Ciao metropoli, e grazie per il pesce!

depleted industrial building

Foto J. B. Hunter

Il ciclo del metabolismo urbano, inteso in senso stretto stretto, ovvero di ciò che si mangia e si espelle, in pratica sta alla base della nostra storia recente. Uno dei primati degli antichi romani, legioni marcianti a parte, era la straordinaria capacità di gestire le cloache e in genere il sistema delle acque, consentendo di concentrare su un piccolo spazio tante intelligenze che si stimolavano una con l’altra, ma al tempo stesso impedendo che morissero rapidamente soffocati dai propri escrementi. Un primato assai imperfetto, perché non sopravvisse poi alle invasioni dei popoli nordici, evidentemente molto efficienti nel ripulire il marco della corruzione politica, un po’ meno nel gestire i servizi igienici. Ci volle parecchio tempo perché le città ricominciassero fisiologicamente a crescere, sino ad arrivare alla nuova soglia di equilibrio della rivoluzione industriale, e conseguente rivoluzione metabolico-ingegneristica, che specializzava i luoghi: qui la vita, lì le cose inanimate e probabilmente micidiali per la vita stessa. Il che detto in altre parole altro non è che il principio base del successivo zoning funzionale, poi tradotto dal mercato in termini a dir poco tragicomici. Mentre in altri termini ha significato invece specializzare immensi spazi per la produzione, altri immensi spazi per il consumo, e altri immensi spazi ancora per il cosiddetto smaltimento. Uno smaltimento che però si è rivelato alla fine assai simile allo spazzare la polvere sotto il tappeto.

Il mito dell’autosufficienza

Se ci si ragiona un istante, salta all’occhio sino a che punto buona parte delle utopie di era industriale miri sostanzialmente a ricomporre quell’organica unitarietà che questo approccio ingegneristico alla città e al mondo intero aveva spazzato via, oltre a spazzarne un po’ sotto il tappeto in forma di rifiuti. La piccola comunità rurale contrapposta alla metropoli industriale, il nucleo familiare, il gruppo, la tribù di intenti, contrapposti alla società di massa apparentemente anonima e appiattente, tutti questi modelli in fondo tendono a riavvicinare i vari aspetti, tutti, della nostra esistenza, mettendoli a portata di mano e aumentando la nostra consapevolezza e identità. Forse val la pena sottolinearli, questi aspetti, per riflettere sul senso della ricerca di una cosiddetta “misura d’uomo” nella città contemporanea, dato che appare ormai ovvio come non solo sia insostenibile il modello specializzato e globalizzato in negativo dell’approccio ingegneristico, ma come siano praticamente impossibili, anche volendo, certi ritorni al passato rurale dei piccoli villaggi, almeno non nel senso immaginato da gran parte delle utopie, con la parziale eccezione forse della sola città giardino. Se avvicinare i vari aspetti della nostra esistenza significa superare frammentazione e specializzazione, anche l’antica frattura tra città e campagna, tra luogo dell’organico e dell’inorganico per eccellenza, va considerata in una analoga prospettiva.

Cosa significa che i rifiuti sono una risorsa

Nasce sostanzialmente da una intuizione simile, e paradossalmente dalla cultura agricolo-alimentare, anche quella cosa confusamente nota come vertical farm. Che (questo lo si è già detto e ripetuto) non ha nulla a che vedere necessariamente coi gli schizzi di grattacieli proposti dagli studi di architettura di tutto il mondo, ma semplicemente con l’idea di concentrare al massimo, sfruttando le possibilità tecnologiche, gli spazi disponibili per attività di produzione alimentare. Il che, va da sé, significa “mettere i campi uno sopra l’altro” anziché uno di fianco all’altro. Facile in linea di principio, no? Se uniamo a questo concetto della concentrazione agricola, anche quello dell’integrazione massima tra produzione e scarti dentro il medesimo processo, ne esce la tecnica detta acquaponia: vasche piene di pesci e verdure che crescono alimentandosi coi rifiuti di quei pesci, ma nel frattempo ripulendo l’acqua dove potranno svilupparsi i figli di quei pesci, in un ciclo infinito e – almeno parzialmente – autosufficiente. Non a caso fra i non moltissimi casi di vertical farm effettivamente funzionanti ci sono gli impianti di Growing Power, associazione senza scopo di lucro che recupera spazi abbandonati in quartieri dismessi e socialmente problematici, con un approccio anche economicamente integrato. Ma il valore sociale e ambientale della tecnica sfruttata così evidentemente è molto più ampio: lo conferma il suo esatto contrario, ovvero l’emergere di proposte di mercato col medesimo orientamento. Pur senza idolatrare tutto ciò che attira l’interesse degli investitori con scopi di profitto, pare davvero promettente che tutta questa moltiplicazione dei pani e dei pesci, per così dire, non si basi su un miracolo della buona volontà, ma sulla bassa avidità umana. Consolante, a modo suo.

Riferimenti:

Kristen Leigh Painter, Continued: Urban fish farm expanding in St. Paul, Minneapolis Star Tribune, 17 febbraio 2015

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