È abbastanza inedita e ancora un po’ sorprende, l’immagine di persone serene e tranquille in luoghi davvero inospitali al limite della repellenza. Mi riferisco in generale a quei curiosi bozzetti urbani e meno urbani, in cui si vedono prostitute serene e felici nella loro terrificante postazione stradale inquinata, pericolosa, o eleganti manager seduti accanto a un mucchio di cartacce nell’angolo di un parcheggio, mentre trattano strategie globali in tre lingue contemporaneamente. Un paio di esempi a cui chiunque può aggiungerne decine, e che hanno come elemento comune il classico cervello focalizzato sullo smartphone e sul mondo che da esso promana tangibile, assai più realistico di quello fisico che ci circonda. Versione in positivo, forse, dei pericoli di chi guida o cammina egualmente tuffato là dentro, mettendo a repentaglio l’incolumità propria e altrui, ma che ha certamente in comune una relativa deterritorializzazione, o per meglio dire una riterritorializzazione soggettiva, che sgancia dal luogo fisico la consapevolezza e l’identità. Per dirla in linguaggio un pochino meno quotidiano, «Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione allentano i legami tra società e spazio, ma invece di creare comunità virtuali allargano il campo, accrescendo anziché diminuire la partecipazione».
Radici lunghe e larghe
Se non altro, questa duplice considerazione chiarisce il campo, saltando a piè pari (e per fortuna) quel classico reazionario passatista atteggiamento secondo cui la connessione «distrae dalla realtà», magari allo stesso modo in cui la lettura online non sarebbe vera lettura perché non veicolata dalla sacra cellulosa, e i contenuti veicolati dal wireless, anche se prelevati e selezionati dalle migliori biblioteche, null’altro che un falso feticcio portatore di devastazione umana e culturale. Certo, forse è vero che la disponibilità di canali diretti virtuali di contatto con più contesti, indebolisce in parte il ruolo del canale fisico della presenza, ma al tempo stesso moltiplica e arricchisce quella presenza. Improbabile, salvo improbabili epidemie collettive di demenza, che ci si scordi davvero di dove si sta (al netto dei contingenti comportamenti già citati), e assai più ovvio che ci si renda invece conto meglio, del luogo, dell’identità locale, paragonandolo ad altri virtualmente connessi. Esattamente come in lettura elettronica, una volta capito il meccanismo tecnico-manuale, è possibile comprendere ed eventualmente apprezzare in modo comparativo le differenze con la consultazione cartacea. Insomma il tizio elegante seduto per terra accanto alla spazzatura, che tratta affari internazionali, lo sa benissimo di star lì, e magari si impegnerà a migliorare un pochino la qualità del luogo, invece di evitarlo schifato come forse avrebbe fatto in epoca pre-connessione. I nostri rapporti con lo spazio, e la società allargata che a quello spazio fa riferimento, si rafforzano anziché indebolirsi, nell’epoca della comunicazione globale. E la cosa vale anche per quel genere primigenio di partecipazione che si chiama radicamento di quartiere o vicinato.
The virtual neighborhood unit
In fondo basta dare un’occhiata all’evoluzione recente (abbastanza recente) dell’idea di identità locale, per capire come il miglioramento delle forme di comunicazione, l’apertura di prima inusitati canali verso il «fuori» non significhi affatto obliterazione di una dimensione, ma al contrario sottolinearne diversamente il ruolo. Il quartiere moderno urbano o vicinato nasce come immersione nei flussi comunicativi industriali dell’arcaica comunità familiare allargata del villaggio rurale, e poco dopo con l’esplosione dell’automobilismo del telefono della radio della televisione, della stampa pubblicitaria legata ai consumi, la medesima dimensione si allarga alla regione metropolitana, senza però diluire il ruolo identitario dello spazio vicinale immediato. Secondo alcuni ottimisti (ma realisti) studiosi, al cittadino classico «fisico», anagrafico o no, con la sua altrettanto classica partecipazione più o meno impegnata alle varie scale e problemi, si aggiunge il cosiddetto «cittadino vicario», che affianca o sostituisce vari tipi di partecipazione. In altri termini, se qualcuno nella condizione pre-tecnologica era inchiodato a un luogo e una dimensione, almeno una per volta, e ciò di fatto limitava prospettive e democrazia, oggi quei luoghi e dimensioni si possono ragionevolmente moltiplicare, esattamente come le bacheche di un social network moltiplicano all’infinito i capannelli di discussione o se volgiamo anche gli scranni di relazione. Resta aperta una questione sia tecnica-organizzativa che più propriamente «politica»: quanto, della qualità fisica e sociale dei luoghi, sia effettivamente reso disponibile (è questo il senso di slogan come Big Data o Smart City) sui nuovi canali, in che forme, con quali accessibilità aperte a tutti. E non è affatto un’altra storia, naturalmente.
Riferimenti:
Robert Goodspeed, Community and Urban Places in a Digital World, City & Community, marzo 2017