Ma in generale la corsa all’abitare in grattacielo resta comunque piuttosto improbabile.
La Città Nuova
Un’altra ipotesi di organizzazione metropolitana è il concetto di New Town. In Inghilterra e Scozia si sono realizzate una serie di insediamenti industriali completamente nuovi negli hinterland dei principali nuclei centrali. Nuovi centri che si inseriscono in un programma di spostamento di popolazione e attività fuori dalle città sovraffollate, tutelando nel contempo le aree agricole produttive e a verde. Un piano molto apprezzato in tutto il mondo soprattutto perché appare come metodo valido per realizzare densità non elevate ma senza dispersione, e grande efficienza, comodità, ambienti di tipo urbano, ma senza incombenti grattacieli. Il problema è che questo programma britannico pare inadatto ai bisogni americani. In primo luogo il nostro problema principale non è quelli di città centrali particolarmente sovraffollate. Ciò di cui abbiamo bisogno sono piani e politiche per gestire 55 milioni di nuovi abitanti, gran parte dei quali si insedierà negli hinterland metropolitani, qualunque intervento si faccia sui centri tradizionali.
Dunque, se anche avessimo i poteri per costruire nuove città interamente di iniziativa pubblica (come si fa oggi in Gran Bretagna e come abbiamo fatto con le Greenbelt Town) una manciata di insediamenti modello avrebbe poco senso a fronte delle dimensioni reali del problema. Inoltre, per quanto riguarda progetti e realizzazioni, i nostri operatori privati americani saprebbero lavorare tanto bene o forse meglio di qualunque ente pubblico, se inquadrati in un piano regionale adeguatamente predisposto. Dal nostro punto di vista si può anche discutere la dimensione stessa delle nuove città inglesi. Oggi sparpagliamo sulle campagne le componenti dei centri urbani, ma se volessimo ricomporli in qualche modo in formazioni più organizzate, al tempo stesso tutelando le aree rurali comprese nelle regioni metropolitane, dovremmo ragionare in termini più ampi di quei nuclei britannici da 30.000-60.000 abitanti standard. Le New Town non sono abbastanza grandi per ricostruire le virtù di una vera città, né riescono a sostenere una sufficiente varietà di popolazione e specializzazioni in grado di garantire una certa autosufficienza, anche per la vita quotidiana. Nelle regioni urbane della California – San Francisco- San Josè- Sacramento o Los Angeles-San Bernardino-San Diego – dove arriveranno probabilmente in pochi decenni 6-7 milioni di abitanti in più si potrebbe ragionevolmente immaginare nuovi centri urbani di circa mezzo milione di persone.
Di sicuro qualcuno di quei centri sarà grande abbastanza da contenere quartieri degli affari e offrire parecchi posti di lavoro nell’industria, grandi servizi, abitazioni di ogni tipo e prezzi, per esempio del genere a densità medie oggi perfettamente ignorato sia dai costruttori delle lottizzazioni rur-urbane, sia dai riqualificatori da zone centrali. Nella maggior parte dei casi poi il viaggio casa lavoro potrà avvenire su brevi distanze in auto localmente, qualcuno addirittura a piedi. Ma dato che le città sono tanto più compatte del suburbio diventerebbero assai più praticabili delle reti di trasporto pubblico veloce anche tra un centro e l’altro, vecchi o nuovi che siano. La dispersione rende impossibile il trasporto pubblico di massa (per alcuni versi questo nuovo sistema sarebbe una versione rinnovata del vecchio modello di pendolarismo ferroviario, con quartieri più decentrati in aperta campagna).
Una nuova identità ritrovata
Le città nuove si possono collocare ben oltre i limiti più esterni dello sprawl e della speculazione. Offrendo così qualche speranza reale di conservazione dell’agricoltura e degli spazi aperti, valori non solo economici e visivi ma anche di identità sociale di cui l’informe infinito insediamento sparso attuale ovviamente manca. Per la localizzazione si terrà conto delle ferrovie, delle risorse idriche, delle relazioni economiche, ma anche la tutela di aree agricole più fertili o pregiate. Ad esempio la Napa County in California settentrionale coi suoi vigneti che producono vini tra i più rinomati del continente sarebbe in cima all’elenco di queste zone di tutela.
La relazione tra città vecchie e città nuove potrà variare di molto. New York e san Francisco-Oakland continueranno ad essere i centri dominanti delle proprie regioni urbane. Mentre nella California meridionale ci si possono anche aspettare galassie di nuovi centri di dimensioni e ruolo simili, ciascuno con una propria specializzazione come nella teoria della regional city di Stein. In ogni caso, le amministrazioni locali saranno forti ed efficienti, sostenute da una adeguata ed equilibrata base economica. Potremmo aggiungere che una rete del genere di città, al tempo stesso urbane ma a dimensione umana, potrebbe risolvere i propri problemi comuni attraverso forme di confederazione, invece di ricorrere al mega-organismo centrale di governo metropolitano, che appare in qualche modo inevitabile veder sovrapposto alle attuali amministrazioni se si prosegue con lo sprawl caotico.
Da un punto di vista culturale, in questa cornice, si possono anche pensare di reintrodurre alcune tradizionali virtù cosmopolite dell’esistenza urbana oggi perdute in quella stupida ideologia da villaggio e nell’esclusione di censo o razza così comune a suburbia. Ma anche trovando il più diffuso consenso sul fatto che questo sarebbe un modello molto sensibile per il futuro, è solo pura fantasia utopica immaginare di poter attuare in futuro un programma metropolitano del genere?
Certo occorreranno tutta una serie di strumenti e scelte non ancora perfettamente definiti. Ma dal punto di vista dei poteri pubblici necessari non pare se ne debbano sviluppare di più rigidi e dispendiosi di quelli già disponibili (e totalmente condivisibili) per l’amministrazione centrale. L’acquisizione di terreni non sarà necessaria, e qualunque investimento iniziale di capitale verrà recuperato e moltiplicato in seguito dal gettito fiscale. L’idea base di urbanistica, composta da destinazioni di zona, forme urbane e reti stradali, localizzazione funzionale e di servizi o opere pubbliche, è ovunque accettata. Dovrà semplicemente essere applicata su scala infinitamente più ampia e a stimolare positivamente diversi criteri di struttura metropolitana. Già oggi in alcune esperienze metropolitane locali si valutano attentamente le grandi alternative di sviluppo regionale.
A Cleveland e Atlanta la grande preoccupazione è contenere lo sprawl. La Bay Area Planning Commission auspica sub-centri ben sedimentati. In altre aree si valutano i danni della dispersione. Gli esperti di traffico sono preoccupati di ridurre la necessità di spostamenti. La Detroit Metropolitan Area Regional Planning Commission ha «studiato adeguatezza e auspicabilità di tre distinti modelli di sviluppo regionale: città dispersa; insediamento lineare per corridoi; città satellite». L’intera questione di un diverso governo metropolitano sta rapidamente diventando un problema nazionale. Già gli Stati sono costretti a intervenire in numerosi problemi di scala metropolitana, e anche la programmazione statale del territorio è uscita da una sorta di ibernazione e assunto di nuovo ruoli che non aveva sin dai tempi del New Deal. In alcuni Stati, come la California, la tutela dell’agricoltura è una questione in grande crescita di importanza, con i piani territoriali di contea che emettono in discussione le politiche fiscali dello Stato nei loro effetti. In alcune circoscrizioni si sono anche meglio definiti e rafforzati gli strumenti di controllo dello sviluppo urbano sino a rendere almeno non inconcepibile qualche idea di crescita per nuclei anziché casuale e sparsa.
Un esempio che ci dà qualche speranza è la città nuova di Fremont, 25.000 abitanti divisi in cinque quartieri ma su una superficie di territorio totale di 13.000 ettari, e l’ambizione di crescere sino a diventare un insediamento completo e integrato tutelando aree agricole e naturali. Ovunque sempre più si riconosce la necessità di definire le forme urbane anche intervenendo sui trasporti e le reti di servizi. Se le decisioni vengono coordinate per concentrare le localizzazioni su una certa area, non ci sarà bisogno di istituire tropi nuovi poteri. Invece, così come accade nelle decisioni centrali, l’iniziativa privata deve essere stimolata e galvanizzata. Certo alcuni interessi immobiliari senza dubbio potrebbero opporsi all’idea di una più attenta «pianificazione» in termini di principio, ma tanti costruttori contemporaneamente attratti da un grande programma di nuove città.
La scarsità di grandi spazi disponibili adeguatamente collocati e serviti già appare come un’emergenza per gli operatori principali del settore edilizio, così come per quelli industriali e commerciali (ed è la ragione del loro grande interesse attuale per la riqualificazione delle zone centrali). Un programma di città nuove, sostanzialmente, renderebbe disponibili questi grandi spazi per il futuro: gli Zeckendorf [grandi operatori edilizio-immobiliari newyorchesi n.d.t.] lo adotterebbero subito. L’ostacolo principale forse non è neppure politico né economico, ma culturale: vogliamo autentiche città e autentiche campagne o preferiamo quello sprawl rur-bano?
da: Architectural Forum settembre 1956; Titolo originale: First Job: Control New-City Sprawl – Traduzione di Fabrizio Bottini