Centri commerciali: una introduzione (2)

Nuove frontiere della sperimentazione culturale

Una parte del mondo professionale nel campo dell’architettura e dell’urbanistica americana, in più o meno limpida buona fede “ambientalista”, ha sperimentato in vari casi di siti commerciali dismessi, o in crisi irreversibile, metodi di riprogettazione di tipo new urbanism1, secondo i principi generali riassunti di seguito:

  • I centri commerciali sono il fulcro di un panorama territoriale e sociale dominato dall’automobile. Negozi circondati da parcheggi, anziché da quartieri, erano inconcepibili prima che l’uso dell’automobile diventasse diffuso ovunque. Ora, queste strutture che hanno aiutato la diffusione della monocultura automobilistica hanno raggiunto la fine di un ciclo di vita, e i loro spazi un’opportunità unica per invertire la tendenza allo sprawl suburbano, creando veri quartieri e comunità.
  • Le zone grigie sono fra le migliori opportunità d’America per realizzare insediamenti in area già urbanizzata, più orientati al trasporto collettivo. Al contrario del classico suburbio, i quartieri new urbanism sono abbastanza flessibili per rispondere a numerosi bisogni della comunità. Possono contenere abitazioni per residenti a redditi differenziati, luoghi di lavoro, commercio, spazi pubblici, e altri elementi essenziali per un’alta qualità di vita.
  • I siti ex shopping mall sono aree di dimensione sufficiente a questi scopi. La maggior parte dei terreni residui disponibili sono troppo piccoli per attrarre investimenti in urbanizzazioni infill. Non possono nemmeno contenere progetti insediativi di scala sufficiente ad offrire reali benefici per la comunità. Le zone grigie ex commerciali spalmano i costi di urbanizzazione e consentono progetti complessi, che comprendono in modo equilibrato tutti i principi new urbanism.
  • L’accesso all’abitazione è un problema grave in molte aree metropolitane. Ma la realizzazione di residenze per redditi misti ad alta densità nel quartieri esistenti è spesso difficile, perché gli abitanti si oppongono ai progetti e gli spazi sono di solito troppo piccoli per realizzazioni di qualche significato. Le zone grigie sono ampie a sufficienza per contenere quartieri interamente nuovi, fornendo una opportunità di realizzare abitazioni per redditi misti di alta qualità, che beneficiano dell’ambiente circostante.
  • Spazi pubblici ampi e di alta qualità sono tristemente scarsi in molti sobborghi. Gli insediamenti new urbanism forniscono spazi pubblici che hanno dato al new urbanism la sua reputazione di “architettura della comunità”.2
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Foto F. Bottini

Dunque la “morte” dei centri commerciali emerge come fatto fisiologico ed accettato, con cui le comunità devono in qualche modo imparare a convivere. Una convivenza che naturalmente da sola non risolve il problema ambientale e sociale di questi vuoti, che nello stesso modo di quelli militari, ferroviari, industriali, rappresentano una vera piaga, che trascina nel proprio declino la comunità e il territorio nel suo insieme. Le proposte del “nuovi urbanisti”, pur interessanti, articolate, in parte basate su esperienze concrete positive e recenti, hanno probabilmente qualche limite dovuto all’essere espressione di un “ismo” professionale, marchio identificativo a fianco del quale forse si vorrebbe vedere in un ruolo più centrale la pubblica amministrazione nel suo insieme: non certo solo singoli progettisti che, per quanto bene intenzionati e organizzati, sono pur sempre operatori commerciali tanto quanto i negozi in crisi che vogliono rivitalizzare transustanziadoli. E ben venga comunque, purché non isolata, la proposta new urbanism, visto che l’obsolescenza del mall e del suo ruolo socio-insediativo sembra andare ben oltre le cifre di per sé già allarmanti da cui partono i vari progetti di riuso.

In collaborazione stretta con un governo locale, a Lakewood si è completamente trasformata l’area di ben 50 ettari già occupata dal Villa Italia Mall: il più vasto dell’Ovest ai tempi di costruzione negli anni Sessanta, poi passato attraverso tutte le classiche fasi di crescita e decadenza fino al declino degli anni Novanta. Il progetto è ovviamente riassumibile con gli slogan del mixed use e dell’infill development, a identificare un quartiere con meno spazio per i negozi ma circa il doppio di superficie coperta. Una volta completato quello che ora si chiama Belmar sarà un’espansione del centro di Lakewood, collegato alle strade urbane, alle piste ciclabili e ai percorsi pedonali. Insomma, molto è cambiato e moltissimo deve ancora cambiare, e in tempi brevi: “Dopo aver girato le spalle alle vie commerciali del centro ed essere scappati nel suburbio, gli americani sono alla ricerca di un senso del luogo. Stiamo rimettendo a posto case nelle parti più vecchie della città, e passiamo una parte maggiore del nostro tempo libero nei centri da poco rivitalizzati. E quando vogliamo fare davvero spesa, andiamo agli enormi mega-malls e big-box, come Costco, Home Depot e Target, anche se questo significa guidare un po’ più lontano”3.

Un altro caso è quello dell’Eastgate Mall di Chattanooga, Tennessee, localizzato nel sobborgo di Brainerd. Aperto negli anni Sessanta, era stato il classico elemento drenante degli affari, dal centro città verso la zona dei sobborghi esterni, evolvendosi fino al puntuale declino economico degli anni Novanta, determinato dall’apertura del più grande ed esterno (rispetto al core metropolitano) Hamilton Place. L’iniziativa di recupero, particolarmente complessa, nasce all’alba del nuovo millennio, in una logica curiosamente pubblico/privata: il sindaco di Chattanooga è anche operatore immobiliare. Si coinvolge comunque in primo luogo l’autorità di pianificazione della contea, che comprende tra l’altro sia l’area di Chattanooga, sia quella di Hamilton che ospita il nuovo e più vasto mall che ha innescato la decadenza di Eastgate. La planning authority sarà responsabile di tutto il processo di ripianificazione, il cui studio e progetto è però finanziato all’80 per cento dagli operatori commerciali interessati, o stakeholders. Si tratta tra l’altro di un processo di progettazione partecipata, che include anche una charette4 a cui collaborano cittadini, comitati e operatori: operatori che appaiono piuttosto stupiti (?) scoprendo come all’interno di un processo strutturato gli abitanti non si presentino affatto come l’orda di virago più o meno nimby che ci si aspettava, ma sappiano invece esprimere progettualità complessa, entro cui trovano spazio anche strategie di investimento locale di grandi imprese, come quella della AT&T che riutilizzerà una parte dell’ex Eastgate Mall per un proprio call center.

Il progetto, in sintesi, rivolta sia fisicamente che in una logica di mixed use il sistema del centro commerciale “introverso”, privilegiando lo spazio collettivo della griglia stradale dove troveranno posto uffici, commercio e residenza. Il corpo dell’ex scatolone sarà rimodellato negli affacci, e articolato fra esercizi commerciali con fronte stradale su uno o due livelli. La gran parte dell’enorme superficie a parcheggio, oltre 20 ettari, sarà utilizzata per abitazioni, aree verdi, edifici pubblici e una piazza (su area ceduta gratuitamente dalla proprietà). Tra gli interventi più significativi, la completa ristrutturazione dell’arteria stradale principale su cui si affaccia il mall: ora sei corsie completamente destinate al traffico automobilistico e prive di marciapiede. E il commercio, naturalmente, è salvo, anche se “ora c’è una ristrutturazione urbanistica nel segno dell’urbano, che segue il periodo dello sprawl suburbano”5.

E questa, del fare una città, sembra un’idea del tutto nuova e creativa, a chi ha sempre vissuto come normale la stretta segregazione funzionale del suburbio, all’insegna dell’ideologia dei “tre ambiti”. Tre ambiti che nella versione estrema pensandoci bene si riducono a uno e mezzo: il privato dell’abitazione per la funzione live, ancora il privato (anche se collettivo) per il work-shop, e la camera di decompressione degli spazi intermedi, che si riduce però a poca cosa quando la monocultura imposta dell’automobile fa sì che anche in questo caso trionfi lo spazio privato dell’abitacolo. Appunto superare questa trappola, passa attraverso la “fusione di commercio, abitazioni, uffici, spazi per il tempo libero e pubblici, a formare nuovi quartieri vitali, liberati da parcheggi che erano diventati simili al fossato di un castello”. È il dispiegarsi di quanto definito “strategia neotradizionalista che crea amichevoli atmosfere da strada di paese”6.

Ancora, a Park Forest, uno degli storici e più noti sobborghi a sud di Chicago, la municipalità acquisisce nel 1995 un’area a mall aperto economicamente moribonda, elimina il 50% dello spazio commerciale, traccia uno schema di strade locali, e inizia a realizzare un complesso comprendente uffici, edifici residenziali, il palazzo comunale, un centro culturale e un parco centrale stile village green. Le superfici commerciali rimaste, che non sono poche, sono state calcolate sulla base di quanto è possibile sostenere con i residenti, anziché in una logica regionale di attrazione di flussi esterni, che si è già rivelata perdente generando i problemi attuali nell’arco di una generazione.

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Foto F. Bottini

A St. Paul, Minnesota, il governo locale ha acquisito e demolito la maggior parte di un insediamento commerciale lineare collocato nella zona popolare di Phalen Village. Il piazzale d’asfalto del parcheggio è stato trasformato in un lago, che è ora l’elemento di attrazione principale per gli investitori in edilizia residenziale, a cui si aggiungono alcuni uffici del governo statale. Il presidente della locale planning commission cita orgoglioso a questo proposito una canzone di Joni Mitchell, che recita “Hanno asfaltato il Paradiso, per farci un parcheggio. Noi abbiamo fatto il contrario”7.

Comunque, si deve constatare che i governi locali stanno assumendo un ruolo chiave nel ripensare e coordinare gli spazi degradati che la grande distribuzione si lascia alle spalle, anche se non è molto confortante vedere che, come già accaduto per i brownfields industriali, anche con i grayfields commerciali sembra ripetersi il ciclo secondo cui nell’arco di vita dell’insediamento oneri e onori non sono equamente distribuiti fra pubblico e privato. Un privato che specie nel settore delle costruzioni si è da tempo convertito, o meglio riconvertito, alla logica del riuso adattivo, e in generale anche ad alcuni precetti di area smart growth, che si riassumono rozzamente nel contenere al minimo la nuova urbanizzazione, a favore di un uso più intensivo delle zone già infrastrutturate. Questo nuovo approccio tra l’altro, anche in una logica di ulteriore proliferazione e crescita dimensionale dei regional malls (processo che a quanto pare rallenta ma prosegue), li priva almeno in parte del ruolo di volano per l’espansione suburbana. Anche se, progetti e programmi fiore all’occhiello esclusi, una cosa è certa: “non è detto che ogni centro commerciale in declino possa essere trasformato in un nuovo quartiere residenziale e commerciale”8. Ovvero, ci sono molti, moltissimi “ex Paradisi asfaltati”, ora ridotti a piazzali fantasma sui lati delle superstrade, che staranno lì per lustri a far bella mostra dei propri scatoloni muschiati.

Il caso americano e la globalizzazione

La crisi del format centro commerciale, chiuso o articolato che sia, spesso non significa affatto abbandono del modello territoriale che rappresenta ed entro cui si colloca.

Un caso di questo tipo, non per nulla esibito dallo International Council for Shopping Centers, è quello del Town Center a Lakewood, sobborgo di Tacoma, stato di Washington. Qui l’enclosed mall in crisi sta al centro di una grossa striscia commerciale continua di 50 ettari, affacciata sul fiordo della Puget Sound. Nonostante la dichiarazione ad effetto secondo cui “la nostra idea era semplicemente di liberarci del centro commerciale: semplicemente, buttarlo giù e ricominciare daccapo”9, nonostante il progetto si intitoli appunto “Town Center”, e comprenda la nuova sede del nuovo consiglio comunale (dopo la secessione da Tacoma), qui non c’è nemmeno l’ombra di mixed development.

Si tratta, solo e nonostante la probabile cura e partecipazione pubblica con cui l’operazione è gestita, di un intervento di cosmesi del tutto interno all’insediamento specializzato commerciale, che la decadenza del mall vecchio tipo dequalificava. E forse, come spesso accade nella puntuale logica secondo cui i grandi operatori preferiscono i piccoli consigli comunali, anche il movimento per l’istituzione del nuovo municipio forse non è stato del tutto estraneo agli interessi del grande insediamento commerciale affacciato sul braccio di mare della Puget Sound. Anche la presenza stessa del nuovo municipio all’interno del complesso, va contro un principio della smart growth10, secondo cui oltre a favorire la massima commistione funzionale in caso di riurbanizzazione (e qui non è proprio il caso, salvo appunto la town hall) proprio le sedi degli uffici pubblici devono per prime dare il buon esempio, evitando la facile scorciatoia di ritagliarsi a prezzo di favore spazi entro strutture prive di carattere civico e sociale consolidato11.

Riemerge quindi sottomentite spoglie il tema del rapporto fra pubblico e privato, di cui gli originali “tre ambiti” della pompa di benzina primo Novecento ben riassumono i capisaldi: una volta abbandonato l’ambito propriamente pubblico, l’uso collettivo del centro commerciale non gli toglie natura di spazio privato, dove pur nei limiti del comune buon senso detta legge la voce del padrone. E il solo collocare una struttura pubblica nel cuore pulsante privato di un centro commerciale, forse non aiuta a fare chiarezza.

Insomma, gli spazi dei centri commerciali sono privati, ma soggetti ad una sorta di obbligata “servitù di uso pubblico”, visto che in mancanza di clienti perderebbero la loro ragion d’essere. Ma tale uso pubblico sino a che punto è davvero tale, ovvero libero dalle interferenze della proprietà o del management del complesso? Un caso recente e abbastanza curioso è quello del Maine Mall a South Portland, Maine, dove la polemica, con alcuni strascichi anche legali, ha interessato da un lato il management di gestione del complesso di immobili, dall’altro nientemeno che l’Esercito della Salvezza. I volontari suonavano le loro campanelle per raccogliere offerte vicino agli ingressi principali del mall, ma sono stati invitati ad allontanarsi perchè il rumore “disturbava alcuni negozianti e clienti”. Alla fine di proteste varie (pare anche da parte di altri “negozianti e clienti”), i miti raccoglitori di offerte hanno potuto tornare al loro ragguardevole introito di circa 50.000 caritatevoli dollari l’anno, ad una condizione: sostituire le campane d’ordinanza con cinture e bretelle a campanellini, graditi alla direzione. E naturalmente il problema si pone e si porrà, probabilmente in modo meno clamoroso ma più grave, quando di fronte all’onnipotente Simon Property Group (manager del Maine Mall e di altri trecento circa negli USA) dovessero porsi non le campanelle dei temperanti, ma i banchetti di una raccolta firme sgradita, o un volantinaggio sindacale, uno spettacolo di strada … insomma tutto quanto fa parte integrante della corrente vita urbana, in qualunque strada o piazza.

Ma davvero questo tipo di vita urbana è “corrente”? Fino a che punto gli spazi a vario grado di formalizzata privatizzazione del centro commerciale si sono già sostituiti a quelli della città? Ad un punto preoccupante in alcune situazioni, di cui ancora il Maine Mall offre un intero campionario. Basta scorrere i dati sull’argomento nello strumento urbanistico generale di South Portland, la circoscrizione municipale di 25.000 abitanti che “ospita” fisicamente questa articolata struttura commercial-terziaria di scala regionale, che è la principale fonte di occupazione locale12. E poi le lamentele degli espliciti oppositori alla sua continua crescita.

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Foto F. Bottini

Enormi investimenti pubblici per migliorare le infrastrutture di accesso metropolitano e di comunicazione interna, congestione da traffico, difficoltà per la pianificazione locale ad impostare una politica di mixed use che spezzi il blocco monofunzionale di un enorme settore urbano (il piano urbanistico si limita, timidamente, al mantenimento di un quartiere residenziale a bassa densità sulla fascia esterna orientale). E parallelamente, la crisi verticale del distretto commerciale metropolitano tradizionale esistente, Greater Portland Downtown, con la crescita dei vuoti, degli edifici sfitti, e dell’insicurezza, della criminalità … C’è anche chi invita addirittura a “fare libero shopping in città, anziché farsi spiare dal Grande Fratello”13, riferendosi alle telecamere della sicurezza, che discutibilmente spiano i clienti in ogni anfratto del mall, e con la scusa della sicurezza invadono la privacy. Come sempre accade (Esercito della Salvezza a parte) le truppe che si fronteggiano in campo sono come al solito alcuni cittadini, una parte dell’amministrazione locale, e sull’altro fronte la grande impresa proprietaria e/o di gestione del distretto commerciale. A South Portland c’è il gigante Simon.

Simon Property Group, Inc., è una compagnia con quartier generale a Indianapolis, Indiana, con investimenti orientati principalmente alla acquisizione e/o gestione di spazi commerciali, in primo luogo malls di scala metropolitana e regionale, o shopping centers di dimensioni urbane. Attraverso proprie articolazioni o in forma associata, possiede o ha interessi in poco meno di 300 proprietà, per una superficie commerciale lorda di circa 20 milioni di metri quadrati in 37 stati USA, oltre ad altri interessi vari di tipo immobiliare14.

Simon, tra le altre moltissime cose, è anche la mano non troppo nascosta che ha rimescolate le fantasie nostalgiche sui due malls gemelli di Little Rock, di cui si è accennato nei ricordi degli ex bambini clienti. Nel racconto dei due protagonisti/conformisti il nuovo centro commerciale più grande e suburbano, che desertificava i due esistenti, era visto come una specie di ineluttabile destino. Di diversa opinione gli inferociti comitati di residenti, poco inclini a vedere degrado locale e perdita di servizi, solo a causa delle strategie territoriali della Simon Goup di Indianapolis, e del suo dannato, obsoleto e ingombrate Summit Mall: “una brutta idea, un concetto superato. Nelle città davvero moderne fioriscono sistemi commerciali aperti e rivolti soprattutto ai pedoni, non mega-malls. E questi nuovi spazi sono adattissimi anche alle auto, perché si può anche parcheggiare vicino ai negozi che interessano”15.

Recitava con licenza poetica John Donne nel suo brano più famoso: “Every man is a peece of the continent, a part of the maine”. E qui la sua licenza poetica casca a fagiolo, perché aver usato “maine” anziché “main” per dire “il tutto”, ci può far tradurre con altrettanta licenza “Ogni essere umano è parte del Maine”. Anche noialtri, che so, di Merate ai piedi delle colline moreniche, o di San Rocco al Porto sulla sponda lombarda del Po, o di Roncadelle appena a sud della tangenziale di Brescia, tanto per citare a memoria, siamo un po’ parte del Maine, e soprattutto delle sue rogne con Simon Property Group. Perché come ci informava discretamente il bollettino di Wall Street dello scorso 17 novembre 2003, si era finalmente trovato “Un socio americano per la Rinascente nella proprietà e gestione di centri commerciali”. Ovvero i gruppi Rinascente e Simon annunciavano di aver firmato l’accordo per una joint venture riguardante la proprietà, gestione, realizzazione di shopping malls in Italia, attraverso una società denominata Gallerie Commerciali. Si parte da 38 centri commerciali già esistenti ed operanti, su circa 250.000 metri quadrati, e da parecchi progetti in vari stadi di realizzazione o progettazione, per altri circa 450.000. Letteralmente: “La società ha lo scopo di consolidare una posizione di leadership sul mercato nazionale, attraverso il contributo in risorse e in know-how da parte del nuovo socio americano” 16.

Simon Says: Ciao Italia!” Così titola, un paio di giorni dopo l’annuncio, una rivista specializzata, specificando che il maggior gruppo americano ha intenzione di “svilupparsi lungo tutto lo stivale”, nel quadro dell’espansione europea e globale di tutti i grandi operatori. “La mossa di Simon è indice di una più ampia tendenza fra le compagnie immobiliari U.S.A., che mostrano un nuovo interesse per le proprietà europee. Nel passato, questo tipo di investimenti era giudicato troppo costoso”17. Il consumatore continuerà a vedere i marchi familiari, rappresentati in questo caso soprattutto da Auchan, il principale anchor delle gallerie commerciali targate Rinascente. Per capire se e quando è cambiato qualcosa, basterà forse andare con una campana davanti all’ingresso principale di Merate, San Rocco al Porto, Roncadelle o chissà dove, e vedere cosa succede, e vedere se siamo diventati tutti “parte del Maine”18.

Va precisato che, come osservava qualche anno fa a questo proposito uno studioso americano, il territorio europeo sarebbe più solido e resistente rispetto ai processi di sprawl (grande distribuzione extraurbana inclusa), perché le città avrebbero consolidato forme e funzioni assai prima dell’era dell’automobile, e comunque l’azione congiunta dell’identità locale e dell’azione pubblica dovrebbe far sì che si evitino gli scempi ambientali generati altrove dall’aumentato rapporto fra crescita demografica e consumo di suolo19. Credo sia comunque opportuno non dimenticare, dopo questa rassegna di vari fatti e opinioni, che la frase di John Donne citata sopra è quella scelta da Hemingway per il suo titolo, e che si conclude notoriamente con: “non mandare a chiedere per chi suona la campana: suona per te”.

La globalizzazione e l’Italia

Del resto, come già accennato, non c’è solo Simon a volare alto sui cieli d’Europa e d’Italia a scrutare i nodi strategici del territorio e della finanza, per collocare fruttuosamente i propri investimenti. Il problema ovviamente non è tanto un’improbabile e piuttosto ridicola autarchia commerciale, quanto che la globalizzazione di questo tipo di attività porti con sé elementi per i quali non siamo ancora forniti di sufficienti anticorpi: culturali, normativi, istituzionali e sociali. Uno dei temi principali è quello già rilevato per il territorio USA, della crescita esponenziale delle dimensioni dell’insediamento commerciale, che nel caso italiano vede la comparsa, proprio tramite un operatore internazionale, di un mall di taglia standard. Il fatto è che quello standard è tutto fuorché standard, da noi.

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Foto F. Bottini

Come scopriranno (con più o meno piacere) ad esempio i residenti dell’area metropolitana di Napoli quando si aprirà il centro commerciale “Campania” a Marcianise: 100.000 metri quadrati, un supermercato Carrefour a fare da anchor store, un cinema multisala e altri servizi. Dimensioni del genere, abbastanza tipiche in Gran Bretagna, Francia o Germania, sono decisamente nuove per l’Italia dove gli operatori internazionali stanno solo da poco iniziando a penetrare decisamente il mercato, e a orientarsi nelle particolarità sociali, territoriali, di consumo e normative20.

Secondo gli esperti del settore, sinora il contesto italiano non è stato molto favorevole a questo tipo di sviluppo per la relativa difficoltà a rapportarsi con le istituzioni. E questa condizione di “fanalino di coda” europeo appare a molti piuttosto curiosa se si considera che la Galleria Vittorio Emanuele di Milano, attiva dalla seconda metà del XIX secolo, è spesso citata da studiosi e progettisti come ispiratrice dell’enclosed mall moderno. I primi veri e propri centri commerciali italiani nel segno dell’automobilismo contemporaneo sono di poco successivi al ’70, concentrati nell’area padana, ma ancora alla seconda metà degli anni Ottanta a livello nazionale sono operativi solo quaranta shopping centers con superficie maggiore di 5.000 metri quadrati; a cavallo fra anni Ottanta e Novanta inizia comunque una accelerazione dello sviluppo, e ora l’Italia ha decuplicato la sua quota, con 430 centri per un totale di circa sette milioni di metri quadrati. Ma per una popolazione nazionale di circa 58 milioni di persone, questo significa poco più di 0,1 metri quadri di centro commerciale pro capite, contro i circa 0,2 degli Stati Uniti, poco meno per Regno Unito e Francia, 0,14 per la Germania. In più, come già spiegato, la maggior parte dei centri italiani sono piccoli secondo gli standard del Nord America (ovvero la cultura progettuale e di investimento globalizzata), per penuria di operatori della grande distribuzione che facciano da anchor stores, e per la collocazione in maggioranza urbana o nelle immediate cinture periferiche. Solo 16 insediamenti superano i 43.000 metri quadri.

Non sorprende, che questo deficit di centri commerciali in Italia (almeno rispetto alle medie dei paesi a redditi confrontabili) stia attirando l’attenzione degli operatori immobiliari commerciali di tutta Europa e Nord America, alcuni dei quali iniziano a trovare i mercati di Gran Bretagna, Francia e Germania sempre più saturi.

Il Campania di Marcianise è solo uno dei più di 75 nuovi centri che potrebbero aprire i battenti entro il 2006, ancora con una certa prevalenza della parte settentrionale del paese, perché i maggiori livelli di reddito pro capite tendono a far privilegiare almeno in prima istanza (gli investimenti per un centro commerciale sono ovviamente identici al nord come al sud) bacini a maggior capacità di spesa. Prendono il via trenta o quaranta nuovi progetti ogni anno, e si moltiplica, amplia e articola la presenza delle imprese internazionali sul territorio italiano, che comprende ora sia i tradizionali soggetti da tempo impegnati nel settore, sia partecipazioni di tipo esclusivamente finanziario, si società nuove ad hoc. Gli insediamenti si diversificano nei tipi e contemporaneamente diventano più grandi per ospitare punti vendita di molte catene internazionali sinora assenti, e anche per contenere gli edifici di tipo big-box21 che sempre più spesso si accoppiano al tradizionale mall.

Questo il punto di vista degli investitori. Resta da verificare ovviamente quello degli investiti dalle nuove masse edilizie, dall’organizzazione dei nuovi spazi, dai loro effetti sul territorio vasto, dagli influssi sui comportamenti e sulla socialità in genere, di quanto è stato definito anche “clonazione e istituzionalizzazione del mall, il fottutissimo centro commerciale all’americana”22. Certo la realtà è molto più prosaica di quando, poco dopo l’inaugurazione del mall di Southdale progettato da Victor Gruen, gli urbanisti italiani nell’estate 1955 ascoltavano in un convegno a Ischia – presumibilmente rapiti – il collega d’oltreoceano Douglas Haskell descrivere l’ambiente commerciale rutilante della Roadtown USA, dove la vita scorreva apparentemente veloce e inarrestabile (e a prima vista senza nessuno dei problemi previsti vent’anni prima da Benton MacKaye), sulle ruote dei nuovi eroi motorizzati, dentro e fuori da chioschi, diners, drive-in, parchi a tema e chi più ne ha più ne metta23.

E in questi anni sembra che la ricerca, il progetto, la riflessione, nel nostro paese si siano tenuti abbastanza alla larga da questi problemi, mentre con più o meno intensità gli effetti si manifestavano sul territorio nazionale: “i grandi manufatti del commercio sono diventati tematiche su cui urbanisti e architetti di qualche nome si sono guardati bene dall’avventurarsi”24.

Con queste premesse, la nuova organizzazione territoriale del commercio nel nostro paese dovrebbe auspicabilmente promuovere e favorire:

trasparenza, concorrenza, libertà, nei mercati e nella circolazione delle merci;

tutela del consumatore, informazione, facile accesso a servizi commerciali sempre più efficienti, vicini, sicuri;

modernizzazione, efficienza, sviluppo della rete distributiva; sua evoluzione tecnologica e organizzativa a favorire prezzi più bassi;

presenza di un ampio numero di operatori, ed equilibrio tra tipologie distributive, valorizzando anche il ruolo delle piccole e medie imprese;

valorizzazione e salvaguardia di servizi commerciali nei territori di tipo urbano, rurale, montano25.

Una sfida complessa, con una controparte/potenziale alleato che spesso viene socialmente percepito anche in questi termini: “La riflessione sui centri commerciali ci deve far suonare diversi campanelli d’allarme: non piacciono solo ai giovani ma anche agli adulti, anziani, bambini;[sono] un gioco astuto: entriamo con una domanda per una cosa e ci ritroviamo con altre mille;sanno accontentarci nei nostri gusti; non gli interessi te ma il tuo soldino”26. Ecco, laicamente non andrebbe mai scordato che, documenti promozionali a parte, lo scopo del commercio e dei suoi grandi contenitori suburbani non è la libertà, o la concorrenza, o lo sviluppo e tutela del territorio metropolitano o rurale, ma “il tuo soldino”. A inseguire altri scopi, dobbiamo ahimè pensarci da soli, magari insieme alle istituzioni che ci siamo dati27.

Conclusioni

Sembrerebbe anche iniziare a delinearsi una strada per realizzare l’auspicata Alleanza tra Commercio e Territorio28.

In altre parole, da un certo punto di vista tutto si tiene: il quadro regionale e/o della cooperazione intercomunale a stabilire alcune regole generali di carattere soprattutto ambientale; la pianificazione generale cittadina a inserire le strategie dei grandi operatori commerciali entro un quadro di sviluppo condiviso della comunità; gli standards e linee-guida progettuali a definire a scala di zona ruoli, compatibilità, sinergie dei complessi e contenitori commerciali rispetto alle residenza, alle altre attività, alle reti stradali e di trasporto.

Tutto si tiene, appunto, ma solo da un certo punto di vista: il punto di vista professionale, soprattutto della cultura new urbanist, o le proposte in positivo di quanti sia nel campo commerciale che in quello immobiliare invocano una smart growth, che però assume direzioni e forme cangianti, a volte contraddittorie, a seconda di chi se ne fa paladino.

Il panorama generale, oltre l’approccio necessariamente positivo del mondo professionale, sembra più vicino a quello delineato dal National Trust, con la proposta di nominare l’intero stato del Vermont “area minacciata” dagli scatoloni di Wal-Mart. In una vignetta di qualche anno fa, un automobilista sperduto fra i parcheggi di enormi e specializzatissimi big-box, guarda sconsolato la grande insegna al neon che gli sta sopra la testa: SOLO PINZETTE. Un passante con carrello stracolmo gli dà un’indicazione: “Il megastore dei tagliaunghie sta due centri commerciali più a nord”29.

La vignetta si rivolge al pubblico nordamericano, ma credo sia ormai evidente a tutti la dimensione internazionale del problema, ovvero il fatto che gli operatori del commercio (insieme al resto delle attività economiche) agiscono in un quadro di globalizzazione, che ad esempio per l’Italia vede proprio nei primi anni del nuovo secolo un radicale mutamento di strategie, con le insistenti voci sull’ingesso di Wal-Mart nel mercato nazionale, l’avvenuto accordo col gruppo Simon per le Gallerie Commerciali Rinascente/Auchan, e gli altri vari progetti di riordino societario e insediativi30.

Del resto, anche secondo i più recenti studi comparativi di pubblicazione italiana, esiste una quasi perfetta corrispondenza di cicli tipologici, socioeconomici e insediativi, fra il contesto nordamericano, quello degli altri paesi europei e l’Italia, semplicemente articolato nel tempo. Un quadro in cui la fase di grande ascesa dello shopping mall territoriale nel brodo di coltura della suburbanizzazione USA, e conseguente declino (commerciale e di ruolo) delle aree centrali si colloca a cavallo della metà del Novecento, mentre gli stessi processi sembrano ripetersi nei tratti fondamentali a distanza di 10-20 anni nel vecchio continente31, e ci si può aspettare ragionevolmente una simile tendenza in altri paesi, come Asia e paesi ex socialisti del centro Europa.

Il panorama di carattere generale presentato qui, ha tenuto certo conto del fatto che esiste una tendenza alla “attenuazione del dualismo tra centro e periferia nel senso che le varie potenzialità commerciali sviluppano forme di specializzazione e di offerta differenziate e diversamente attrattive nei confronti di un’utenza molto mobile e in grado di accedere in modo selettivo e mutevole ai diversi sistemi”32. Nello stesso tempo, la sclta della prospettiva di osservazione ha privilegiato gli aspetti suburbani, dell’insediamento diffuso, che non solo storicamente hanno innescato il fenomeno dell’evoluzione commerciale insediativa, ma che spesso sembrano rappresentare una componente irrinunciabile delle strategie di sviluppo delle imprese33, e insieme un punto critico per quelle sociali e ambientali, e rispondono alla questione: quale territorio vogliamo?

La risposta sembrerebbe persino banale: un territorio che, come sempre avvenuto, possa ospitare in modi compatibili la formazione ed evoluzione del pensiero individuale e collettivo, nonché dei suoi modi di esplicitazione fisica. Tuttavia, è stato osservato che proprio in questo ambito, e proprio nel caso dell’insediamento diffuso italiano, “la minaccia maggiore a questi palpiti di vita locale … è rappresentata dai grandi centri commerciali, dai supermercati e ipermercati che si pongono come fondamentali fattori del vivere d’oggi”34.

Che fare? Questa rassegna di casi ed esperienze, non proponendosi come testo di urbanistica commerciale, non può e non vuole suggerire soluzioni, almeno non più di quanto implicitamente inteso nelle sequenze di casi e problemi esaminati. Resta, l’obiettivo di approfittare il più possibile delle opportunità offerte dai nuovi modi di uso dello spazio metropolitano e regionale, ferme restando le cautele di carattere sia ambientale che sociale su cui si è più volte tornati: “muoversi all’interno di territori sempre più ampi, a percorrere quotidianamente itinerari di viaggio che connettono trasversalmente sempre più numerosi e differenti luoghi di sociabilità, a costruire complesse catene”35.

Complesse catene che evidentemente non sono riducibili alla triade live- work-shop frammentata nello spazio e nel tempo, almeno come spesso l’esperienza quotidiana ci suggerisce, nella transumanza automobilistica coatta in cui ho tentato di coinvolgere il lettore. Ma credo ci fosse già abituato.

Resta, la necessità di fare l’abitudine ad un rapporto fisiologicamente più conflittuale, a livello meno localistico, fra società e impresa commerciale. Perché pare, e non da oggi, che solo dai conflitti nascano le innovazioni, in questo come in altri campi.

(fine della seconda e ultima parte, qui la prima parte anche per alcuni riferimenti in nota «cit.»)

NOTE
1 New Urbanism è un termine assai in voga da alcuni anni negli USA e non solo. Rappresenta una posizione culturale e professionale di rilievo, che a partire dalle considerazioni della smart growth (crescita sostenibile) individua nello sprawl suburbano e nella decadenza dei centri città i segni di una crisi sociale e ambientale di più ampia portata, e propone soluzioni per quanto riguarda il campo dell’architettura e dell’urbanistica, basate su alcuni criteri di massima, come una maggiore accessibilità pedonale (contro la monocultura automobilistica), l’aumento della densità locale (per rendere più economica la fornitura dei servizi), gli insediamenti a usi misti (contro la schematicità e segregazione dello zoning tradizionale). Un “manifesto” del New Urbanism è ad esempio il complesso per vacanze di Seaside, nella Florida Panhandle, progettato negli anni ’80 dallo studio DPZ di Andrés Duany e Elizabeth Plater-Zyberk, e reso noto in tutto il mondo dal film The Truman Show, che l’ha utilizzato come sfondo della “comunità ideale” americana. Il movimento è organizzato in un Congress for the New Urbanism, e pubblica una rivista, New Urban News.
2 Cfr. Congress for the New Urbanism, Greyfields into Goldfields – From failing Shopping Centers to Great Neighborhoods, 2001
3 Sarah Max, Malls: Death of an American icon. The shopping mall is headed the way of the drive-in movie and the eight-track. What’s replacing it?, CNN/Money, 24 luglio 2003
4 Charette è un termine utilizzato per definire una serie più o meno complessa di incontri pubblici e gruppi di lavoro per la progettazione di quartiere partecipata. Il nome deriva da una tradizione della Ecole de Beaux Arts parigina, quando gli elaborati di architettura si ammucchiavano su un “carretto” per essere poi portati all’esame della commissione giudicatrice.
5 Richard Bailey, “Mall Over. A retail hybrid helps to revitalize an inner suburban ring in Chattanooga, Tennessee”, Urban Land, luglio 1998
6 Ross Atkin, “The Good … The Bad … And the Ugly”, The Christian Science Monitor, 14 marzo 2001
7 Christopher Swope, “After the Mall”, estratto dal numero di Governing’s dell’ottobre 2002, dal sito Municipal Research and Service Center ; per la cronaca, la canzone di Joni Mitchell citata dal presidente della commissione urbanistica è Big Yellow Taxi (1970), They paved paradise / And put up a parking lot / With a pink hotel, a boutique / And a swinging hot spot. Un perfetto ambiente da insediamento commerciale.
8 Matt Valley, “The Remalling of America – sales slump at malls – Statistical data included”, National Real Estate Investor, maggio 2002
9 Lee Kessler, Tacoma Suburb Cheers Mall Replacement, International Council for Shopping Centers, settembre 2003
10 Per una breve rassegna generale dei principi della smart growth (crescita sostenibile), più volta già citata in queste note, si può fare riferimento al sito, sponsorizzato anche dalla Environment Protection Agency federale, o anche alle informazioni “mirate” sul sito della American Planning Association, citato di seguito.
11 Ad esempio, il programma di politiche generali per lo sviluppo locale sostenibile della Suffolk County (New York), contiene tra le specifiche raccomandazioni per rafforzare l’identità locale: “Localizzare tutti i nuovi uffici municipali in centri esistenti. La contea potrebbe iniziare a collocare tutte le proprie strutture di uffici in nuclei abitati, invece che in immobili industriali o centri commerciali, anche allo scopo di rafforzare le attività economiche centrali”, Suffolk County Planning Department, Smart Growth Policy Plan, ottobre 2000
12 South Portland Comprehensive Plan, Adopted July 20 1992, Certified by State of Maine January 1 2001, Sezione 4, Future Land Use, n. 7 Maine Mall Area, pp. 28-29; Sezione 5, Policies and Transportation, Maine Mall Area, pp. 51-53
13 Rob Goodspeed, “The Maine Mall? Hardly! Four reasons the Maine Mall is bad for Maine”, Goodspeedupdate, 23 dicembre 2002 ; anche se si tratta con ogni probabilità di poco più di un blog localista¸ il testo appare piuttosto documentato sia sul modus operandi Simon (che come Wal_Mart ha cattiva fama in tutti gli USA), sia su alcuni principi base di tipo smart growth.
14 La fonte principale delle informazioni è il sito ufficiale della Simon 
15 Max Brantley, Assault on the Summit, Periodico online di Little Rock, Arkansas, 1 marzo 2002.
16 Simon Property Group, News Release – 11/17/2003 An American Partner for Rinascente for the Ownership and Development of Shopping Malls
17 “Simon Says: Ciao Italia!”, Retail Traffic (Where Real Estate, Retail and Development Meet), 19 novembre 2003.
18 Un po’ più seriamente, il quadro delle strategie Simon/Rinascente è ben riassunto nell’intervista agli amministratori delegati Cobolli Gigli e Lheureux, pubblicata dal Sole 24 Ore, 21 giugno 2004, p. 9.
19 Cfr. Alex Marshall, “Eurosprawl”, Metropolis, gennaio-febbraio 1995; disponibile anche al sito dell’Autore
20 Notizie e dati sulle tendenze dell’investimento internazionale nei grandi centri commerciali in Italia, sono tratti dal rapporto Italian Shopping Centers, elaborato dalla Cushman & Wakefield Healey & Baker di Londra nel 2002, così come riassunto in Debra Hazel, “Italy attracts foreign mall developers”, cover story dell’aprile 2004 sul sito International Council for Shopping Centers
21 Il formato commerciale big-box, a cui è completamente dedicata la terza parte di questo testo, è stato definito così: “Una grossa, gigantesca struttura priva di finestre, di solito costruita con materiali di bassa qualità, e situata nei pressi di una grande arteria o di uno svincolo autostradale ad alto volume di traffico”. Dolores Hayden, A Field Guide to Sprawl, Norton & Co., New York 2004, p. 24. In Italia (anche se il caso italiano non è preso in considerazione da queste note) la tipologia è rappresentata, ad esempio, da Castorama, MediaWorld, Ikea, ecc. ovvero i contenitori commerciali autonomi, a volte affiancati allo shopping mall.
22 ChainCrew, Chainworkers – Lavorare per una Grande Catena, s.d.; da webzine dei giovani precari delle grandi catene.
23 Douglas Haskell, Roadtown USA/La città strada degli Stati Uniti, Atti dell’Incontro Italo-Americano sulla pianificazione urbana e regionale, Ischia 20-30 giugno 1955. Materiale inedito, Università IUAV di Venezia, dipartimento di Urbanistica, fondo archivistico Giovanni Astengo, conservato presso l’Archivio Progetti della stessa Università.
24 Luca Pellegrini, presentazione a: Luca Tamini, Il governo degli insediamenti commerciali … cit. Anche il Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sembra, con qualche raffinatezza dialettica in più, sostanzialmente della stessa opinione; Cfr. Paolo Avarello, prefazione a: Corinna Morandi (a cura di), Il commercio urbano.Esperienze di valorizzazione in Europa, Libreria Clup, Milano 2004.
25 Sintesi mia, ma abbastanza letterale, delle finalità generali contenute all’Art. 1 del Decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, noto anche come “Decreto Bersani”, dal nome del Ministro responsabile.
26 Animare i ragazzi nel tempo libero, Pastorale per gli oratori della Diocesi di Treviso, s.d.
27 Del resto, anche gli studiosi più orientati a sostenere un ruolo attivo e positivo per il territorio delle attività commerciali, ricordano pur sempre che anche quando le imprese spendono risorse in questa direzione “their willingliness to pay does not demonstrate an enduring civil commitment. Put simply, it represents a long-term investment in their business and property. Motivations aside, they have resources”, Lorlene Hoyt, “Collecting Private Funds for Safer Public Spaces: An Empirical Examination of the Business Improvement District Concept”, Environment and Planning B, maggio 2004.
28 Riprendo ovviamente il titolo – e lo spirito – dello studio di Grazia Brunetta e Carlo Salone sull’impatto dell’Outlet di Serravalle Scrivia, cit.
29 Vignetta © King Features Syndicate, riportata da “Big Box Retail”, OSPlanning Memo … cit.
30 Cfr. Debra Hazel, “Italy attracts foreign mall ..” cit.
31 Cfr. Gianfranco Moras, Giovanna Codato, Elena Franco, L’approccio integrato alla qualificazione urbana. Modelli e strategie di urbanistica commerciale, Celid, Torino 2004. Contiene anche contributi di altri Autori internazionali su casi significativi. Il Cap. IV dedicato al caso USA riprende tra l’altro, da una prospettiva differente, alcuni testi della cultura new urbanism citati in queste note.
32 Corinna Morandi, Riqualificazione urbana e valorizzazione commerciale, in C. Morandi (a cura di), Il commercio urbano … 2004, cit., p. 14.
33 Si pensi al doppio approccio della Sonae Imobiliaria, con la rivitalizzazione urbana a Brescia e l’insediamento suburbano a forte impatto di fianco alla Certosa di Pavia, raccontato nel capitolo introduttivo. Ma anche a strategie simili, come quelle degli operatori big-box nelle zone ex industriali, e contemporaneamente nelle frange più esterne non urbanizzate, ecc. ecc.
34 Eugenio Turri, La Megalopoli Padana, Marsilio, Venezia 2000, p. 111.
35 Stefano Munarin, Chiara Tosi, Tracce di Città. Esplorazioni di un territorio abitato: l’area veneta, Franco Angeli, Milano 2001, p. 137.

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