Quando certi ricconi si murano vivi dentro certe loro scatole fortificate, cacciate a forza malamente dentro il tessuto della città, che ignorano salvo come fonte di reddito (e di rendita, visto che il valore del loro immobile deriva anche da ciò che bene o male gli sta attorno), compiono per amor di cosiddetta sicurezza un atto contro natura. Non tanto e non solo per quel gesto di cercare, pur in modo così radicale, privacy e separazione da qualcosa che temono, ma perché rifiutando la complessità e l’interazione danneggiano sé stessi e la radice di tutto ciò che sta alla base della società in quanto tale. In fondo questi autosegregatori altro non fanno se non replicare ottusamente il medesimo errore meccanico alla radice della filosofia dello zoning, che pur nato da una innegabile esigenza di regolamentazione e specializzazione, naturalissima di per sé, aveva poi finito per produrre una città macchina ingestibile se non a costi enormi, di carattere economico, sociale, ambientale. Perché, proprio ragionando schematicamente in termini altrettanto meccanici, visto che in natura il vuoto non esiste, tutto ciò che veniva escluso da un luogo finiva per riversarsi malamente altrove, creando squilibri rimediabili soltanto con tanto tempo e fatica, e magari distrutti da qualche altra improvvida artificiosa semplificazione. Alla base di tutto, sta però quella minimale ma essenziale semplificazione originaria, detta a volte dualismo città-campagna.
Separati ma integrati
Alla radice dell’espansione suburbana, ben prima del modello automobilistico e socioeconomicamente consumista, sta proprio la ricerca di qualche genere di equilibrio, irrimediabilmente perduto con l’eccessiva artificializzazione della città. Finché sopravvive il nucleo di dimensioni contenute, arginato dentro e fuori dalla cerchia delle mura e dai vincoli posti ai trasporti di generi alimentari indispensabili, in sostanza oltre all’interclassismo e alla mescolanza di arti e mestieri viene anche garantita la natura mista dell’insediamento, la prossimità relativa fisica con piante e animali, pur con le ovvie minime cautele in materia di sicurezza e igiene. Di cui per esempio testimonia il famoso progetto leonardesco di città su due livelli, di solito interpretato esclusivamente in forma trasportistica, che all’epoca comporta però mettere in conto buoi, cavalli, muli, relative feci, e relativi parassiti degli animali e delle feci. La città industriale segna il balzo verso l’ignoto, quella separazione netta e ancora misteriosa nei suoi effetti ultimi tra naturale e artificiale, ben testimoniata dai fantasiosi «calcoli igienici» del giurista liberale autore della griglia indifferenziata di Manhattan, fiducioso che per aerazione e soleggiamento degli abitanti bastassero le superfici libere di Hudson e East River, a convogliare brezze rinfrescanti lungo le Streets e Avenues ortogonali, sin dentro i massicci isolati rettangolari lasciati al libero mercato. Solo dopo due generazioni di miseria sanitaria e tassi di mortalità da capogiro, si arriverà alla rivoluzionaria discontinuità del Central Park. Ma ancora non basta: perché come accade con la società, anche la natura deve essere complessa e resiliente, pena il soccombere alla minima sollecitazione.
Convivenza conflittuale
Arriviamo ai nostri giorni, della modellistica urbana-territoriale che già comprende ogni conformazione fisica dello spazio aperto, sino al concetto in parte sedimentato della infrastruttura verde, in cui alla tradizionale greenbelt di contenimento dell’espansione, e green wedge di penetrazione e prossimità, si unisce quello della multifunzionalità e biodiversità. Manca, ancora, la pur essenziale componente degli animali, che con la sola eccezione di quelli da compagnia non hanno più posto ufficiale intra moenia dai tempi dell’espulsione degli allevamenti per motivi igienici, e dell’introduzione della trazione meccanica per i veicoli. Sono saldamente restati padroni del campo giusto quei «parassiti urbani» inevitabili, dagli insetti, agli uccelli, ai piccoli roditori, ad altre sporadiche o meno presenze che in qualche modo hanno trovato di che convivere, in ambiente che evidentemente non li respingeva del tutto. Oggi però ci accorgiamo del quasi ovvio, ovvero che quelle sopravvivenze e variegate novità-infiltrazioni curiose, altro non sono che un chiaro sintomo: la biodiversità urbana, così come la complessità sociale e un buon equilibrio spaziale, è un fattore qualitativo indispensabile, troppo a lungo ignorato e sottovalutato anche dagli stessi progettisti. Oggi all’approccio più classico della biologia o dell’etologia al tema della fauna urbana, si affianca anche quello della composizione spaziale, inclusa l’area degli spazi artificiali e edificati, in modo simile a quanto accaduto per le colture alimentari, con le tipologie della vertical farm e analoghe. Perché la convivenza inter-specie non è solo un giocattolo per far circolare filmati melensi sulla rete: è il senso autentico della complessità urbana, specie nella prospettiva della sostenibilità.
Riferimenti:
– Kylie Soanes, Urban jungle: saving city wildlife with trees, green roofs and pools, The Guardian, 5 marzo 2017
– Georgia Garrard, Biodiversity sensitive urban design,