Quante volte ci è capitato di notare un brusco surreale cambio di situazione, per esempio camminando su un marciapiede che si interrompe senza motivo apparente, o cambia stato di manutenzione in meglio o in peggio? L’esperienza ci insegna che quello, come tanti altri assurdi momenti di discontinuità spaziale (spesso assai peggiori) è quasi sempre un confine amministrativo, ovvero il punto in cui cambia il rapporto tra uomini e territorio dal punto di vista del potere. Piccolo segnale, ma grandissimo, immenso tema, praticamente sovrapposto a quello apparentemente estraneo della città ideale. Perché quell’impasto inestricabile di potere e ambiente e società e intrecci vari, diventa poi particolarmente inestricabile quando non si capisce proprio dove inizi e dove finisca. Anzi si può addirittura dire che in molti sensi la città ideale in nuce è proprio la coincidenza tra i due aspetti: quello dello spazio urbano in senso lato e quello della circoscrizione politico amministrativa.
Margini
Se per esempio si scorrono i testi più o meno famosi, vuoi di ispirazione sociale che religiosa che puramente tecnica, orientati a descrivere le città ideali, vediamo che non manca mai il riferimento a questa necessità di potere unico su un unico territorio, ad esempio unica garanzia perché sia mantenuto un certo rapporto minimo fra spazi effettivamente costruiti, spazi aperti, spazi pubblici, spazi privati, funzioni e ambienti. La scatola contenitore della società ideale condivide con questa società i suoi equilibri, che non possono (o possono in modo limitato) tollerare intromissioni, e men che meno sovrapposizioni dall’esterno. Sempre citando la solita Città Giardino nelle sue varie enunciazioni del primo ‘900 si ricorda che l’organizzazione cooperativa o societaria garante del progetto deve come presupposto controllare tutte le superfici, e magari mettere un’opzione su altre che fungano addirittura da “cuscinetto” rispetto alle famose intrusioni. Le città ideali non esistono senza un margine, che ne definisca forme e dimensioni, e il banale margine delle mura o dei limiti imposti all’edificato ha poco senso se non affaccia su qualche tipo di greenbelt: che sia la fascia agricola nelle utopie a contenuto ambientalista, o il solo spazio aperto cono visuale da cui controllare ciò che sta fuori.
Poteri
Accade invece nella realtà storica che risulti parecchio meno ideale di quanto vorrebbe esserlo, la città. Nei millenni, o nei decenni, ci sono piccoli e grandi poteri che rivendicano autorità più o meno assoluta su un fazzoletto di terreno, e questo fa letteralmente esplodere il mosaico del territorio. Non è certamente un caso se uno dei più grandi documenti “utopici” del XX secolo, discendente eretico delle città giardino, esordisca nel suo Preambolo spiegando di scordarsi l’utopia, proprio perché non ci può essere, e non ci sarà mai, quella coincidenza fra la città e i poteri che la controllano. Si può solo fingere di ricomporli, quei poteri, una volta individuato qualche genere di filo conduttore comune. Si tratta nientepopodimeno che del Greater London Plan con cui sir Patrick Abercrombie traccia le linee generali della ricostruzione post bellica di un enorme sistema regionale, partendo proprio dal riconoscere come non sia possibile, in alcun modo, ignorare il patchwork tracciato dalla storia, che vede distretti amministrativi mescolarsi con competenze tecniche di rete, poteri comunali, statali, regionali, pubblici, privati, semi-pubblici. Tutti quei poteri che hanno reso discontinuo il marciapiede in cui eravamo inciampati all’inizio di questa breve superficiale digressione. Che però introduce un tema assolutamente cruciale, ed eterno, almeno fin quando duriamo noi, e la città.
Riferimenti:
Aaron M. Renn, What’s the perfect size for a city? The Guardian, 23 aprile 2015