C’è sempre una vecchia città da qualche parte, ed è sempre del tutto soggettivo distinguerla dalla nuova, o magari lanciarsi (quello non passa mai di moda) nelle citazioni spesso a vanvera di Calvino sugli strati o piani di osservazione da cui guardare ciò che ci circonda. Esistono i quartieri antichi giusto perché stanno lì da tanto tempo, ma a ben vedere grosse fette di quegli stesi quartieri antichi antiche non lo sono affatto, per via dei tanti restauri e sostituzione sociale che negli anni recenti ne hanno fatto una carissima zona alla moda, dove a parte uno storico dell’arte nessuno troverebbe tracce di storia neppure al microscopio. E poi esistono quartieri nuovi, o almeno abbastanza nuovi se ne calcoliamo l’età in termini urbani, ovvero delle parecchie decine d’anni in cui si articola l’infanzia di un pezzo di città, che sono la vera porzione vecchia, che custodisce memorie, stili di vita e relazione, il bello e spesso anche il brutto della tradizione locale, dai bar malfamati alle trattorie coi piatti tipici introvabili altrove. Ma anche qui pare difficile giudicare vecchi o tradizionali certi spazi e comportamenti, visto che salta all’occhio di chiunque come non sia né vecchio né tradizionale l’abbigliamento di tanti nuovi venuti dei recenti flussi migratori, e neppure il loro uso o riuso degli spazi: luoghi prima vuoti che si popolano di inusitata vita, o attività sinora impensabili che trasformano il quartiere in tutt’altro, al punto che in certi casi anche da una foto di qualche anno fa è difficile riconoscerlo.
Intergenerazionalità urbana
Tutto normale e fisiologico, verrebbe da dire, che bisogno c’è di farci sopra un discorso? Un po’ c’è bisogno, perché spesso e volentieri sia le politiche pubbliche che il mercato privato quel genere di trasformazioni le inseguono davvero col fiato corto, e si vede. Si vede quando la memoria, a volte addirittura il culto architettonico sociale e identitario della città vecchia paiono ottusi sino al ridicolo di fronte alle trasformazioni, girati dall’altra parte, e in caso di azioni propensi ad agire nel modo più sbagliato. Come quando a furia di garantire accesso motorizzato in certi quartieri, per renderli più vivaci, in realtà si finisce per obliterarne lo spazio pubblico e ridurli a un mosaico di ambienti privati e chiusi. Oppure viceversa quando le pedonalizzazioni, pagate dal contribuente, provocano spaventosi squilibri nelle qualità d’uso e propensioni di investimento. Ma la svista peggiore è quella più generale, che non tiene conto in modo strategico di dati statistici che parrebbero tanto evidenti: la città di oggi è un brulicare molto mescolato di fasce di età e reddito, sia dal punto di vista edilizio che sociale, e puntare inconsapevolmente al livellamento o alla segregazione è irrealistico.
Dai vasi incomunicanti al mosaico
La città industriale classica, anche nelle migliori teorizzazioni ed elaborazioni come quella paradigmatica di Tony Garnier, quasi naturalmente si articola per aree specializzate e relativi soggetti: la zona produttiva là dove ci sono spazi più ampi e migliore accesso diretto alle infrastrutture, quella residenziale a collocazione intermedia fra i posti di lavoro nelle fabbriche, negli uffici, e gli spazi verdi per il tempo libero e la residua agricoltura, il nucleo antico un po’ defilato, come luogo della memoria e della irrinunciabile identità, che va oltre l’orizzonte momentaneo ma fondante dei rapporti casa-lavoro. Il distretto produttivo è il luogo in cui più o meno dall’alba al tramonto sciamano le folle operaie e impiegatizie di futurista memoria (quelle che contemplava anche le Corbusier dal suo davanzale parigino, elaborando “Urbanisme” in una notte d’estate), i quartieri residenziali sono il tempio della famiglia nucleare e delle relazioni di vicinato, e ancora il vecchio centro storico è il deposito di quanto non c’è più, almeno come fuoco di riferimento, ma funge da motore immobile per immaginare il futuro anche oltre l’orizzonte delle ciminiere e il tempo della trasformazione industriale. Ovviamente non è mai esistita davvero una città del genere, ma tantissimi progetti, piani, politiche, hanno quantomeno provato a perfezionare l’esistente in quella direzione. Senza alcun successo, visto il minestrone in cui siamo oggi.
Spazio cybergenerazionale
Sono in moltissimi, e da ormai parecchio tempo, a chiedersi se non sia assolutamente grottesco che la più famosa e longeva rock band del mondo esprima da un palco, per platee sterminate e anche in contesti urbani storico-archeologici, eccessi giovanilisti impersonati da arzilli bisnonni ultrasettantenni. Se dobbiamo dar retta al colpo d’occhio sul pubblico, non lo è affatto: la sola presenza attenta e coinvolta di tre abbondanti generazioni, ai concerti evento dei Rolling Stones, esplicitamente mette in mostra pur nel contesto effimero di un pezzo di città popolato e usato in modo così vario, la natura di mosaico dello spazio urbano contemporaneo. Dove si intrecciano senza apparenti soluzioni di continuità usi, contesti, propensioni, interessi, in modo ben lontano dalla segregazione specializzata delle tavole sinottiche razionaliste, alla base di tanti progetti novecenteschi e anche di strategie politico-amministrative di lungo periodo. Perché si è verificata una evidente frattura generalizzata non solo geografica, ma anche generazionale, di reddito, professionale, di tipologia familiare, nella fruizione delle città, di cui ad esempio la diffusione dei contenitori multiuso o del coworking rappresenta soltanto una punta di iceberg.
La salute trasversale
Esattamente come per gli spazi del lavoro, distanti ormai anni luce dal modello industrialista (ad esempio col risorgere delle produzioni alimentari metropolitane integrate), anche i tempi che integrano lavoro e non lavoro, o quelli più soggettivi del sonno e della veglia, o delle età che si vivono e convivono, tutto si mescola. Ma non è possibile, come mai è stato ovviamente possibile, lasciare al caso o ai singoli individui il compito esclusivo di scavarsi nicchie o cercare percorsi dentro a questo ginepraio (salvo nelle fantasie di qualche economista liberale un po’ sadico e un po’ scemo). La coscienza collettiva e l’azione pubblica devono quantomeno porsi la questione dei nuovi scenari, ad esempio dal punto di vista dei servizi e del loro rapporto con gli spazi: dalla mobilità, alla salute, al benessere e uso del tempo. Del tutto evidente, ad esempio, che come nel caso dei quattro Rolling Stones anche tanti loro coetanei rispetto a chi li aveva preceduti riescono ad esprimere comportamenti e bisogni che nulla hanno a che vedere con gli antichi anziani ai margini dei processi produttivi e riproduttivi. Oggi bisogna attrezzarsi consapevolmente per rispondere alle nuove esigenze, e quindi non c’è nulla di strano in un corso di parkour per persone ultrasessantenni, esattamente come non c’è nulla di strano nell’ancheggiare di Mick Jagger nella notte del Circo Massimo. Non è grottesco: è metropolitano e postmoderno. Prima lo si capisce, meglio per tutti, incluse le città.