Chi non è più giovanissimo, probabilmente se li ricorda bene quei dibattiti surreali (surreali col senno di poi, ovviamente) di tanti anni fa, in cui in buona sostanza si rivendicava orgogliosamente il diritto a far danni in nome del sacro diritto al lavoro. Era una specie di vero e proprio diritto rivendicato, non una scelta per così dire tattica, e non era bandito neppure festeggiare, sotto sotto, perché scoppiava una guerra da qualche parte, e le gloriose aziende di armi avrebbero potuto iniziare a sfornare copiose scorte di strumenti di sbudellamento, garantendo il sacro sviluppo locale e non. Poi siamo cresciuti, ed è apparso chiaro anche ai non complottisti come tutto girasse attorno alla solita presa in giro: qualcuno (pochi) sa benissimo quale è l’oggetto del contendere, ovvero la nostra pelle, intendendo con nostra quella della stragrande maggioranza. Di chi prima o poi subirà il rovescio della medaglia, di solito in termini di degrado dell’ambiente, o di allargamento del conflitto. Pare però che il concetto sia duro, durissimo ad affermarsi stabilmente, ad esempio nell’idea di città.
Urbanizzazione del mondo, il nostro mondo
Quando si parla di sviluppo delle città, ci si dimentica sempre l’altra cosa, ovvero che l’uomo fa parte dell’ambiente. E quindi estendendo appena l’idea, anche questa sua escrescenza immediata per sopravviverci dentro, all’ambiente, cioè la città, è da considerare allo stesso modo. Non serve a nulla discettare teoricamente sulla differenza tra una caverna e la concentrazione di una decina di milioni di persone edifici impianti eccetera, salvo a rendere più consapevoli che qualcosa va fatto, per contenere la distruzione ambientale da urbanizzazione, ovvero distruzione dell’umanità. Se ne parla da parecchio, perlomeno da quando lo scatenamento di energie della rivoluzione industriale ha reso evidente il problema, ma soltanto in epoche recenti si è iniziato a considerare la cosa in termini diversi dal semplice allontanamento verso nuovi orizzonti: prima l’abbandono delle città morte, poi il decentramento anche nella sua forma estrema di dispersione, fino all’idea di adattamento e sostenibilità. Ovvero, sono la città esistente e quella futura a doversi inserire in modo diverso da una pallottola nell’ambiente, si tratta di capire come.
Adeguamenti
Esistono, come ben sappiamo, vari tipi di adattamenti dei sistemi urbani che consentono di contenere e tendenzialmente ridurre a zero molti impatti ambientali. Una prima famiglia è quella tecnologica, che riguarda i materiali, i modi di produzione dell’energia e di trasformazione delle materie prime, le forme di mobilità, comunicazione, relazione e via dicendo. Una seconda famiglia è quella dei comportamenti e degli stili di vita, che dovrebbero complementare gli adattamenti tecnologici sia sfruttandoli al meglio, sia facendoli evolvere verso nuove frontiere di conoscenza e applicazione. Una terza famiglia è fatta di grandi sistemi e contenitori, ovvero la cosiddetta idea di città e territorio, la declinazione ambientale di quanto classicamente si chiama contrapposizione città campagna, e che è al centro di tante ricerche, politiche, dibattiti sull’urbanizzazione planetaria, il land grabbing, la contraddizione fra agricoltura industrializzata ed equilibri territoriali locali. Qui esiste in fondo una forte continuità, sia rispetto ai modelli di era industriale, sia a quelli precedenti.
La città sostenibile
Il tipo di insediamento costruito in modo da essere al tempo stesso abitabile, adatto alle varie attività umane, ben integrato nell’ambiente e nel territorio della sua regione, è stato da sempre l’oggetto di ricerca centrale di chiunque si ponesse problemi importanti, dai colonizzatori in su. E dall’antichità ai nostri giorni si ripetono e confermano pochissimi modelli di massima, più o meno indifferenti alle evoluzioni tecnologiche e sociali, salvo ovviamente declinarsi in relazione ad esse: la città non può crescere indefinitamente, devono convivere spazi costruiti e spazi aperti, questi spazi aperti sono assolutamente indispensabili alla vita. L’ultimissima intuizione, ancora sviluppo di cose già note quasi da sempre, è quella delle infrastrutture verdi accoppiate agli spazi per il tempo libero, per la mobilità, per la produzione alimentare. Sono questi i contenuti funzionali dei nuovi concetti di parco, che poi significa anche gestione delle acque, lotta alle isole termiche e tante altre cose per la salute e il benessere. Ma il negazionismo è sempre in agguato, esattamente nelle forme riassunte all’inizio che pongono lo “sviluppo” qualsivoglia davanti a tutto, magari pure con le migliori intenzioni, ma senza cogliere il senso di quel che dicono.
La forma della città
Ecco, una volta c’era qualcuno che gioiva per una guerra lontana e il rilancio della produzione locale di cannoni, oppure che sopportava (lo racconta già Engels nei suoi diari da Manchester) condizioni di lavoro quasi mortali con l’idea di accumulare a sufficienza per scapparsene a gambe levate. Si tratta di ragionamenti del tutto analoghi a quelli di chi sposta un po’ più in là la frontiera degli impatti, anche micidiali e definitivi, invece di affrontarli qui e ora. Il caso dell’agricoltura è emblematico, perché come insegna complessivamente la cultura del chilometro zero, introdurre organicamente la produzione di cibo in città sposta gli equilibri energetici e di impatto generale, nonché (come rilevano ormai infinite ricerche su casi locali) rappresentare una infinita risorsa sociale ed economica. Ma come ci insegnano ormai un paio di secoli di esperienza pratica, non esiste agricoltura urbana degna di questo nome se non con una adesione a un certo modello di crescita, per nulla necessariamente high-tech (anche se non si tratta di un aspetto escluso, anzi) ma modellistico. I criteri, stranoti, sono quelli della continuità delle corone verdi, dei cunei a interrompere lo sviluppo edilizio concentrico, della circolazione naturale e governata di acque, impollinazione e via dicendo. Ovvero di risparmiare superfici libere.
L’uomo al centro
Questo il senso di tutte le attuali politiche di promozione locale, che vanno appunto dagli orti, ai campi produttivi, alla riconversione (Detroit insegna), alla pianificazione territoriale orientata alla conservazione. Peccato che qualcuno non la voglia proprio capire, e che si continuino a leggere in modo miope questi programmi, come una specie di lusso per ricchi annoiati, di passatempo che distoglie dai veri problemi. In quanti casi si sono buttati al vento anni e anni di discussioni e lotte ambientali e urbanistiche per la tutela di superfici agricole in periferia, per via di una “emergenza casa” di solito artatamente manovrata? Ed ecco pronta la variante di piano urbanistico che rende edificabile qualche ettaro, sottraendone all’equilibrio ambientale decine e decine.
Lo conferma la polemica emersa a San Francisco, prima città della California ad avere adottato ufficialmente le politiche statali di incentivo all’agricoltura urbana (Urban Agriculture Incentive Zones Act), ovvero da un lato agevolazioni fiscali a chi consente e pratica l’attività negli spazi inedificati, dall’altro ovviamente l’inquadramento in un piano di queste tessere di mosaico. Apriti cielo: proprio mentre tantissimi organi di stampa internazionali raccontano il virtuoso tentativo dell’amministrazione di cercare pur in un regime di mercato immobiliare questo tipo di approccio, un pezzo di sapore benaltrista su The Atlantic tuona vergogna! Ovvero, in perfetto stile vintage accusa la città di fare il gioco dei ricchi, di impedire di realizzare invece in quegli spazi le case economiche per i lavoratori tanto necessarie, in una città che vede da parecchio tempo la gentrificazione di interi quartieri e l’espulsione dei ceti a redditi bassi verso fasce sempre più esterne e lontane dalle occasioni di lavoro. Tutto vero, sono noti in tutto il mondo per esempio i cortei contro gli autobus di lusso che portano gli yuppies dai costosi condomini in città al posto di lavoro nella Silicon Valley. Ma ancora: ha senso riproporre, oggi, una battaglia di retroguardia come quella tra abitabilità e giustizia sociale? A chi giova?
Riferimenti:
Conor Friedersdorf, How Urban Farming Is Making San Francisco’s Housing Crisis Worse, The Atlantic, settembre 2014