C’è vita intelligente fuori dallo shopping?

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Foto J. B. Gatherer

C’è qualcosa che non torna nell’entusiasmo da un lato per tutte le possibili tecnologie smaterializzanti dell’universo, dall’altro nel permanere di una cultura degli spazi a dir poco novecentesca, industriale, segregata. Quanto c’è di malafede, e quanto di ignoranza? Ogni tanto qualche autorità cittadina, regionale, federale, ministeriale o che, si dichiara sostanzialmente contraria ai centri commerciali, e/o in generale i grandi contenitori della distribuzione organizzata. Cosa che viene quasi sempre accolta con favore da tanti elettori, dalla mitica rete, dai social network e compagnia bella, e si collega più o meno dichiaratamente all’intenzione di riesaminare su vari versanti il ruolo crescente e predominante delle grandi superfici, prevalentemente extraurbane, sui piccoli esercizi di vicinato che contribuirebbero non poco alla vitalità dei quartieri, altrimenti ridotti a deserti/dormitori, solcati giusto da qualcuno nelle ore di uscita e rientro dal lavoro o dalla scuola, o magari per il rito della pisciatina di Fido con pettegolezzi annessi.

Ora, non è che tutte queste cose oggi non siano in parte vere, né che esista davvero un rapporto diretto fra crescita dei grandi operatori e chiusure di esercizi familiari, ma proviamo una volta tanto ad allontanare un pelo la prospettiva e porci un’altra domanda: la città densa plurifunzionale e vivace, oppure al contrario un territorio segregato disperso e che mortifica le relazioni, hanno davvero un rapporto diretto con il tipo di operatori? Ed esiste davvero, in linea teorica, l’equazione grande distribuzione = grande superficie? A mente fredda scopriamo, come spesso accade, che ci sono due possibili risposte, una di destra e una di sinistra. Quella di destra (e non pensate al vostro voto, o alle bandiere che immaginate di veder sventolare in piazza) è da par suo conservatrice, spontanea, naturalistica, induttiva. Ci sono i commercianti buoni, gentili, sorridenti, vicini di casa, che sai come si chiamano e ti salutano quando passi davanti alla serranda. Occupano piccole superfici poco intrusive e stanno per definizione all’angolo, pietre angolari della comunità. E poi ci sono i commercianti cattivi, atterrati dal lontano (anche quando è vicinissimo) pianeta globalizzazione, che affamano i fornitori, ti obbligano a saltare in macchina e fare dieci chilometri per poi camminare altri chilometri dentro le loro scansie piene di roba artefatta, che compri solo rintronato dalla pubblicità. E poi non hanno volto, al massimo conosciamo qualche cassiera, che spesso si lamenta per i turni massacranti, e lo scempio che hanno fatto su quei campi, per costruirci il loro maledetto scatolone?

Tutto vero, se usiamo il metodo induttivo della risposta di destra. C’è però un’altra, un po’ più scomoda ma in qualche modo stimolante, verità. Non ce lo ricordiamo, il gentile bottegaio dell’angolo, quando urlava quasi sbavante e con gli occhi sbarrati, contro l’idea della pedonalizzazione di un pezzettino del quartiere? E il tizio forse mezzo parente che lavora per lui da vent’anni e passa, senza contratto, senza contributi? E quei prezzi che sono il doppio della grande catena, senza quasi possibilità di scegliere? Certo, mica sono tutti così stronzi, però sono tanti, e se ne vede anche di peggio. Una volta sbarcati nel parcheggio del centro commerciale, fa piacere vedere che almeno lì i gruppi di disabili si muovono con una certa facilità, perché non ci sono barriere architettoniche, e anzi ci vanno quasi in gita premio con gli accompagnatori. A parte i prezzi, decisamente più bassi che nei negozi del quartiere, c’è poi la possibilità di scegliere fra tanti prodotti e linee diverse, non bisogna mai discutere per questioni di resa o pezzi difettosi, lo scontrino non è un’opinione, se hai appena appena sentito nominare qualcosa, lì la trovi quasi di sicuro il giorno dopo, o anche prima. Difficile negare questi aspetti, e infatti quando si parla con quelli che tradiscono il negozio dell’angolo, proprio di questo ti raccontano. Certo non è tutta la verità, ma un pezzettino si, di sicuro.

Però non siamo ancora alla risposta di sinistra, progressista, di cui si voleva parlare. Riformuliamo la domanda in questi termini: non si possono avere, insieme, parecchi dei vantaggi dell’uno e dell’altro modello, eliminando al contempo certi rovesci della medaglia? Mica l’ha ordinato il dottore, che alla piccola superficie di quartiere all’angolo devono corrispondere orizzonti mentali ristretti, poco assortimento merceologico e di servizi, prezzi tanto più elevati. E non è certo il destino ineluttabile a determinare le forme insediative dello scatolone extraurbano, fissato più o meno per l’eternità a metà del secolo scorso, e arrivato quasi intatto nel terzo millennio, salvo varianti di dettaglio di poco conto, che magari interessano gli operatori ma certo non il consumatore o il territorio.

I piccoli operatori non hanno dubbi: il loro non è un ruolo solo economico, ma di vero e proprio presidio territoriale. In fondo i negozi di quartiere, come tante attività agricole tradizionali nel paesaggio, contribuiscono in modo determinante a mantenere la città quello che è sempre stata, luogo di scambi, relazioni, complessità, e poi occhi sulla strada che garantiscono sicurezza, memoria locale, continuità nel cambiamento. L’aspetto economico, il giusto tornaconto, sono semplicemente parte di questo ruolo assai più complesso, e magari i prezzi più alti vanno a coprire proprio le attività non ufficialmente riconosciute.

Per la grande distribuzione, negli anni più recenti le crisi parallele economica e della sostenibilità (energetica, del consumo di suolo ecc.) hanno messo in discussione il dogma della progressiva concentrazione e allontanamento dal nucleo urbano. In realtà qualcosa era già iniziato prima, e per motivi di mercato abbastanza simili alla ragioni addotte dai piccoli esercenti di quartiere. Ovvero che molti segmenti di consumatori si sono stufati del modello industrialista della spesa: grandi spostamenti, grandi scorte, standardizzazione, poche relazioni casuali, niente urbanità se non artefatta e poco credibile, nelle «piazze» presidiate da chioschi pubblicitari e marchi di ristorazione sempre identici. Ed è iniziata così la marcia di riavvicinamento dei grandi operatori alla città e ai quartieri, provando a studiare formati diversi. Ma in realtà mica tanto diversi: lo scatolone con parcheggio è duro a morire, dopo mezzo secolo di adattamento del mondo circostante a sé stesso.

Così l’atterraggio in città, quando avviene, assomiglia troppo a quello sulle superfici «libere» (si fa per dire) della campagna: al formato commerciale non si rinuncia nemmeno per scherzo, dettaglio per dettaglio. A partire da un’organizzazione urbanistica che pare dettata dalla forma rigida del sistema di condizionamento dell’aria, anziché il contrario, o dalle unità di superficie a cui non si rinuncia assolutamente. E diverse migliaia di metri quadrati, anche eliminando del tutto la sosta di superficie, si fanno sentire, così come si fa sentire la mole di clientela e fornitori che quei volumi si attirano, la pressione sul contesto, il traboccamento della congestione, certe politiche di concorrenza sleale applicate senza alcun complimento. Ma senza andare troppo nei particolari, la prima, primissima questione, resta quella delle dimensioni. Per stare in un quartiere, non si possono occupare più di mille, massimo duemila, metri quadrati. Poi a questi mille o duemila metri quadrati possiamo provare a insegnare anche la buona educazione.

Quello che succede è che la prevalenza dell’aspetto immobiliare su quello prettamente commerciale (la rigidità del formato esprime anche, forse soprattutto, questo) ci confonde davvero le idee: anche al netto da tutti gli altri difetti della grande distribuzione, è l’invadenza di queste grosse superfici e volumi a rendere davvero odiosi e nefasti, specie nell’ambiente urbano, centri commerciali e supermercati. Così da rendere possibile l’equazione, per altri versi davvero stramba se ci si pensa un istante, fra impatto insediativo e dimensioni dell’impresa: un po’ come se valutassimo così gli effetti sul traffico di un marchio di auto rispetto a un altro. Ora, non sarebbe possibile separare l’aspetto organizzativo da quello delle superfici e annessi, per affrontare le due questioni separatamente per quanto in modo integrato? Certo, significherebbe cambiare il nostro modo di concepire lo spazio del commercio, ma non più di tanto. E proprio oggi che tanto si parla a proposito e a sproposito di smart city.

Per inserirsi nei quartieri, per fare insomma quello che gli esercizi di vicinato fanno – o dicono di fare, chissà – da secoli, bisogna immergersi negli spazi e nei tempi della città, non sfuggirle sussiegosi atterrando nel suburbio, come con gli scatoloni novecenteschi in un mare di parcheggi. Il che va di pari passo con l’invenzione di formati diversi, sicuramente coerenti alla logica del mixed use vero, non quello virtuale inventato dagli uffici di pubbliche relazioni. Ovvero dove la superficie commerciale si interrompe fisicamente, per lasciare spazio a ciò che lì va meglio, che sia residenza, produzione, servizi, spazio libero o superficie pubblica. Di norma l’obiezione degli operatori è che così andrebbe a carte e quarantotto la loro strategia di relazione col consumatore, la continuità dell’esperienza commerciale, e poi faccende più tecniche come i flussi di persone da gestire, le casse ecc. Ma c’è la smart city, anche nella sua versione ristretta di rete tecnologica locale, che può integrare la discontinuità degli spazi fisici in una continuità virtuale egualmente efficace allo scopo.

L’abbiamo visto ormai centinaia di volte, quel tipo di filmato in cui un attore di gradevole aspetto si aggira per spazi urbani di solito firmati da prestigiosi architetti, armato di smartphone o tavoletta che dir si voglia, saltando con gli occhi e col cervello dal territorio che gli sta sotto i piedi a quello che i gestori del sistema hanno predisposto a suo uso e consumo. Funziona per i padiglioni di una grande esposizione disseminati in un parco, funziona per piazzole e angolini di sosta auto sparsi su una intera zona urbana, non si capisce perché non dovrebbe funzionare, e magnificamente, con una «grande superficie virtuale di vendita». Le cui forme architettoniche, marchingegni tecnologici, logica complessiva di marketing e pubblicità lascio volentieri agli specialisti: personalmente non ne capisco nulla, salvo quello che posso immaginarmi come potenziale cliente. Il passeggio in una via urbana, tradizionale, moderna, o chissà che, magari organizzata secondo il criterio degli spazi condivisi tra pedoni, ciclisti, auto e mezzi pubblici.

Su questa via si aprono vetrine, varchi, si allargano piazze, entrano e escono persone e mezzi: siamo in uno shopping mall virtuale, e contemporaneamente davanti a casa di nostra cugina Polly, invitati a pranzo: che le portiamo come contributo simbolico e meno simbolico? Facile: si scorre l’elenco sullo schermo camminando nella direzione giusta, indicata proprio dalle nostre preferenze, si raccatta il pacchettino il cui costo viene automaticamente addebitato sfiorando il codice a barre (e disattivando eventuali sensori di controllo ai varchi sulla piazza alberata). Poi per arrivare a suonare il campanello si può anche attraversare liberamente un altro negozio, tanto il sistema vale per tutta l’area attrezzata, non ci si può sbagliare, e capita di pensare che sarebbe tanto comodo e quasi ovvio attivare addirittura un sistema di smart cugina Polly dove si mescolano i convenevoli parentali vis-à-vis con qualcos’altro magari più divertente, o complementare, dagli album unificati delle foto di famiglia agli appunti aggiornati in tempo reale sui suoi gusti in fatto di dolci. Ma questa è un’altra storia.

Resta aperta la questione del cugino Paul, titolare di un negozio di quartiere che teme come la peste nera la concorrenza della grande distribuzione. Ma anche qui la risposta è la stessa: smart cugino Paul, ovvero magari con il sostegno organizzativo e fiscale della pubblica amministrazione un incentivo all’ammodernamento dei servizi commerciali dei piccoli operatori, perché continuino a svolgere il proprio ruolo anche in presenza delle più agguerrite concorrenze proprio davanti a casa. Perché è vero che non sono tutti evasori, sfruttatori di lavoro nero, avidi bottegai, ma invece rendono vivace la città con la loro presenza, in un modo che le grandi strutture, fisiche o virtuali che siano, per il momento si sognano. Per di più se per un motivo qualunque chiude un piccolo esercizio, si tratta sempre di un vuoto limitato, magari momentaneo, che non fatica molto a richiudersi, a differenza di quanto avviene con una grossa dismissione (o anche solo cessione con trasformazioni), smart shopping o no.

Ma la domandina finale è: esistono tracce di tutto questo, di questa idea di città e vitalità urbana, nelle prospettive di riforma attese da chi vede i quartieri desertificarsi e le zone extraurbane riempirsi di scatoloni goffi e insostenibili sul medio periodo? Al momento non se ne vedono, ma la speranza è l’ultima a morire. In fondo esistono le opposizioni politiche, o le associazioni, che dovrebbero essere progressiste e di stimolo. Lo sono davvero?

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