L’architetto newyorchese Henry Wright, che aveva accompagnato un gruppo di esperti di abitazioni britannici in visita ad Atlanta, ci aveva suggerito di provare a incontrare Sir Theodore Chambers, presidente del consiglio di amministrazione di Welwyn Garden City, una nuova città sorta per iniziativa privata a trenta chilometri da Londra. Durante l’incontro, Sir Theodore ci piegò come abitassero insieme sia fasce di ceto superiore che operaie, per una popolazione complessiva di 12.000 abitanti. Gli affitti venivano mantenuti il più bassi possibile per i lavoratori, nessun costo per i terreni e un 4% sugli edifici. Ci raccontava Sir Theodore che la maggior parte delle risorse derivava da quanto pagavano le fasce di reddito più alte, i negozi e le fabbriche. «Credo – diceva – che se un’industria come la Ford si costruisse una città diciamo di duecentocinquantamila abitanti farebbe un gran servizio al genere umano. Gli antichi Egizi, i Greci, i Romani, realizzarono dal nulla imponenti città, mentre la nostra civiltà pare non voler far nulla di simile. Mentre potrebbe chi possiede grandi ricchezze negli Stati Uniti. E sarebbe anche una grande realizzazione economica oltre che un servizio all’umanità».
Andai insieme a Laura a visitare Welwyn il giorno dopo scoprendo che coincideva da ogni punto di vista con ciò che mi era stato raccontato. Una città moderna, gestita efficientemente come una impresa in attivo. All’amministratore John F. Eccles che ci accompagnava chiesi: «Come mai tanto spazio libero, e proprio in centro? Con diecimila abitanti il centro dovrebbe pullulare di negozi, non certo di superfici inedificate». Mi spiegò, Eccles, la ragione: «Non siamo ancora cresciuti abbastanza. Le previsioni parlano di una popolazione attorno ai quaranta-cinquantamila abitanti. Costruendo e affittando spazi commerciali in centro su quelle proporzioni, me essendo solo in diecimila, provocheremmo semplicemente il fallimento di tante attività, che non possono certo aspettare la nascita dei nuovi clienti. Al tempo stesso però dobbiamo essere dotati di spazi pronti per accogliere le attività commerciali quando la città sarà cresciuta sino al massimo. Nel frattempo ci accontentiamo degli esercizi di vicinato. Ma forse è meglio che le faccia un esempio pratico. Vede quell’edificio basso e lungo giusto di fronte ai nostri uffici dall’altra parte della piazza? Beh, è la sede principale di Welwyn Stores. Adesso guardi però quell’angolo alla sua sinistra».
Girando lo sguardo potevo vedere un gradevole fabbricato col tetto a spioventi poco inclinati, con un negozio centrale e altri due esercizi locali. «È una filiale dell’emporio del centro – mi spiegava Eccles – e serve questa zona di alimentari, abbigliamento, carbone, calzature, praticamente quasi di tutto. L’intera rete commerciale è di nostra proprietà, e i cittadini ci percepiscono come una specie di monopolio». Ciò che criticavano di più era una scarsa possibilità di scelta. E avevano cominciato a far spesa lontano da Welwyn. «Quel problema l’abbiamo risolto realizzando un numero limitato di negozi sia in centro che nei quartieri, e dividendo gli esercizi tra fruttivendoli, il farmacista, il ferramenta eccetera. La gente ha ricominciato a pensare che far compere qui a Welwyn fosse comodo e conveniente. Ovviamente si tratta solo di psicologia visto che non è stato cambiato nulla né nell’offerta merceologica né nella politica dei prezzi. Per un po’ i negozi più piccoli hanno tolto attività all’emporio generale, ma è stata una cosa temporanea. La vera concorrenza in realtà è solo coi negozi fuori città»
«Aspettando di attivare tutti quei piccoli esercizi minori quando Welwyn avesse raggiunto una popolazione in grado di assicurare una certa massa di acquisti, e quindi un certo giro di affari per i negozi, ci si assicuravano anche affitti superiori a quelli possibili con un commercio stentato in assenza di domanda. E con un certo diritto di esclusiva per un po di tempo,li si tutelava dalla peggiore concorrenza». Tornati nel suo ufficio poi Eccles ci sommerse letteralmente di materiale informativo a stampa, promettendo di spedirci altre immagini e dati. Ma durante la sua visita ad Atlanta nel 1934, Sir Raymond Unwin mi aveva tanto raccomandato di visitare Letchworth, la prima città giardino, Welwyn era la seconda. C’era l’occasione e Sir Raymond aveva anche organizzato un incontro con Barry Parker. Sapevamo dalla documentazione che Barry Parker, qualificato e stimato professionista architetto e urbanista, insieme al collega e cognato Sir Raymond Unwin, altrettanto qualificato, aveva ricevuto l’incarico di coordinare la realizzazione pratica di quello che era stato il sogno di Ebenezer Howard. Era il 1903. Il luogo 1.800 ettari a circa 55 km da Londra.
All’arrivo a casa di Mr. Parker sabato 11 luglio ci fu riservata una calda accoglienza dal nostro ospite e dalla cortese signora in salotto, col «caffè delle undici» servito anche se non erano ancora le dieci. Quasi settantenne, Barry Parker un pochino ricordava a prima vista il Capitano Amies di Becontree, più anziano, entrambi alti e dai movimenti pacati, ma la somiglianza finiva lì. Amies portava i capelli lisciati all’indietro, e Parker lunghi sul collo come Lloyd George. Amies era completamente rasato, mentre Parker ostentava dei baffoni da tricheco all’inglese che più all’inglese non si può. «Prima di raccontarle di Letchworth – iniziò già durante il caffè – vorrei sapere qualcosa di quel che state facendo in America. Unwin mi raccontava dei vostri progressi nella eliminazione dei tuguri. Mi pare di ricordare di un caso dove si sono terminate le demolizioni e si è già cominciata la ricostruzione. Da qualche parte in Georgia: Atlantis, si chiama?». «Certo – gli risposi – ad Atlanta c’è il primo progetto di slum-clearance affrontato dal nostro governo, oggi in corso di completamento. Abbiamo buttato giù buona parte dei tuguri nel 1934 e poi …».
A quel punto l’adorabile signora Parker scivolando verso di me sul divano troppo imbottito «Oh, Mr. Palmer! Li avete proprio buttati giù quei tuguri, letteralmente rasi al suolo? E solo pochi secondi fa lei parlava di affrontare il problema. Immagino qualcuno che ci si piazza davanti deciso a non mollare a nessun costo. Nello stile tipicamente americano. Poche parole che vogliono dire esattamente quel che significano. Vorrei che si esprimessero così anche tanti colleghi architetti di mio marito. Che invece impiegano sempre tante parole per spiegare cos’hanno in mente. Quei discorsi alle riunioni del loro Istituto che sembrano non finire mai». La risata di Parker iniziò a rimbombare nella stanza. «Già già, mia cara. Il fatto è che io sono proprio uno dei peggiori, Ha Ha!». Alla fine delle risate, a cui ci eravamo aggiunti io e Laura, chiesi al nostro straordinario interlocutore qualcosa sulle localizzazioni industriali. «Tutti gli impianti nocivi, ovvero quelli che producono fumi o cattivi odori, vengono collocati in modo che i venti principali si portino via tutto lontano dalla città».
«Ma come mai – insistevo – Letchworth non si è riorganizzata nel senso di ente orientato a qualche profitto come accaduto con Welwyn?». Mr. Parker giocherellava coi suoi baffi guardandomi dritto negli occhi. «Un’ottima domanda – rispose. E grazie per averla fatta. Sia Letchworth che Welwyn sono partite dal medesimo obiettivo di costruire città migliori; di dare alla gente un luogo migliore per abitare, e non di far soldi. Ed ecco perché in entrambi i casi i dividendi erano limitati. A Letchworth è ancora così, e la ragione risale a Ebenezer Howard. Convinto che l’incremento di valore dei terreni generato dall’incremento di popolazione non debba andare alla proprietà di quei terreni. Howard credeva invece che tutti i cittadini dovessero trarne beneficio perché dopo tutto quei valori li hanno prodotti loro risiedendo lì. Howard aveva fissato il principio, e noi ancora lo condividiamo coerentemente mantenendo la proprietà e concedendola in uso a lungo termine. Quando quella concessione scade, si esaurisce come dite forse voi americani, l’incremento di valore che verrà applicato col rinnovo appartiene ai cittadini».
Continuavo a tempestare Mr. Parker di domande, e Laura interveniva proponendo un suo punto di vista femminile. E con una certa riluttanza alla fine salutammo i gentilissimi Parker. Intuivamo che c’era molto da scoprire sulle città giardino, che avessero seguito i precetti originari di Ebenezer Howard, così come sviluppati a Letchworth nel racconto di Barry Parker, oppure spinti da una logica di profitto come a Welwyn con Sir Theodore Chambers. Dato che le idee di Ebenezer Howard sulla garden city risalivano a una generazione prima, e si erano affermate nei due progetti pilota di Letchworth di Welwyn, il concetto di città nuova si era conquistato molti sostenitori. Certamente tra i più innovativi spiccava A. Trystan Edwards, che ci vedeva uno strumento per risolvere tanti mali della società britannica. Lo incontrammo per un tè pomeridiano e una chiacchierata al n. 3 di Gray’s Inn Square. Architetto professionista, col suo entusiasmo Edwards appariva esuberante e molto oltre i confini della disciplina. Lo spazio tradizionale di Gray’s Inn Square era forse adeguato al suo modo di vestire ma non certo alle sue idee moderne. Ci accolse con gentilezza d’altri tempi, ometto calvo vestito di tweed con le toppe sui gomiti, un po’ esitante sulla porta dell’appartamento.
In un primo tempo avevo attribuito questa apparente timidezza a un certo imbarazzo, capii però in fretta che si trattava solo di una accentuata difficoltà a pronunciare le parole. Ma ciò che per la maggior parte delle persone sarebbe stato un handicap, con Edwards si trasformava in una risorsa. Se quella lingua non avesse inciampato ogni tanto, sarebbe stato impossibile confrontarsi col vero e proprio diluvio di progetti che mi rovesciava addosso. «Quei mascalzoni si sono convinti di aver affossato il mio Hundred New Towns for Britain! – tuonava – Gente che pensa solo ai propri soldi tutta contro di me, Lloyd George aveva capito l’idea e poteva fare qualcosa ma poi arrivarono Neville Chamberlain e gli altri a fermarlo». Edwards aveva tante cose da dire, e a quanto pareva una prolungata assenza di interlocutori a cui raccontarlo, che le parole continuavano a restargli incollate alla lingua. Per poterle ascoltare ci voleva costante attenzione all’argomento, mentre il tè si raffreddava nelle tazze. La storia usciva un pezzettino per volta, e si rivelava una concentrazione quasi fanatica su una singola idea. Le esperienze del protagonista come quelle della Piccola Dorrit. Secondo Edwards, tutta la Gran Bretagna, non solo Whitehall, era come ai tempi di Dickens un «Ministero delle Circonlocuzioni». Il progetto di Edwards era straordinario nella concezione: realizzare sull’arco di dieci anni, strategicamente localizzate tra Inghilterra, Scozia e Galles, 100 new town da 50.000 abitanti ciascuna, per un totale di cinque milioni di persone.
Edwards era convinto che bisognasse agire di colpo e con decisione, era l’unico metodo possibile. I britannici erano grandi colonizzatori, e quello era giusto un problema di colonizzazione. Risolvere il problema delle abitazioni nelle sovraffollate città esistenti comportava enormi costi per i terreni e altri problemi da risolvere. Costruire nuovi centri su terreni a buon mercato, prima di radere al suolo i quartieri di tuguri, significava risolvere la questione delle abitazioni in modo efficiente ed economico. Anche le città tradizionali ne avrebbero tratto beneficio guadagnando spazi liberi là dove c’era lo slum. Ne nacque un libro pubblicato a sue spese da Edwards. L’elenco dei sostenitori del piano convinti che «meritasse un ampio dibattito e approfondimento» comprendeva esponenti di ogni tipo. Grazie a questi sostegni, Edwards aveva affrontato gli aspetti più prettamente politici del programma. E riteneva che lo si dovesse considerare nella medesima prospettiva in cui il Paese valutava una guerra: l’obiettivo una casa per tutti. C’era una attenta analisi delle premesse. In primo luogo si sottolineava come l’85% delle spese di costruzione fosse in stipendi e compensi. Ovvero reddito che si traduceva in acquisti di prodotti agricoli, abiti, e altri consumi ovvero nell’intera economia trainandola. Concludendo che se l’espansone industriale sinora casuale fosse stata convogliata verso le new town, si sarebbero realizzati in dieci anni nelle centro città 750.000 nuovi posti di lavoro.
Con una pennellata la finanza si stendeva su una gigantesca tela. Milioni di case di cui si calcolava il costo complessivo tra i due e due e mezzo miliardi di dollari, e poi fabbriche, negozi, servizi, terreni. Su dieci anni cinque miliardi di dollari diventavano cinquecento milioni di dollari l’anno fino alla conclusione del progetto. Cifre astronomiche che mi davano le vertigini ma che non parevano avere nessun effetto su Edwards. Come si inseriva questo investimento da mezzo miliardo l’anno nel bilancio nazionale? Beh, già oggi il governo britannico spendeva il 50% in più ogni anno solo per i sostegni a poveri e disoccupazione. «Non scherziamo – proseguiva perentorio Edwards – pensiamo a quanto si risparmierebbe creando i nuovi posti di lavoro nelle cento città!». Il sudore gli scorreva copioso sulla fronte. E le parole non uscivano veloci come avrebbero voluto. Afferrato il libro indicava questa o quella pagina. Ma non c’era niente da fare. Alla fine gli sovvenne che non potevo certo seguire il suo ragionamento di molti anni scorrendo per qualche minuto il libro. E me ne diede una copia da studiare con calma. Ma rapidamente si riprese il libro per per firmarlo e datarlo con uno svolazzo, la cosa pareva calmarlo in qualche modo. La pressione allentarsi. Ma fu solo per un momento. Troppo le parole da dire per le capacità umane di trattenerle, e ancora ne uscirono.
Di nuovo il finanziamento. Piuttosto oneroso, certo! Ma è oltre le capacità britanniche? No. E in realtà il piano potrebbe finanziarsi da solo senza chiedere prestiti e interessi. Edwards si stava ovviamente godendo l’espressione perplessa che era comparsa sul mio volto dopo quella stupefacente dichiarazione. Ero abbastanza di larghe vedute per ascoltare qualcosa di poco ortodosso? Il mio interlocutore si sistemò sullo schienale della poltrona ricomponendosi lievemente. L’affascinante storia che mi raccontò era quella del meccanismo finanziario usato più di un secolo prima sull’Isola di Guernsey per realizzare una «Schiera di Negozi» . Era il 1820 e l’amministrazione locale era così alle strette da non poter né chiedere prestiti né imporre tasse, per costruire l’urgentemente necessario nuovo mercato. Di fronte al dilemma, potendo battere propria moneta, ne stampò le quantità necessarie pensando di recuperare sugli affitti degli spazi, calcolati in 600 sterline l’anno: raccolta quella somma l’amministrazione bruciava l’equivalente delle banconote. E così in meno di dieci anni tutto era ripianato senza pagare nessun interesse o impegno e senza neppure innescare inflazione fuori controllo. Ciò perché la moneta battuta era ancorata all’immobile anziché all’oro: l’oro non guadagna in sé mentre l’immobile lo fa. La «Schiera di Negozi» si era ripagata da sé.
Gli abitanti dell’isola ne uscirono così soddisfatti da usare di nuovo il medesimo espediente per realizzare dei moli di approdo e altre opere auto-finanziate. Funzionava così bene da portare nuova ricchezza all’Isola di Guernsey e il Consiglio locale gestì in quel modo ogni problema finanziario per vent’anni. Finché, sottolineava Edwards, furono i banchieri internazionali a entrare in campo, gli stessi che si erano rifiutati di sostenere la costruzione del nuovo mercato concedendo un prestito, adesso si facevano sentire dopo aver scoperto che sull’isola si faceva benissimo a meno di loro. Peggio, perché quei banchieri non avevano incassato nessun interesse dall’isoletta! E così, e così, quei contabili di Threadneedle Street nella grande City of London decisero che bisognava assolutamente fare qualcosa per cambiare la situazione e tornare a farci dei profitti. Abilmente convinsero il Privy Council a cancellare il potere di battere moneta all’amministrazione dell’Isola di Guernsey. Ma si era comunque fatto in tempo a dimostrare la fattibilità di quel meccanismo, a dimostrarlo c’erano il mercato e i moli di approdo, tutto costruito senza pagare un centesimo di interesse. Si era stimolata l’economia, il commercio, i servizi, era scomparsa la disoccupazione.
Ma per quanto potesse essere entusiasta dei meccanismi di finanziamento del suo programma, Edwards lo era molto di più del progetto urbano. Il suo piano era per un impianto circolare suddiviso in settori funzionali. Le punte dei settori convergevano verso un centro al cuore della città e le vie radiali collegavano con la periferia come i raggi di una ruota. Zone residenziali contigue alle aree industriali separate da adeguate barriere visive, distanze da casa al lavoro percorribili a piedi. C’era poi il progetto dei singoli complessi residenziali, e qui Edwards arrivava al massimo della sua creatività. Là dove trenta abitazioni per ettaro viene considerata una densità normalmente auspicabile, si passava a cento con case a schiera organizzate attorno a uno spazio quadrangolare per il tempo libero. Ma che fare se invece che per il tempo libero quello spazio poteva servire, poniamo, a stendere i panni? E le mamme come potevano controllare i più piccoli mentre giocavano? Edwards afferrò di nuovo il suo One Hundred Towns for Britain dal tavolo. Le parole uscivano troppo lentamente, e così mi indicò una delle tante tavole a colori col terzo piano delle sue case. Tetti piatti concepiti come spazio ideale sia per estendere i panni che per il gioco, anche recinti con la sabbia, mastelli, fili stesi. C’erano spesse pareti con graticci di rampicanti ad angolo retto tra il fronte dell’edificio e la strada, a dividere sia sul fronte che sul retro verso il cortile gli alloggi garantendo ai residenti totale privacy. Sul davanti una balaustra ornamentale, bassa a sufficienza per lasciar entrare la luce del sole, alta quanto basta a non farsi scavalcare dai bambini. La parte più lontana dalla strada era parzialmente coperta a ospitare la lavanderia e riparare le scale di collegamento coi piani inferiori. L’architetto Edwards aveva davvero pensato ai bisogni delle mamme.
Interrogato sull’origine di quella particolare soluzione mi spiegò delle sue discussioni con gli «abitanti del tugurio» e le loro mogli. Era sbagliato progettare per loro senza di loro, che sapevano benissimo ciò che volevano e di cui avevano bisogno. Niente casermoni multipiano troppo stressanti la casalinga già stanca dalla sua giornata di lavoro, per farle salire e scendere quattro rampe di scale e respirare un po’ d’aria al bambino al sole. E nemmeno villini sparsi a trenta alloggi l’ettaro sempre troppo lontani dal lavoro «come se fossero cavoli nell’orto» che impedivano di vivere in modo comune e amichevole. Avevo ascoltato una storia incredibile dalla voce incespicante di un personaggio straordinario. Che pur estenuato ed economicamente provato dai tentativi di promuoverlo restava fermamente convinto di poterci riuscire. Accettò molto volentieri la banconota da una sterlina che gli passai come quota di iscrizione al gruppo.
da: Adventures of a Slum Fighter, Van Ress Press, New York 1955; Titolo originale: Hundred New Towns – Estratto e traduzione a cura di Fabrizio Bottini