I sostenitori del tanto peggio tanto meglio di solito se la passano benissimo. Dagli amministratori locali pronti, magari usando addirittura la scusa del cambiamento climatico, a rispolverare uno sbrigativo autoritarismo solo per la nostra sacra sicurezza, impedendoci di uscire di casa anche a piedi; o ai soliti tontacchioni cantori del bel tempo andato che, ogniqualvolta crolla qualcosa, incrostazioni della perfida modernità (ai loro occhi naturalmente) non fanno che gioire, immaginando un bel ritorno ai lumi di candela, alle mani callose, al duro lavoro curvi sui solchi. Lavoro duro per gli altri, naturalmente, visto che i cantori del bel tempo andato hanno già progettato per sé un comodo ruolo di cantori del bel tempo futuro, sul modello degli arcadici sempre in cima al colle a guardare l’operosità rurale sottostante.
Succede ad esempio quando certi centri commerciali, realizzati da speculatori forzando le regole dei piani urbanistici, le subiscono comunque ad esempio quando si allaga un’area che doveva essere inedificabile proprio per quel motivo. E lo scatolone con parcheggio diventa suo malgrado una freccia in più all’arco dei soliti reazionari, per motivi che nulla hanno a che spartire con la sua natura di centro commerciale: poteva essere benissimo un asilo, una concessionaria di macchine, un ospedale, ma purtroppo è un ipermercato con negozi vari annessi e grossa insegna al neon, quindi via con le considerazioni filosofiche, magari su quando la massaia si svegliava all’alba per andare al mercato eccetera eccetera. E i reazionari veri, quelli che speculano sulle disgrazie, si fregano le mani.
È successo all’epoca del movimento Occupy, quando in vari presidi stabili nelle piazze di tutto il mondo si provava a riaffermare la piena legittimità del 99% della popolazione umana sull’1% di chi campa speculando sulla pelle altrui. Qualcuno spiegava, anche, sino a che punto l’impasto di spazio e convivenza a Zuccotti Park nella Lower Manhattan mettesse in risalto sia il rapporto fra pubblico e privato, che la capacità dei movimenti di ricostruire le basi stesse della Polis. Basi già parecchio intaccate dalla realtà, però, come dimostrava contemporaneamente una gelida vicenda nella gelida Anchorage, in Alaska. Nel regno della super-reazionaria Sarah Palin a reprimere il dissenso non c’è neppure bisogno di metodi violenti, basta soffocarlo alla nascita. Lì, vuoi per la cultura da pioniere individualista propria dei concittadini della Palin, vuoi perché fa un freddo cane e gli spazi coperti e riscaldati sono assai più preziosi che altrove, lì la collettività vede da tempo davvero nell’atrio davanti ai negozi la propria piazza. Che praticamente è l’unica parvenza di piazza.
Ergo, dove andrà a manifestare contro la finanza pigliatutto il locale drappello di rappresentanti Occupy? Davanti alla banca nella piazza principale, ovvero nello shopping mall. Salvo scoprire nel giro di pochissimi secondi che la storia della piazza è la solita favoletta messa in giro dall’esule austriaco Victor Gruen cinquant’anni fa, quando progettava il primo scatolone a Southdale, in Minnesota. Una favoletta poi negata dalle infinite sentenze dei tribunali che ribadiscono: il centro commerciale è spazio pubblico solo finché lo concede il privato proprietario. Stop. A Zuccotti Park, o in Europa davanti alla cattedrale di St. Paul, il rapporto pubblico-privato è abbastanza complesso, comunque portatore di tutte le qualità urbane storiche, incluse servitù di pubblico passaggio e uso varie. Anche se in teoria ci sarebbe un diritto privato, non si tratta di cosa tanto facile, tirar fuori idealmente lo schioppo e dire fuori dai piedi straccioni! A modo suo ce lo raccontava già William H. Whyte.
Da generazioni ormai si crede alla fantasia del mall (già il nome è una fregatura) come piazza moderna, nello stesso modo in cui ce lo predicano certi architetti interessati, o amministratori pubblici che hanno evidentemente sbagliato mestiere, essendo di fatto lobbisti di interessi particolari. In certi posti esistono addirittura associazioni di anziani che credono di trovare nel centro commerciale, inteso sia come spazio fisico che come gestione, un garante del proprio benessere e tempo libero. Mentre invece sono solo fortunate «vittime» di una scelta di marketing aperta a qualunque arbitraria decisione, per esempio a causa di una cessione di proprietà.
In definitiva, se qualcosa ci può insegnare di utile l’immagine di un centro commerciale allagato dall’esondazione di un fiume, là dove non doveva essere costruito, non è la maledizione della modernità, ma la nostra incapacità di gestirla. Altrimenti, una volta chiarito che quel posto non andava bene, che si deve fare? Assaltare coi forconi tutte le insegne al neon, e sostituirle con allegri mercati contadini rionali, da raggiungere comodamente svegliandosi alle tre del mattino e scarpinando su zoccoli di legno? Allagamenti a parte, proviamo a partire da quel che c’è, e pensiamo che farne: la discussione sui beni pubblici ha un gran senso anche fatta nel parcheggio di fianco ai carrelli arrugginiti. Magari pure un po’ di più.