Ogni tanto qualcuno esagera sul serio, e si capisce meglio quanto di norma esageriamo mediamente tutti, nel semplificare esageratamente le cose. Un ottimo esempio lo forniscono in questi giorni le discussioni sui disastri delle piogge autunnali, soprattutto nella versione “io l’avevo detto” più nazionalpopolare e in voga, ovvero ispirata alla cosiddetta natura vendicatrice. Difficile scorrere le selvagge praterie dell’informazione online senza inciampare a ogni piè sospinto in qualche torrenziale simil-riflessione del genere, la cui allegra pazzia forse si coglie ancor meglio accostandola alle pazzie minori, ovvero quelle cosiddette storiche. Perché c’è chi, pescando magari qui e là direttamente da web, confeziona sistematici rapporti tali da cogliere (secondo l’autore, ovviamente) in pieno il bersaglio: tutta la colpa dell’alluvione sta in questo o quell’altro progetto, precississimo, individuabile. Il che serve magnificamente da cortina fumogena, fitta fitta, per non vedere l’ovvio, ovvero che il tale quartiere di epoca fascista, o il discutibile condotto che gira di lì anziché di là, non si possono ritagliare dalla storia come un modellino di cartone.
Strabismo masochista
Accade infatti, come logico e prevedibile in fondo, che di sicuro esistano delle cause, a monte dei disastri, ma che (esattamente come i disastri stessi, molto compositi) anche solo prendendole davvero una per una con attenzione, emerga la complessità. C’è il condotto sbagliato, magari, ma a sua volta quel condotto proprio sbagliato non è, se si calcolano certi fattori esterni, o magari condizionamenti dell’epoca, o assenza di risorse, o di informazioni. Per esempio a Genova, giusto datare più o meno al periodo fascista molte trasformazioni che ora impediscono lo sfogo delle acque piovane, ma da lì a dire che la “colpa” dell’alluvione sia da ricercare nell’urbanistica fascista, in qualche implicita carenza scientifica magari connaturata al sistema totalitario, finisce per ridicolizzare anche l’antifascismo serio, o certa urbanistica successiva che su quegli errori si è formata e riformata. Ecco: se si intuisce abbastanza facilmente l’errore di questo approccio storico improprio e parziale, forse si arriva anche a immaginare l’enormità di quello per così dire preistorico, pure diffusissimo, che tuona (ahimè a volte pure ascoltato) è la natura violata che si vendica, altro che, dobbiamo buttare alle ortiche il nostro mondo moderno e – più o meno – tornarcene sulle piante a tirare noci in testa ai passanti.
Ma non ci sono più le piante su cui arrampicarsi
Il fatto è che, natura ferita che si vendica o meno, su noialtri scimmie nude con la passione dell’edilizia nel posto sbagliato, quella natura a cui andare o tornare non c’è più. E non si può resuscitarla esattamente come non si può cancellare con la gomma il quartiere mal progettato o il condotto che scarica male le acque piovane. Quando si parla di urbanizzazione del pianeta, ad esempio, ci si riferisce, proprio, a un processo irreverrsibile, anche se ampiamente modificabile rispetto alle modalità attuali ad alto impatto: però gli impatti passati ci sono e in un modo o nell’altro ce li teniamo. Perché si tratta di un tale intrico nel tempo, nello spazio, anche nelle percezioni e prospettive, da essersi per così dire connaturato: noi siamo la natura e viceversa, niente da fare. Ovvero, alla base di qualsiasi discussione e riflessione che metta in campo il cosiddetto ambiente, il nostro rapporto con l’ambiente, il territorio, l’energia, le risorse, la città e la campagna con le loro trasformazioni, deve stare un neologismo: antropocene. A certificare, scientificamente parlando, che dai e ridai e ridai ancora, ce l’abbiamo fatta (ci piaccia o meno) a mettere il marchio su un’era terrestre. Speriamo di durare altrettanto, cercando di capirla meglio di quanto non si stia facendo oggi. Serve moltissimo, dicono.
Riferimenti:
Ian Sample, Anthropocene: is this the new epoch of humans? The Guardian, 16 ottobre 2014