C’era una volta la solidarietà operaia, quella cosa più o meno da favola o leggenda o manuale utopico (a seconda dei punti di vista), in cui i lavoratori si univano cooperativamente iniziando a costruirsi con le proprie forze un modello tascabile di società futura, dove gli spazi di vita, consumo, relazione, rapporti economici, non erano regolati dall’egoismo del profitto, ma da ideali etici, nonché da molto pratiche constatazioni di superiore verificabile qualità. Nascono così, spesso nebulosamente e forse colpevolmente confuse con certe parallele esperienze di cosiddetto paternalismo industriale, quelle seminali esperienze autogestite di produzione e gestione di case, negozi, quartieri, servizi, che ancora oggi spiccano come curiosi fiori all’occhiello dentro le nostre città. Qui sta in fondo la prima impressione rivelatrice: sono formalmente autentici fiori all’occhiello, quei fossili puramente edilizi del nuovo mondo possibile immaginato dalla classe operaia e dai suoi intellettuali di riferimento. Quei fabbricati e la loro organizzazione, pur passati di mano e trasformati in dimore di chi «oggi se le può permettere» non perdono un grammo del loro valore d’uso, anche se organizzati in piccoli quartieri integrati, anche se di fatto ancora ruotanti attorno a uno stile di vita diverso da quello degli attuali abitanti. A confermare che il metodo funziona, eccome se funziona.
La transustanziazione della crescita esponenziale
Più tardi, grazie anche alle rivendicazioni delle organizzazioni sindacali dei medesimi lavoratori, arriva la fase del massiccio intervento pubblico, prima locale e poi centrale, e quella società ideale inizia a trasformarsi per certi versi in realtà, l’utopia a farsi vita quotidiana, e naturalmente a cambiare volto, per il peggio. Ma non si tratta in realtà dell’ingresso in campo del classico incubo che stava al margine del sogno: c’è qualcosa di più sottile e riguarda il metodo di produzione dell’utopia, il suo controllo di fatto sottratto dall’eccesso di intermediazione. Proviamo a toccare solo un paio di aspetti fortemente concatenati: la progettazione dei complessi di alloggi e la loro gestione. All’inizio c’è un legame abbastanza saldo fra gli intellettuali tecnici «di area progressista» che si prestano a elaborare i progetti, e i bisogni espressi dai destinatari, ivi comprese alcune aspirazioni diciamo così piccolo borghesi che però entrano comunque nel conto. Ne nascono realizzazioni di avanguardia che sono però bene accette ai membri delle cooperative e associazioni, che poi si occuperanno direttamente della realizzazione e gestione dei complessi. Con l’ingresso dei grandi finanziamenti pubblici per l’edilizia economica e popolare, la ricerca e l’innovazione da un lato prendono un percorso particolarissimo (che riassumiamo molto sommariamente con la cultura della città-macchina razionalista), dall’altro si separano logicamente dal contatto diretto con la committenza reale. La burocratizzazione dei meccanismi di assegnazione, delle decisioni finanziarie e urbanistiche, segue di pari passo analoghi percorsi autonomi, trasformando l’utente in un dato statistico del tutto passivo.
Dalla casa all’alveare e viceversa
Da quell’approccio meccanico e burocratico, pur sostenuto dalle migliori intenzioni scientifiche, sociali, politiche, nascono i famigerati grandi quartieri monoclasse privi di identità, con spazi comuni e alloggi concepiti per una società o inesistente, o non comunque corrispondente all’insieme dei destinatari. Contribuisce, al distacco rispetto alla filiera originaria utenza-progettazione-realizzazione-gestione, anche l’accelerarsi dei processi di sviluppo socioeconomico, che vede sostituirsi ai destinatari operai urbani degli alloggi e dei quartieri, un nuovo ceto di neo-immigrati dalle campagne, o addirittura da società culturalmente lontanissime, a cui risulta pressoché impossibile adattarsi a quanto pianificato in teoria da architetti ed enti di amministrazione. Da questo brusco distacco e interruzione della filiera continua originaria delle case economiche, determinato involontariamente dall’ingresso massiccio dei finanziamenti pubblici, nasce poi quella critica di destra sulla totale perversione del meccanismo di produzione e assegnazione no-profit degli alloggi, e la richiesta di tornare a meccanismi di mercato in cui la casa altro non è che l’ennesima merce da scambiare al miglior prezzo. Ma come sappiamo, tutti i percorsi più o meno radicali o riformisti imboccati dagli anni ’70 del secolo scorso in poi hanno prodotto nuovi mostri, ultimo fra tutti il fenomeno dello sprawl suburbano povero per espulsione dalle aree centrali gentrificate, e una emergenza case infinita di cui non si riesce a intravedere uno sbocco. Con una parziale ma assolutamente significativa eccezione: quei progetti o programmi che hanno saputo mantenere vivo, anche a fronte di finanziamenti pubblici relativamente centralizzati, lo spirito originario di filiera corta e continua con la committenza e la società locale, evitando la formazione di quartieri ghetto. Da lì, e non dall’ennesima sperimentazione alla cieca, è necessario ripartire, a parere di molti.
Riferimenti:
Matthew Gordon Lasner, The Case for Public Housing, The Nation, 6 maggio 2016
Visto che l’articolo di The Nation tocca in particolare il percorso americano, si veda qui quello del tutto opposto con cui negli anni ’30 Catherine Bauer preparava, con una rassegna di esempi europei, l’avvento dell’Agenzia Federale per le case economiche negli Usa