Spesso si giustificano i tagli al sistema sanitario con i vincoli imposti dalle risorse economiche limitate, senza però chiedersi mai (né chi taglia, né chi chiede di non tagliare) cosa diavolo voglia dire sistema sanitario. Ogni tanto giustamente si lamenta l’eccesso di “medicalizzazione” che per il caso italiano, ma non solo, riassume un’idea diffusa, accettata, ma del tutto distorta, degli obiettivi del welfare. Attenzione: del welfare, non del sistema sanitario, il quale sistema sanitario a ben vedere non avrebbe alcuna autonomia se non continuasse a ruotare attorno alla sola professione medica e alle sue logiche interne, del tutto rispettabili ma anche del tutto parziali, logiche che in fin del conti portano quasi automaticamente a privilegiare la cura o la prevenzione in senso stretto rispetto allo stile di vita più generale, l’ospedale o l’ambulatorio rispetto alla città e al territorio.
Per comprendere meglio il senso di questa distorsione, invece di prendersela con le carenze forse risulta più efficace guardare al resto, o almeno al modello a cui si dovrebbe ispirare il resto. Si pensi ad esempio che l’urbanistica (si, proprio l’insieme di regole per le abitazioni, le strade, gli arretramenti eccetera) nei paesi che nel dopoguerra fanno del moderno stato sociale il proprio fiore all’occhiello per un progetto di ricostruzione nazionale civica ed equa, si vanta di star fianco a fianco agli obiettivi di salute, istruzione, occupazione eccetera. Certo la cosa funziona più a parole che in pratica, è un’ottima intenzione più che una realtà tangibile: ad esempio per tutto l’arco del programma New Town in Gran Bretagna, medici psicologi e sociologi lamentano la relativa emarginazione del proprio contributo alla definizione degli spazi urbani e di quartiere, o delle qualità di alloggi e ambiti collettivi magari basati ancora su ricerche socio-sanitarie a cavallo fra XIX e XX secolo. Ma non possiamo ad esempio dimenticare come anche in Italia molte delle professioni sociali moderne trovino il loro brodo di coltura esattamente nei progetti urbanistici dei “villaggi Fanfani”, ad assistere localmente il processo di urbanizzazione di tanti ex contadini appena diventati operai, e delle loro famiglie.
Ma una certa idea piuttosto meccanica di progresso, così come spinge architetti e urbanisti a specializzare il proprio contributo, a chiuderlo dentro a recinti abbastanza angusti di obiettivi e metodi, al tempo stesso chiude e enfatizza anche gli altri apporti, magari lusingandoli con nuove mete professionali. E anche l’evoluzione della città si ritrova così a dipendere solo da alcune, poche voci isolate, pur di grande rilevanza: dai giornalisti William Whythe o Jane Jacobs per la qualità degli spazi pubblici e della partecipazione, a Kevin Lynch sulla percezione degli ambiti urbani, o al nostro Antonio Cederna per il rapporto fra paesaggio monumenti e identità, e non moltissimi altri. Ma una delle critiche più decise emerge dalla piega assurda assunta via via da un altro aspetto dell’urbanistica, quello riguardante i trasporti: qui il mito ingegneristico della efficienza e della velocità, che già permeava di sé il concetto di città razionalista, contribuisce via via a rendere pericolose le strade, segregati i quartieri, e come si scoprirà poi sempre più inquinate l’aria e l’acqua. Insieme alla nuova sensibilità ambientale, torna anche l’enfasi sulla salute, prima dentro la fabbrica o comunque legata al lavoro, poi estesa all’idea di territorio abitabile.
Questa, in soldoni, l’idea contemporanea di “prevenzione”: così come gli incidenti stradali non si limitano più costruendo barriere, ma eliminandole e favorendo integrazione fra le modalità di spostamento a bassa velocità, allo stesso modo si persegue buona qualità della vita non cercando cure alle malattie urbane (non solo, almeno), ma eliminando per quanto possibile alla radice le cause di quelle malattie. E mettere questo obiettivo piuttosto facilmente valutabile della salute, può avere effetti straordinari sulle politiche, così come avvenuto per certi criteri ambientali come le emissioni, o i consumi energetici. Significativo quindi che dalla California, da sempre abbastanza all’avanguardia da questo punto di vista, sia arrivata non molto tempo fa una specie di automatica estensione della Legge 375 sulle città sostenibili voluta da Schwarzenegger: il programma Città Sane della American Lung Association.
Il criterio è quasi brutalmente semplice, e fa piazza pulita di certi discorsi sui costi della sanità: le malattie, certe malattie, non dipendono dal destino cinico e baro, ma dal frequentare certi ambienti inquinati e malsani; ogni centesimo investito nel cambiare questi ambienti è risparmiato sull’altro fronte. E non si tratta di “spesa” in senso stretto, ma soprattutto di far tornare quegli obiettivi di benessere dentro i correnti criteri di progettazione urbana e infrastrutturale. Alla lettera: “Adottando i criteri di una città sostenibile, le amministrazioni possono trasformare i quartieri in luoghi salubri per abitare, lavorare, studiare, trascorrere il tempo libero. Un’urbanistica che metta in primo piano spazi densi e multifunzionali in cui è possibile spostarsi a piedi, in bicicletta o coi mezzi pubblici, significa riduzioni significative nei danni apportati dall’inquinamento da traffico alla respirazione. Questo nuovo criterio è assolutamente indispensabile, occorre privilegiare gli investimenti per la mobilità alternativa e quartieri che la sostengano”. Più chiaro di così.