Fra i molti tratti dell’azione innovatrice di Adriano Olivetti nell’industria e nella cultura italiane, spicca quella che viene chiamata integrazione tra fabbrica e territorio, ovvero quello stretto rapporto fra gli aspetti strettamente produttivi, economici, e il contesto sociale e ambientale entro cui si sviluppano. Sono sterminati gli studi e articoli che approfondiscono o riesaminano con qualche nostalgia da reduci quel periodo eroico dello sviluppo italiano, in cui il pioniere di un comparto avanzatissimo come quello delle macchine per ufficio e futura informatica, si scontrava malamente con un mondo esterno fatto di laboriose uscite dal buio della pre-industrializzazione. In fondo, a modo suo, il teorico della “comunità” all’italiana altro non faceva che portare avanti l’antica intuizione del paternalismo capitalista alla Benigno Crespi, teorizzata ai suoi tempi dal manuale dell’ingegner Francesco Mauro, Industrie e Ubicazioni (Hoepli 1944): il problema centrale di un settore avanzato, è quello di attirare e trattenere le intelligenze.
Racconta ad esempio il manuale di Mauro, con dovizia di schemi e illustrazioni, come in America le grandi aziende da tempo non si limitino più a promettere a quadri amministrativi, tecnici, di ricerca, alti stipendi, ma una serie di benefits collaterali. Col senno di poi, a mezzo secolo e passa di distanza sappiamo benissimo che quella community industrialista da cui Olivetti mutuava anche il nome del suo partito politico si sovrapponeva abbastanza banalmente al cosiddetto sogno americano suburbano, della casetta unifamiliare in proprietà, delle relazioni di vicinato parallele a quelle della grande azienda, sino alla banalizzazione e quasi militarizzazione dei rapporti, stritolanti per l’individuo come narrato da tanti romanzi e film. Cambiano i tempi, cambiano anche i sogni, ma a quanto pare non cambiano in buona sostanza le antiche strategie integrate delle imprese tecnologicamente avanzate, sempre con l’obiettivo di tenersi stretti i cervelli creativi di cui si nutrono.
Ma come capiscono bene gli stessi uffici di ricerca di quelle imprese, coi piedi ben piantati per terra e nelle indagini di mercato, anche il sogno americano ha mutato pelle. Non più linde file di casette in cui passare le serate, dopo gli ingorghi della superstrada e i corridoi della grande impresa isolata in un parco, ma le mille soffuse luci di una città postindustriale. Come l’area di San Francisco, che nel volgere di pochi anni ha drenato tonnellate di neuroni dai quartierini dispersi nello sprawl della Silicon Valley, e da cui ogni mattina partono gli autobus privati che portano quei cervelli verso le aziende che non vogliono o non possono rilocazzarsi nel denso core metropolitano. E pur con la centralità del portafoglio sopra ogni cosa, pare davvero quasi olivettiana l’intenzione “comunitaria” di tante imprese della Valle, per offrire qualcosa di meglio ai propri dipendenti attuali e futuri.
Almeno è quel che si intuisce dalle linee generali di sviluppo economico dell’area così come tratteggiate dal Silicon Valley Business Journal, che attraverso interviste mirate a testimoni privilegiati delle principali aziende ricostruisce alcune tendenze di massima. Dalle dichiarazioni di questi protagonisti emerge, chiarissimo, l’impasto quasi inestricabile (almeno secondo loro e chi li ascolta) tra gli investimenti diretti nelle attività centrali di impresa, e ciò che offre o potrebbe offrire il territorio in termini di qualità della vita, ambiente, socialità. Potremmo quasi dire urbanità, visto il genere di politiche che si auspicano o sostengono, e che molte delle amministrazioni locali sembrano perseguire piuttosto seriamente. Ovvero basta con la schizofrenia dello zoning tradizionale che separa produzione, residenza, servizi, e largo invece al genere di composizione funzionale che spesso si coniuga con la sigla TOD. Insomma, se tutti i giovani talenti vanno ad abitare di preferenza a San Francisco, perché non offrir loro in loco qualcosa che gli assomiglia molto, e magari costa anche molto meno?
Sembra, a dire il vero, una specie di fotocopia delle formulette semplificate di Richard Florida prima maniera, o di certi opuscoli new urbanism più attenti all’immagine che alla sostanza, ma è certo che si nota l’esplicita divergenza rispetto al modello suburbano imperante da decenni. E risulta ancor più stupefacente l’insistere della Apple – a quanto pare culturalmente isolata da questo punto di vista – nel suo progetto di campus tradizionale suburbano isolato nel verde fuori da Cupertino, di cui sono già partite le fasi attuative secondo il megaprogetto di astronave progettata dallo studio Norman Foster. Mentre invece sia appunto le politiche urbanistiche locali che le scelte regionali in materia di trasporti collettivi (sostenute dai fondi statali per la qualità dell’aria e le emissioni climatiche), mirano a nodi densi, Transit Oriented Development, dove convivano case, uffici, scuole, servizi commerciali, collegati tra loro grazie al trasporto su rotaia, e al proprio interno soprattutto da reti pedonali e ciclabili. Resta da vedere se i progetti in corso riusciranno davvero a decollare e affermarsi come nuovo paradigma urbano e sociale, ma è certo che se esiste ancora un sogno americano, non è più identificabile nella casetta dei telefilm anni ’60. Magari anche per noi italiani, riflettere sul sogno olivettiano in questa prospettiva potrebbe aiutare.