Capita spesso di essere piuttosto perplessi davanti al grande consenso che suscitano certi progetti a dir poco stravaganti molto di moda di questi tempi. Progetti che in pratica sottraggono spazio pubblico reale o potenziale, cancellano ambienti aperti, caricano di funzioni magari di qualche impatto le strade e in generale la città, ma la cosa sembra scorrere via come acqua fresca di fronte all’idea che invece no, quello è «verde», quindi è buono sostenibile, accettabile e anzi auspicabile. E in mancanza di opposizioni e/o controlli sistematici, si rischia così di veder sottrarre qualità urbana in cambio al massimo di qualche scorcio elegante, da guardare però rigorosamente da lontano perché questi «parchi» chissà come sono spesso o esplicitamente privati, o comunque ad accesso regolamentato e limitato. Anche quando l’accesso è libero e pubblico, si scopre che la definizione di parco o giardino è poi assai elastica, pur con tutte le concessioni del caso, come nella famosissima High Line che tutti in tutto il mondo fortemente vogliono senza sapere esattamente perché, senza avere alcuna ferrovia sopraelevata da recuperare, e soprattutto confondendo una passerella dotata di fioriere, per quanto assai rigogliose e spettacolari, con i classici ettari di verde pubblico che qualunque cittadino deve pretendere. Del resto, però, si tratta di un equivoco antico quanto la progettazione dei parchi.
Discrezionalità, funzioni, superfici, distanze
O meglio: più che di equivoco si tratta in realtà di una «offerta complessa», così come si addice a tutto ciò che è propriamente urbano. Si dice della funzione sanitaria del verde prossimo ai luoghi di abitazione e lavoro, a fare da indispensabile trait-d’union e soluzione di continuità fra gli aggregati, ma salta immediatamente agli occhi di tutti il ribaltamento di senso, quando un parco nobiliare dopo una rivoluzione o altro cambio di regime (proprietario o politico) diventa accessibile ai cittadini. Resta fermo ovviamente quel valore ecologico, ma ne arrivano di nuovi tanti altri da far sì che si rinunci assai volentieri a parte del capitale di base pur di enfatizzarli, classicamente «immergendo nel verde» cose che in realtà non hanno un rapporto diretto: dalle essenze esotiche a puro carattere ornamentale, che diminuiscono di fatto la fruibilità aumentando i costi di gestione, all’aritmetica sottrazione di verde coi manufatti vari, considerati anzi parte integrante del parco indistinguibile dal resto. In pratica nasce da questa commistione anche quella radice landscape architecture dell’urbanistica moderna, che partendo da una forma matura di giardinaggio urbano, attraverso il modello misto, arriva sino alle forme contemporanee del suburbio da un lato, o del progetto di verde centrale fortemente artificializzato dall’altro. Al punto, che anche nella percezione collettiva l’originale valore socio-sanitario appare privo di senso e quasi inesistente, se non si accompagna ai caratteri formali, alla sottrazione di superficie, a varie limitazioni di accesso.
Valutazioni oggettive
Per fortuna, l’improvvido cittadino contemporaneo viene «salvato» dalla sua distrazione e deformazione percettiva, dal fatto che dentro l’urbanistica, intesa come costruzione complessa della città anche oltre le solite discipline del piano spaziale e del progetto di architettura, ci stanno anche regole di altra provenienza, fissate negli standard quantitativi: per ogni abitante o frequentatore di una data zona, che se ne accorga o no, che siano carini e vistosi o no, ci devono essere tot metri quadrati di verde. Il che rappresenta una buona base, uno «zoccolo duro». E non è un caso che così spesso venga sottoposto ad attacchi da parte di chi ne vorrebbe un calcolo meno «rudimentale», secondo criteri che si dicono «qualitativi». Peccato che a queste qualità corrispondano, puntuali, dei tagli di quantità, o di fruibilità. Mentre oggi, nella prospettiva della città resiliente, il ruolo del «verde di base» si vorrebbe assai allargato non solo senza alcuna aggiunta/sottrazione, ma addirittura allargando alcune delle sue intrinseche qualità al tessuto circostante. Sta qui, in questo cambio di funzionalità e contestualizzazione, la radice del concetto di infrastruttura verde, almeno se non la si legge in quei termini vagamente antiurbani di «campagna che si insinua verso il nucleo centrale». Ma prima di tutto, sul versante delle culture e degli obiettivi, nella prospettiva di una maggiore partecipazione e consapevolezza dei cittadini, occorrerebbe chiarire questi aspetti superando il puro approccio quantitativo in senso progressista (l’esatto contrario di chi vuole andare oltre gli standard inserendo le sue «qualità»). Ovvero fissare ruoli e funzioni ecologiche, economiche, di complementarità, oggettivamente calcolabili tanto quanto la superficie pro capite, e valutando qualunque piano di trasformazione interna ed esterna su quella base. Gli strumenti esistono, basta metterli in campo.
Riferimenti:
City Parks Alliance, The Fight to Preserve Urban Parks for People, The Next City, 5 dicembre 2016