Se sapete già di che si parla, o credete di saperlo, saltate pure questo articolo, vi annoiereste e basta. Se invece siete fra coloro che davanti alla parola magica, città giardino, iniziano quasi inconsapevolmente a sentire profumi di gelsomino, intravedere steccati bianchi o profili di tetti ad abbaino (anche se siamo all’Equatore e di neve da far scivolare giù ce n’è oggettivamente pochina), forse vi può raccontare qualcosa di interessante e utile. Perché l’uso e abuso del termine, da ormai quasi un paio di secoli, ogni tanto se lo merita, un piccolo promemoria o elenco della lavanderia. Eccolo qui di seguito per sommi capi, tanto per chiare alcuni punti.
Dalla Bibbia ai paleoimmobiliaristi
In principio era la tradizione, probabilmente di origine biblica, certamente immersa nel senso comune: ci si aggrega in città perché va molto bene così, però le cose potrebbero andare pure meglio, si spera. Così il principio di città giardino si sostanzia molto vagamente negli esperimenti primigeni riservati a pochissimi privilegiati che se lo possono permettere, ovvero immergere dentro una natura in parte addomesticata elementi urbani, edifici organizzati, in forme complessivamente molto diverse da quelle della colonia agricola. In tempi moderni di industrializzazione, il temine fa la sua comparsa ufficiale sullo stemma di Chicago, più o meno a metà dell’esplosione demografica e urbana ottocentesca: Urbs in Horto, recita la scritta. Molta ideologia, in questa primigenia garden city, visto che gli operai dei mattatoi dove si scaricano le mandrie dal West, o più tardi delle officine ferroviarie Pullman, non vivono certo il giardino delle delizie. Però anche qui, come del resto nella non lontanissima New York, un tipo nuovo di città almeno per i ricconi prova a nascere, dalla testa dei primi landscape architects. I più famosi sono Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, a loro volta eredi culturali dell’imprenditore vivaista (una specie di antenato concettuale delle attuali catene fai-da-te) Andrew Jackson Downing, che vendeva manuali, sementi, cottages in scatola di montaggio. Sempre a New York dove la coppia di architetti del paesaggio realizza il paradigmatico Central Park, negli stessi anni il re dei grandi magazzini Alexander Stewart fonda la prima Garden City privata e speculativa, nei terreni comprati per un tozzo di pane a Long Island ai contadini olandesi che ci piantavano patate: un paradiso immerso nel verde a un’ora di treno (il treno di Stewart) da Wall Street, pubblicizzano più o meno i quotidiani locali negli anni ’80.
Magari bastasse un manuale, a fare le riforme
Intanto a Chicago, la garden city moderna ideologica originaria, in questa seconda metà del XIX secolo ci abita anche un giovane immigrato britannico con idee vagamente socialiste. Vede quei suburbi immersi nel verde dei ricconi, ma non può non accorgersi dei tuguri dove abitano gli immigrati da mezza Europa che lavorano nei mattatoi o nelle officine. E si chiede: ma non si potrebbe estendere quell’idea di città più salubre a un’idea di società più giusta? Tornato per motivi economici e familiari nella natia Londra, l’ex emigrante Ebenezer Howard frequenta i circoli del socialismo fabiano, incontra riformatori e architetti, e via via elabora quello che chiamerà il suo Peaceful Path to Real Reform. Non resiste alla tentazione di ricopiare quello slogan che aveva reso tanto leggendaria, pur ideologicamente, la Chicago oltre oceano, ed ecco nata la Città Giardino socialista, contenitore urbano della nuova società, ovvero che vorrebbe costruire una alternativa ad alcuni effetti del capitalismo smussandone le contraddizioni. Immediato successo del contenitore, e immediato tradimento del contenuto: perché gli architetti riformisti si rivelano a brevissimo termine molto più progettisti che solidali, ovvero interessati più alla bottega che ad alleviare i mali della società. Del resto anche molti politici riformisti sono convinti che non si debbano fare passi troppo lunghi, e il termine città giardino diventa rapidissimamente sinonimo di: casette a costi accessibili, realizzate sia tramite organizzazione cooperativa che intervento pubblico diretto, su terreni aperti ed extraurbani che consentano economicamente basse densità e abbondanza di verde. Per fare un esempio italiano di questa tendenza, il socialista milanese Luigi Buffoli, mentre presiede l’iniziativa del quartiere giardino Milanino, in comune di Cusano, spiega a un convegno del 1911 che: «Il difetto capitale dell’idea di Howard sta nella sua troppa grandiosità, poiché ben si comprende come ponderoso possa apparire a chiunque il compito di creare dal nulla una città nuova coll’infinita serie di servizi che il moderno progresso ha resi indispensabili». Insomma di fatto i socialisti rinunciano al socialismo, sposandone un nuovo simbolo, che dal punto di vista urbano sostituisce la falce e il martello: il tettuccio spiovente, meglio se con abbaini.
Stupidopoli
Perché in fondo è proprio quello, a caratterizzare senza ombra di dubbio un quartiere del tipo che tutti istintivamente chiamano Città Giardino: non la densità, non la giustizia sociale, non l’equilibro ambientale, ma i tetti spioventi meglio se con abbaino. Era accaduto che per puro caso, l’architetto più vicino a Howard nella costruzione manualistica del suo famoso opuscolo sulla garden city del futuro, fosse Raymond Unwin, progettista di villaggi minerari e appassionato dei tipi edilizi tradizionali della campagna inglese, quei cottage così caratteristici. Villini che erano stati anche protagonisti di tutta una serie di movimenti spontanei nelle grandi città industriali, sia per il vero e proprio ritorno alla terra, sia per una fuga suburbana dall’ufficio in fondo non molto dissimile da quella raccontata nel 1889 da Jerome nel suo Tre Uomini in Barca (per non parlar del cane). Certamente c’era molto di più di quei tetti a abbaino, negli studi dei pur socialmente e ambientalmente monchi quartieri, a partire dall’equilibrio fra residenza e servizi, o fra case e parchi, le distanze, il rapporto tra organizzazione familiare e casa. Tutte cose che però vedremo sviluppate anche nei quartieri razionalisti che traggono origine concettuale completamente diversa, dall’ergonomia industriale della Frankfurt Küche del 1926. Ergonomia industriale che con tutti i suoi oggettivi meriti non ha nulla da spartire con l’idea socio ambientale alla radice della garden city, ovvio. Ovvio ma non troppo, visto che poi tutto si mescola in un minestrone abbastanza inestricabile, fino alle città nuove e quartieri di espansione che esplodono nel mondo verso la seconda metà del ‘900, sia nella versione urbana che soprattuto in quella suburbana detta spregiativamente sprawl. E giustamente spregiata, perché conservando della città giardino giusto quei tetti spioventi e abbaini, o addirittura basse e impattanti densità nel caso delle gated communities da arricchiti, riesce a sintetizzare sia il peggio della città industriale delle origini, sia il privilegio dei primi esperimenti di edilizia nel parco, quelli dei nobili più o meno feudatari. Fine della nota della lavandaia sulla città giardino: se ci sono commenti, prego!