Esistono varie forme di invisibilità, anche diverse da quelle di questi giorni plumbei e foschi. C’è l’invisibilità da emozione, stato soggettivo, condizione etnica, sociale, economica, di età, genere, limitazioni fisiche e psichiche varie. Poi c’è la surreale invisibilità acquisita, analoga a quella classica etnico-razziale, ma a cui si può accedere istantaneamente e a propria insaputa, solo saltando in sella a una bici. Così: puff, si sparisce in una nuvoletta di aria fresca. Ma come nei migliori copioni kafkiani la cosa non è mica semplice. Ci si accorge piano piano, come nei film dell’orrore meglio riusciti.
Davanti a quella bici di solito si arriva, o meglio si torna, per caso. Un pomeriggio tra amici, un evento particolare sportivo ambientale o sociale, e a tanti barcollando sul sellino si risvegliano gli istinti infantili, quando in epoca pre-patente, per amore o per forza si arrancava sui pedali. L’aria nei capelli, il campo visivo che improvvisamente si allarga a cose invisibili dalla solita postazione dietro al volante, fanno il resto. In più, da qualche anno a questa parte, è esplosa la moda. Più che un ritorno alla tradizione, come successo con jeans e pizza fast-food, anche la bici pare riemergere con toni di neoconsumismo, guarnita di lobbies modaiole, gruppi di pressione politica, vaghe consapevolezze sostenibili indotte. Ma alla fine, ideologismi a parte, la vera spinta che fa saltare davvero in sella, al netto di chiacchiere e distintivo, è sempre la stessa. Ma si scopre presto la faccenda dell’invisibilità.
Thomas La prima è fastidiosa, ma in fondo piuttosto classica, e attiene diciamo alla sfera generale dei diritti del cittadino. Il ciclista capisce di essere invisibile per il SISTEMA. Maiuscole quanto mai d’obbligo perché il concetto degno di Thomas Hobbes e del suo Leviatano si fa via via strada nella consapevolezza del pedalatore tendenzialmente abituale. Anche lasciando da parte le giuste denunce dei lobbisti di settore (ci vogliono le piste ciclabili eccetera) è nei particolari che si nasconde il diavolo. Si pedala dieci minuti, ed ecco un ostacolo quasi insuperabile senza smontare di sella, o senza rischiare in qualche modo l’incolumità. Si pedala su distanze del tutto normali, e si incrociano decine, a volte centinaia, di dislivelli, discontinuità, assurdi ostacoli da evitare, zig-zag imposti da chissà chi chissà perché. E si capisce che nessuno, nessuno di quanti quotidianamente progettano, gestiscono, pianificano la città e il territorio, ha la più pallida idea di cosa voglia dire spostarsi su due ruote.
La seconda forma di invisibilità è ancora più surreale, perché a differenza di quella precedente appare davvero magica, ma assai più immediatamente micidiale. Chi sta dietro al cruscotto di un’auto, essere umano del tutto analogo a chi sta pedalando sul medesimo percorso, non vede il ciclista. Nessuna distrazione, nessun telefonino, nessun buio o stretta curva: non lo vede proprio neppure quando ce l’ha davanti al naso. Il che alla lunga evoca il famoso proverbio: non c’è nessun cieco più cieco di chi non vuol vedere. Ma non c’è neppure davvero nessuna colpa individuale, in tutto questo, perché anche l’automobilista è vittima dell’ideologia totalitaria in cui si immerge esattamente nell’attimo in cui si siede al volante. Per così dire: il Leviatano ha ingoiato la sua anima.
Quello dell’automobile è un sistema, tutto le gira attorno, non è possibile ragionarci se non considerandolo in quanto tale. Sul New York Times qualche mese fa uno dei neofiti e per questo più introspettivi osservatori americani del fenomeno, ne propone provocatoriamente una visione tanto surreale quanto realistica: uccidere il ciclista è normale, legale, sgradevole ma fisiologico. L’autore Daniel Douane ha raccolto infiniti casi e testimonianze in tutto il paese, sino a concludere che alla neo-ideologia modaiola della mobilità dolce, della sostenibilità urbana, si contrappone il mastodontico Leviatano di un intero secolo durante il quale il sistema legislativo che regola i rapporti sociali è stato plasmato sull’abitacolo di un’automobile. Quindi le tendenze attuali a considerare la bicicletta come mezzo di trasporto non solo legittimo, ma pienamente legittimato e dotato di diritti quanto il resto, si scontrano prima con il contesto fisico, e poi soprattutto con le regole e convenzioni che l’hanno prodotto e lo ribadiscono.
Le leggi consentono certo alle biciclette di circolare per strada, ma quella strada non è concepita in modo da lasciarle circolare adeguatamente. Le differenze di velocità e ingombro con i classici mezzi a motore complicano la condivisione (a senso unico) e la reciproca accettazione e riconoscimento. Così il ciclista in qualche modo si ritrova a ignorare (per forza, verrebbe da dire) il codice della strada. Finisce per non rispettare il segnale di stop, come se fosse immortale, passa con qualunque colore di semaforo, va contromano, non segnala le svolte … Ma siamo sicuri che tutte queste regole e gli spazi in cui si applicano, e i modi in cui si interpretano, non siano troppo sbilanciate verso la percezione, velocità, uso veicolare della strada? E tra l’altro gran parte delle ricerche pare indichino che anche così, l’infrazione formale in caso di incidenti pende a sfavore degli automobilisti. Non parliamo naturalmente di vittime e feriti.
Si capisce quindi come rivendicazioni anche condivisibili siano solo parziali, o addirittura controproducenti se non ragionano in termini complessivi e olistici. Poniamo la faccenda delle piste riservate e degli attraversamenti non a livello, tanto pompata da certe amministrazioni internazionali soprattutto di centrodestra (Londra, New York) e fortemente ripresa altrove nei temi e orientamenti. Ottima cosa, apparentemente, avere una rete di percorsi dedicati su cui pedalare in sicurezza, ma sorge spontanea la domanda: è realizzabile? Pare di poter rispondere un doppio no. Perché ci vogliono troppi soldi, e soprattutto perché è impossibile mettere in campo da subito un sistema a rete. Ma il rischio è soprattutto un altro, ovvero che il nuovo sistema si realizzi sostanzialmente seguendo i medesimi criteri di esclusività di quello a cui si affianca. Non abbiamo bisogno di un nuovo Leviatano tascabile plasmato sulle biciclette che sarebbero più buone e simpatiche delle automobili. Quello a cui si dovrebbe mirare è l’integrazione massima fra i modi di spostamento entro una medesima rete. Questa integrazione si chiama città.