Non si pretende certo che chi ha una prospettiva limitata di osservazione su un certo fenomeno o problema, debba improvvisamente e forzosamente cambiarla. E per un motivo facilmente intuibile, ovvero che tutti, nessuno escluso, hanno in un modo o nell’altro questa «prospettiva limitata»: vuoi dall’esperienza personale, vuoi dalla formazione culturale, vuoi dal ruolo occupato oggi o in passato nella società. E si tratta di una prospettiva limitata ma perfettamente legittima, di valore: il contadino sulla qualità dei suoi prodotti, poniamo, o il ricercatore sulla indiscutibilità di certi suoi dati, o il cittadino sul posto in cui vive ogni giorno. Meno legittimo, invece, proiettare questa visione, così com’è e senza soluzione di continuità, su un campo assai più vasto, anche se spesso viene spontaneo farlo. «Io faccio così, io mi trovo bene così, perché non può adeguarsi il resto del mondo?». Suona più o meno in questo modo, il ragionamento che porta il coltivatore a immaginarsi anche gli scaffali del supermercato organizzati al meglio per accogliere i suoi ottimi prodotti (e pagarli anche meglio di quanto non avvenga ora), o il ricercatore quasi pretendere che tutta la ricerca adotti i suoi infallibili metodi, o l’abitante di un quartiere fare le barricate di fronte a trasformazioni che ne «cancellerebbero l’anima», vuoi nella sua memoria, vuoi in certi aspetti di qualità della vita.
Sovranità limitata
Come ha imparato a proprie spese chiunque si sia cimentato vuoi nei cosiddetti «processi partecipativi», vuoi in analoghe decisioni «strategiche» e comunque di governo che vanno oltre questo approccio assai soggettivo, non sempre (anzi quasi mai) quella prospettiva individuale può diventare condivisa, e tutta la capacità di chi decide sta appunto nel trovare un percorso, vuoi autoritario vuoi più democratico, per arrivare a qualche obiettivo. L’atteggiamento nimby rispetto alle trasformazioni urbane e territoriali è un prodotto classico di questa prospettiva innocentemente limitata, che si fa meno innocente quando gli individui diventano molti e si focalizzano sui classici NO, o meglio non qui. In pratica, c’è una potenziale indifferenza alle trasformazioni, anzi a volte si è molto favorevoli in linea di principio (all’autostrada per spostarsi in macchina, all’inceneritore per non fare raccolta differenziata), però si adotta una specie di politica occhio non vede cuore non duole: i progetti vanno benissimo, purché disturbino qualcun altro. Perché di questo si tratta: il nimby magari in ottima fede va a invadere il campo altrui, perché fuori dal suo cortile o prospettiva, significa puntualmente nel cortile o prospettiva di qualcun altro. Ma guai a provare a presentargli la questione in quei termini: vi risponderà che «il problema è un altro» nel caso migliore, aggredendovi in quello peggiore, ovvero quando sotto sotto c’è perfetta consapevolezza di quanto si è ottusi, egoisti, propensi a guardare la realtà col paraocchi. Qui deve entrare in campo la politica, perché la sola informazione o «animazione sociale» non basta.
Siamo tutti sulla stessa barca
Ma c’è anche qualcosa di peggio del classico nimbismo ambientale, ed è quello che si mescola alla discriminazione sociale, ancora una volta in parte a propria insaputa: quando il rifiuto riguarda una maggiore integrazione funzionale dei quartieri e delle città, e addirittura lo slogan «non nel mio cortile» è diventato apartheid urbanistico istituzionalizzato, scritto nelle regole di sviluppo locale. Ci sono destinazioni di zona, o interi piani, che recepiscono di fatto l’idea di accettare al proprio interno abitazioni economiche, accampando una qualità o identità spesso del tutto immaginaria. Mentre invece una idea di spazio urbano degna di questo nome non può certo prescindere, dal relativo mescolarsi (regolato e progettato democraticamente) di ceti, fasce di età, reddito, che soli garantiscono quella qualità e vitalità che distingue un dormitorio da una città. I comitati, i governi, le regole nimby, magari immaginandosi improbabili invasioni o degrado, escludono l arisposta a una domanda ovvia ed evidente, di abitazioni per alloggiare per esempio chi svolge lavori indispensabili ma che non sono certo strapagati, e farlo evitando fenomeni di vero impatto ambientale, come il pendolarismo di lungo corso, o certe spropositate concentrazioni di case economiche sullo stile dei famigerati falansteri razionalisti novecenteschi oggetto di ancor fumosi «progetti periferie». Per superare questi ostacoli, come già detto, occorre vera politica, e non semplicemente aggirare in qualche modo la barriera, e negli ultimi tempi è addirittura entrata in campo la Casa Bianca, con un proprio documento guida orientativo, allegato di seguito.
Riferimenti:
The White House, Housing Development Toolkit, settembre 2016 (scarica direttamente il pdf dal sito della Casa Bianca)