Si moltiplicano nelle metropoli occidentali gli scontri, cruenti e non, tra le varie faune urbane, e ovviamente si pone il problema per il predatore principale, ovvero il bipede homo sapiens: sino a che punto possiamo convivere con il liberismo naturalistico praticato dal alcuni sinora? Per esempio c’è pericoloso predatore, portatore di micidiali malattie oltre che aggressivo e subdolo, che si infila nelle culle dei bambini umani a succhiargli il sangue. Parrebbe una storia ottocentesca di vampiri, ma anche se il teatro nebbiosamente londinese magari ci sta, si tratta invece della cronaca domenicale riportata tempo fa da diversi serissimi quotidiani. Succedeva che nella capitale britannica l’ennesima volpe urbana troppo curiosa e invadente si fosse intrufolata fino alla camera di un neonato (quattro settimane) e da bravo carnivoro predatore volesse solo assaggiare cosa offriva il convento. Attirata dalle urla del bambino, la madre si è precipitata dentro sorprendendo l’animale mentre affondava i denti nella manina sporgente dalle coperte. Grosso spavento, e un certo lavoro per i chirurghi del pronto soccorso all’ospedale di Bromley, ma pare che il piccolo si sia ripreso in fretta.
Anche il sindaco Boris Johnson reagiva prontamente, invitando le autorità responsabili a non considerare l’accaduto solo un problema della polizia o dei medici, perché gli animali urbani come le volpi: «Magari possono apparire simpatiche e una presenza romantica, ma si tratta anche di una minaccia specie nelle città. Questo avvenimento serva anche come allerta per tutti i livelli amministrativi di Londra responsabili delle disinfestazioni e della fauna, perché collaborino a capire un problema in crescita, e agiscano immediatamente a risolverlo». Si calcola siano circa diecimila le volpi che abitano l’area urbana di Londra, e ovviamente non si può pensare né di trattarle come si trattano ormai da molti decenni i topi o le zanzare in città, a colpi di tonnellate di veleni sparsi ovunque, né di considerarle come nelle parole del sindaco «simpatiche e romantiche». Una cosa è sicura: c’è una bella differenza tra un gatto domestico, o un geranio sul balcone, e il ruolo crescente e contraddittorio assunto dalla natura in città negli ultimi decenni.
Era anche la tesi del cosiddetto «Elogio della pantegana» proposto da alcuni politici e giornalisti a Milano con l’occasione dell’ultima campagna elettorale, parallelo al dibattito sulla cosiddetta oasi ecologica alla Darsena dei Navigli. Un cantiere abbandonato per anni (per realizzare nientemeno che un autosilo sotto il grande specchio d’acqua in centro città) si era col tempo trasformato in una concentrazione unica di specie animali e vegetali, riconosciuta anche dagli studiosi come caso singolare sia di presenze che di associazione in un unico spazio tanto piccolo. Ovvia la provocatoria tesi dell’elogio della pantegana: se vogliamo davvero più natura in città, dobbiamo attrezzarci a convivere insieme col dritto e il rovescio della medaglia. Compresi magari i topi, o le nutrie che a enormi topi assomigliano tanto, terrorizzando chi passeggia dopo il tramonto quando magari sbucano a gruppi dalle sponde dei canali tra le case. Come sappiamo poi il Comune di Milano ha deciso di optare per un verde addomesticato: gerani, aiuole fiorite, gatti, cani da compagnia, e poco altro. La natura chi la vuole vada a cercarsela altrove.
Insomma per adesso prevale una cultura scientifico-amministrativa tradizionale, dove la città è fatta per i cittadini, intesi come umani, mattoni, cani, gatti, gerani, paracarri e lampioni, più qualche ciuffo d’erba o di foglie ornamentale, a ingentilire il panorama. Eppure si ripresenta una opzione proprio diversa, perché visti gli effetti dell’eccessiva artificializzazione del territorio, soprattutto con le superfici urbane che si stanno conquistando fette crescenti del pianeta, la soluzione ideale parrebbe quella di avere più natura, e non di meno, intra moenia. Pensiamo al concetto di infrastruttura verde in senso proprio, un po’ oltre il cosiddetto ingegneristico servizio all’ecosistema: ci sono due ambiti collegati direttamente, quello della natura selvaggia aperta, e quello urbano domestico. Ovvio le distanze e le differenze non scompaiono con l’accostamento concettuale, ma resta aperto per forza il canale della continuità, senza il quale non si dà l’infrastruttura. Dentro a questo corridoio si sposta di tutto, i semi delle piante appiccicati al pelo dei piccoli roditori, gli anfibi da un piccolo specchio d’acqua all’altro, gli uccelli che cercano bacche e frutti sugli alberi un po’ cresciuti, i rapaci che volano alti scrutando le prede che sgattaiolano nell’erba, gli altri predatori di varie taglie in agguato.
Non è la jungla infernale di Rambo, ma il giardinetto dietro casa dove andiamo a leggere il giornale qualche volta, e dove ovviamente faremmo volentieri a meno di elogiare la pantegana, ammirandone qualche esemplare intento a contendersi il contenuto di un cestino rovesciato, ma ecco che dai cespugli sbuca la terribile volpe, più che mai «simpatica e romantica» stavolta, e mettere in fuga i topastri. Ecco, diciamo che secondo moltissimi studiosi è molto più probabile questo scenario, un po’ estremo apparentemente, di quello classico dei giardini senza erbacce o parassiti, popolati solo da compassati lettori di giornali e signore con barboncino. Che altro è infatti l’idea di agricoltura urbana, di orti di quartiere, o anche di lotta biologica ad alcuni infestanti o parassiti, se non il riconoscimento che la natura deve in qualche modo riappropriarsi della metropoli? Certo ci sono delle precauzioni da prendere, tecniche e organizzative, ma siamo soprattutto noi a dover cambiare atteggiamento, a partire proprio dagli entusiasti ambientalisti, a parole.
A parole perché magari l’amore sviscerato per il nutria watching o la contemplazione delle ancora rare poiane sulle antenne televisive, poi si trasforma rapidamente in disappunto quando una volpe, pur risparmiando l’erede al sicuro nella culla, si porta via il gatto di casa. O semplicemente tutto il quartiere si ritrova a rischio di qualche malattia portata da chissà chi e chissà come, e qualche agitatore politico inizia a dar la colpa agli immigrati del terzo piano. E si capisce bene perché sia Boris Johnson che gli uffici milanesi abbiano avuto pochi dubbi a intervenire in modo tradizionale e deciso, ma attenzione: la tendenza ormai è definita. Nel senso che lo studio urgente del fenomeno delle volpi londinesi e delle misure da prendere, non si tradurrà certamente in piani di sterminio e disinfezione, ma in assai più naturalistiche politiche di informazione, prevenzione, controllo sanitario, eventuale soppressione di capi a rischio.
Anche la rimozione della piccola oasi milanese, pur eliminando la singolare associazione di specie così come si era formata nell’ex cantiere, sembra voler porre le basi perché molte altre se ne costruiscano in futuro. Infatti il progetto di collegamento ha anche oltre le intenzioni dichiarate tutte le caratteristiche di continuità di una infrastruttura verde, sviluppandosi per chilometri dal centro cittadino sino alla zona dell’esposizione universale e da qui oltre verso la fascia agricola periurbana. Quale percorso migliore perché altre specie inizino a colonizzare i vari ambienti? Naturalmente ci saranno equilibri artificiali da conservare, ripristinare, modificare (evitando se possibile la scenetta di caccia grossa attorno al cestino dei rifiuti, almeno all’ora di punta) ma pare proprio quella la direzione imboccata dal metabolismo urbano stile terzo millennio, per far convivere in un modo o nell’altro noialtri bipedi coi numerosi cugini che ci siamo inavvertitamente portati appresso. Insomma, chi vivrà vedrà, ma già oggi c’è parecchio da vedere, solo guardandosi attorno con un minimo di attenzione.