Il rapporto fra la città del ventesimo secolo e la sua alimentazione è radicalmente e sostanzialmente diverso da quello che poteva avere il villaggio del diciannovesimo secolo. Il meraviglioso sviluppo dei trasporti di merci transcontinentali e transoceanici ha trasformato il mondo intero nel suo orto e il mare nel suo porto. L’innovazione di frigoriferi e magazzini ha avvicinato la città alle produzioni agricole lontane anche migliaia di chilometri, e che oggi sono più vicine di quanto lo era il campo visibile dai confini urbani anche solo venticinque anni fa. Le informazioni sullo stato dei raccolti degli enti responsabili per la formazione e stabilità dei prezzi, mettono la produzione da qualunque zona o clima a disposizione della città e dei cittadini in grado di pagare quei prezzi Le pratiche di correzione dei percorsi di trasporto, le transazioni commerciali durante il movimento, in cui un carico di cereali può essere anche destinato a una meta diversa da quella originale dove si spunta un prezzo migliore, simboleggia al tempo stesso fluidità e stabilità del sistema di alimentazione urbano del ventesimo secolo.
Il fattore principale è la diversificazione dell’offerta. Una diversità della disponibilità alimentare dove la città ovunque stia e qualunque ne sia la specializzazione si tutela da qualunque fluttuazione dei prezzi che un tempo dipendevano tanto dalla distanza delle forniture. Diversificazione che significa non solo specializzazione urbana ma anche specializzazione dell’agricoltura nelle zone dove essa è praticata. Diversificazione dell’offerta è di più, maggiore possibilità di scelta, più soddisfazione di bisogni pur con maggiore costo della vita. Un sistema che comporta vantaggi, ma non ne vanno ignorati i limiti. Prima di tutto questa diversità così disponibile ha fatto sì che chi abita nella città sottovaluti il valore di possedere una ricca produttiva campagna agricola che la circonda. Con la produzione che si sposta finiscono per spostarsi anche i valori dei terreni agricoli, presto seguiti da acquirenti e potere d’acquisto.
Nessuna città è tanto ricca, né il potere d’acquisto delle sue schiere di cittadini tanto grande da sfidare senza qualche cautela quello dei piccoli centri circostanti, o senza tener debito conto di quanto possa costare qualche intoppo della rete di distribuzione degli alimenti prodotti e trasportati da lontano. Maggiore la distanza della grande città dalla sua base di produzione alimentare, maggiore di norma sarà il costo degli alimenti, e non perché costi di più in tariffe di trasporto, quelle non dipendono dal bisogno, ma perché al crescere delle distanze cresce la complessità, aumentano i soggetti coinvolti — tante persone che devono essere compensate – di quanto non accada con una produzione più locale. Se vogliamo diminuire i costi alimentari della città quindi abbiamo il duplice problema di: (1) approfittare dei vantaggi offerti dai mercati mondiali in termini di minimi costi di distribuzione; ma contemporaneamente (2) non perdere i contatti produttivi e commerciali col territorio circostante.
Gli elementi chiave di un costruttivo programma cittadino per minori costi alimentari si possono così classificare in: (1) Il problema di individuare una fonte sicura di produzione agricola che poi potrà essere trasportata; (2) Il problema del trasporto da quei campi alla rete del commercio urbano al dettaglio e al consumatore; (3) La riduzione dei costi finali. Tre problemi piuttosto semplici da elencare, sono in realtà diversi per ogni città, con articolazioni diversificate e complesse. Ciascuna città li deve considerare e risolvere da sola. Non esiste una panacea buona per tute le riduzioni di costi degli alimenti; o strumenti per mantenere stretti rapporti con la fascia agricola circostante, ma al tempo stesso gestendo i rapporti economici con altri più lontani fornitori, si tratta di due aspetti difficili da far convivere.
Necessità di standardizzazione
Il veloce incremento del valore dei terreni e del costo del lavoro agricolo indicano come molto probabile che in futuro cresceranno i prezzi dei prodotti. La città può agire per abbassare i costi di produzione. Sostenendo l’agricoltura intensiva, l’associazionismo cooperativo tra i produttori, divulgando dati e informazioni sulla gestione delle imprese agricole, sementi, suoli, e tutto quanto concerne metodi scientifici di coltura. Ma la città di suo ha un problema di distribuzione. Se vuole diminuire i costi di distribuzione dal campo e nutrire i propri abitanti trasportando le derrate in modo sicuro ed economico, deve certamente anche gestire selezione, confezione, standardizzazione dei prodotti. Può apparire una questione piuttosto particolare, questo rapporto diretto tra costi e gestione standardizzati, ma non lo è affatto.
La presidenza del Comitato che ha redatto il presente rapporto aveva chiesto ai 246 membri della Vegetable Growers’ Association of America di elencare i vantaggi, propri e di altri operatori e consumatori, della standardizzazione di prodotti e confezioni. Tra questi vantaggi elencati spiccavano: abbassamento dei costi; maggiore efficienza di gestione dei movimenti; risparmio sui tempi; produttore e consumatore sono consapevoli di ciò che danno e ricevono in cambio; il contadino ha più chiaro cosa può fare per competere sul mercato; allargamento del metodo standardizzato ad altri; maggiore soddisfazione e più semplice commercializzazione da costi fissi ad ogni passaggio. Paul Work, coordinatore al Department of Vegetable Gardening del New York State College of Agriculture, alla Cornell University, e membro del presente comitato, dichiara a questo proposito:
«Qualunque scambio si basa sulla mutua comprensione. Gli equivoci provocano difficoltà e incomprensioni di ogni sorta, malevolenze e perdite. Ma capirsi diventa possibile solo là dove il significato delle parole è chiaro a tutte le parti. Appare da tempo evidente come la situazione riguardante il movimento dei prodotti vegetali confezionati non sia affatto ottimale. Basta scorrere le colonne di una pubblicazione di settore come The New York Packer per capire quanto i prezzi vengano espressi in termini di quantità e misure frequentemente incomparabili. E di conseguenza si tratta di informazioni quasi incomprensibili, salvo per chi non si dedichi a tempo pieno al tema scambi commerciali di prodotti agricoli. Produttore e distributore al dettaglio interessati a conoscere le condizioni del mercato, in tutto il paese trovano quei dati di minor valore di quanto dovrebbero essere».
«Questa diversità di calcolo a seconda della confezione si traduce in innumerevoli equivoci. Un commerciante ordina un certo numero di cesti di fagioli pensando a un cesto/bushel [misura tradizionale corrispondente circa 36 kg n.d.t.] come ne riceve quotidianamente. Il grossista tratta sia cesti bushel che half-barrel [capacità variabile da 60 a oltre 70 litri n.d.t] e l’impiegato che non sa quali siano esattamente le abitudini del negoziante gli manda una fornitura sbagliata, caricando il dettagliante del 50% in più di fagioli rispetto a quanto aveva chiesto. Ne derivano sprechi e contrasti tra i due operatori. Anche più insidiosi gli sprechi derivanti da tipi di confezione con il medesimo nome ma le cui differenze non saltano all’occhio. Ci sono formati di cassette di uso comune di dimensioni diverse di alcuni centimetri. Una differenza che non si nota fin che le si vede insieme ma sufficiente a contenere anche una decina di pezzi in più o in meno. Di conseguenza, consapevolmente o meno, i coltivatori possono anche perderci fino all’otto per cento usando la cassa più grande compensata come quella più piccola».
«Si tratta di semplici esempi, di situazioni che emergono osservando e studiando come ha fatto l’indagine di M. H. Schonour per conto nostro. La standardizzazione ove applicata si traduce in tangibili risparmi nei costi base dei contenitori e confezioni. Minori le variazioni maggiore l’economia di produzione dei contenitori stessi. Che si applicano sia in quelli dei mercati locali che nei trasporti più lunghi. A Cleveland da anni si utilizza il sistema dei vuoti a rendere per le cassette, con capacità più o meno un bushel. Prima ciascun produttore si dotava di contenitori propri costruiti con legname delle segherie locali. Un qualsiasi John Jones aveva bisogno di cinquanta casse, la falegnameria programmava la macchina per questa piccola ordinazione e poi aspettava quella successiva con caratteristiche diverse. Le dimensioni standard lo erano solo localmente e discrezionalmente».
«Poi i produttori di cassette iniziarono a notare l’accumularsi di materiale semilavorato, e quanto quel tale Mr. Jones tornava a ordinare venticinque casse, bastava prendere i pezzi dai mucchi senza interrompere altre lavorazioni in corso. Ciò riduceva visibilmente i costi di ciascuna cassetta. Standardizzare significa maggiore efficienza specie nel carico sui mezzi di trasporto. Quando si spostano contenitori non standardizzati bisogna ogni volta fare un progetto di sistemazione, mettendo insieme misure diverse, il che fa perdere tempo e aumenta i costi».
«Si è sinora parlato dei vantaggi diretti della standardizzazione. Standardizzare necessariamente introduce cambiamenti nelle forme e dimensioni dei contenitori oggi in uso corrente. Cambiamenti da realizzare non semplicemente con l’idea di assicurare uniformità ma di migliorare più in generale i contenitori stessi. Molti oggi non sono neppure adeguati al tipo di contenuto da metterci. Cavolfiori commercializzati in barile per esempio. Si tratta di uno dei vegetali più delicati e preziosi da maneggiare. Ma viene confezionato dentro barili già usati in altri trasporti al mercato. Non se ne capisce da fuori il contenuto per evitare di maneggiarli troppo bruscamente; quello in fondo è il formato esternamente più robusto che si riesce a concepire per una data quantità di legno».
«I produttori più attenti si stanno orientando verso vari tipi diversi di contenitori più adatti a questo vegetale di fascia alta. Cambiano molto forme e tecniche costruttive di dimensioni date. L’aspetto da tener presente qui è proteggere il contenuto con un contenitore robusto senza alzare troppo i costi. Svariate sistemazioni delle coperture di diversi materiali, ripiegature, rinforzi d’angolo, incollature e chiodi, l’uso di graffe o flange, si può sperimentare di tutto. Per la messa sul mercato di prodotti di fascia alta, esiste una tendenza chiara all’uso di confezioni più piccole. Ne deriva una migliore protezione del contenuto ed entro determinati limiti anche meno necessità di cambiare quella confezione nel passaggio finale al consumatore. In altri termini, un farm-to-family package del genere pare adeguato sia se poi arriva al consumatore sia per proteggerlo dai passaggi degli intermediari incaricati per il trasporto. La riconfezione e selezione di ortaggi da parte dei vari addetti intermedi si traduce regolarmente in scarti ovvero in costi che ricadono sia sul produttore che sul consumatore».
«Difficile trovare qualcuno che non sai d’accordo con l’idea della standardizzazione di cassette o cesti e altro per il mercato ortofrutticolo, ma sono comunque in molti anche a considerarla di difficile attuazione. È certo che ci si può arrivare solo con anni di progressi graduali. In cui il fattore principale diventa la formazione, specie rivolta agli agricoltori ma anche ai produttori delle confezioni. Coloro che forniscono il packaging ai contadini rispondono a una domanda di un certo tipo, ma operano pur sempre per ridurre il numero di linee di lavorazione. I contadini ogni anno che passa si rendono più conto di quanto pesi il tipo di confezione. Se la riflessione non ha sbocco orientato, produce ulteriore diversificazione anziché standardizzazione, visto che ciascuno ha le proprie particolari idee diverse da quelle degli altri. Serve assolutamente l’intervento di qualche tipo di agenzia centralizzata».
«Un centro di studio e decisionale, di un tipo o dell’altro. Un problema più di tipo nazionale che statale o locale. La Vegetable Growers’ Association of America sarebbe logicamente l’entità più adeguata per farsene carico, come già accaduto per pesi e misure. Un ufficio di standardizzazione dei contenitori e confezioni. Primo obiettivo la raccolta di dati sistematica su quanto in uso oggi. Ciò comporta parecchio studio del tipo di quelli già condotti da Schonourpur su casi e territori limitati. Arrivare a definire e imporre uno standard significa anche accettare una certa flessibilità. Sono infinitamente variabili le situazioni produttive e di mercato, e non sarà mai possibile ridurre più di tanto i tipi contenitori approvati, anche se certo utilissimo eliminare parecchi dei tipi in uso attualmente. Il metodo migliore resta quello della registrazione».
«Così i contadini e i produttori di confezioni quando propongono all’ente di controllo un nuovo formato, ne specificano dettagli e dimensioni. Se corrispondono a una rilevata conformità e utilità verranno accettate; se sono semplicemente una ripetizione salvo minime varianti si suggeriranno adeguamenti. E così invece di una serie infinita di varianti per contenere sempre venti cespi di lattuga, ne avremo tre o quattro concepite per le varie dimensioni che quei cespi possono avere. Per i meloni abbiamo tre o quattro tipi diversi di cassette adatti a trasportarne quarantacinque per volta, come quello denominato Colorado dalla zona di uso. Anche qui lo standard riduce i tipi. Va tenuto conto che si tratta di prodotti naturali, mai veramente standardizzabili come accade con quelli industriali. L’ente di regolazione si dimostrerà autorevole se dimostrerà il valore intrinseco del suo lavoro, facendosi riconoscere dagli operatori come adeguato a coordinarli».
«Anche la legge può svolgere un ruolo nel progresso della standardizzazione. Ma qualunque norma si approvi non dovrà imporre le idee particolari di un solo gruppo di interessi su quelle altrui, almeno senza adeguata considerazione del punto di vista di produttori, operatori dei trasporti, intermediari, consumatori. Le reazioni più violente ai tentativi di applicare certe leggi si devono quasi sempre all’assenza di questo presupposto. Chi vuole esprimere un interesse più generale e criteri validi meritandosi il rispetto di chiunque, indipendentemente dall’ambito in cui opera, di solito arriva a proposte in grado di accontentare in qualche modo tutte le parti in causa».
Se leggiamo il rapporto Vegetable Packages in Eastern Markets comprendiamo meglio l’urgenza della standardizzazione. Non si arriverà mai ad efficienza ed economia nella distribuzione alimentare finché qualunque cosa come i fagioli verrà trasportata una volta in canestri bushel, un’altra in barili, un’altra ancora in cassette da trenta chili o sacchi, cassoni, contenitori tipo Boston e tutte le altre infinite varianti oggi in uso corrente sui mercati nella tradizione locale. Produrre, vendere, trasportare, selezionare, proporre al consumatore qualcosa, si avvicinerà ad un metodo scientifico solo quando verranno adottate precise confezioni a livello statale e nazionale.
Si tratta di un problema che coinvolge direttamente le città, dato che quelle economie interessano i cittadini. Ciò significa tra l’altro sostenere le associazioni cooperative tra i produttori delle campagne, perché nessun altro metodo è ancora stato trovato in grado di indicare così chiaramente ai contadini i vantaggi della standardizzazione dei contenitori. Nazionalizzazione dei mercati significa nazionalizzazione di prodotti e confezioni. Un equilibrio con le economie locali basato su (1) cooperazione tra produttori, (2) informazione tra gli operatori dei mercati cittadini e i produttori stessi sugli standard auspicabili localmente, (3) controllo degli enti statali responsabili di pesi e misure, e infine (4) unificazione nazionale attraverso un Ente e Leggi.
da: The relation of the city to its Food Supply – Report of a Committee of the National Municipal league, novembre 1914; Clyde Lyndon King, Presidente, Università della Pennsylvania; Arthur J. Anderson, Direttore del «Pennsylvania Farmer»; H.B.Fullerton, Agronomo, Long Island Railroad Company; Cyrus C. Miller, ex Presidente di Borough del Bronx, New York; Paul Work, Cornell University; ed. National Municipal League-Rumford Press, Filadelfia 1915 – Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini