Ci vuole il nuovo paradigma! Quante volte ce lo siamo sentiti spiattellare compunto davanti al naso, questo slogan tra il visionario e il cretino spinto? Lo usano in genere i profeti e i loro seguaci alla seconda o terza (se non prima) critica operativa al loro modello di stile di vita, o alimentazione, o assetto urbano, o modo di spostamento, quando appare abbastanza ovvio che la loro pensata non funziona nel mondo così come lo conosciamo noi, e non bastano i pannicelli caldi della buona volontà o della solita bicicletta pigliatutto. No: perché la loro pensata funzioni ci deve essere attorno il mondo del nuovo paradigma, ovvero una cosa assai diversa da quello che ci circonda oggi, e non si capisce mai se parlano davvero sul serio oppure fanno così per consolarsi, nello stile di tutte le beghine borbottanti preghiere confuse in latinorum sgrammaticato. Una delle pensate che aprono ahimè il varco a questa storia del nuovo paradigma, è l’apparentemente solidissima idea di agricoltura urbana, nel momento in cui la critica arriva, granitica e apparentemente inattaccabile, dall’approccio economico. Il quale dice in sintesi estrema: quanto vale potenzialmente il tuo campicello in città? Diciamo se lì sopra ci fai degli uffici, o un servizio urbano, o le normali casine e casone residenziali, quanto te lo valuta una banca per concederti qualche finanziamento? E a quanto dovresti venderli, per cavarci qualcosa di paragonabile, i pur fantastici asparagi o avocado che ci faresti crescere destinando tutti quei metri quadrati ad agricoltura urbana? È qui che scatta tra l’incazzato e il fideistico, la faccenda del nuovo paradigma.
Foglie di fico
E non c’è neppure bisogno di essere profeti o seguaci, né di usare alla lettera quella dizione, per cascare di fatto nel medesimo concetto: basta rispondere a muso duro, diciamo così istituzionalmente: ti voglio vedere, caro il mio economista di mercato, davanti a una normale destinazione d’uso urbanistica a verde agricolo, invece dei tuoi uffici abitazioni servizi metri cubi! Perché gli stiamo di fatto presentando una specie di nuovo paradigma virtuale, nascosto sotto la foglia di fico della gestione urbana corrente: quella superficie al massimo serve dal punto di vista ambientale, della salute, della qualità dell’abitare (come ben sanno gli amministratori e pure gli economisti da secoli), ma per farci prodotti agricoli proprio no, a meno che il valore di quei prodotti agricoli non sia per nulla agricolo-alimentare, ma simbolico-culturale, forse scientifico e didattico. Ma quegli asparagi, patate, fagioli, non sono fatti per essere mangiati, al massimo contemplati, come se fossero il monumento all’eroe nazionale fuori dalla stazione. E qui continua, pure con un pochino di sorrisetto di compatimento, il ragionamento del nostro spietato mercatista: io ti ho consentito, povero scemo, di piantare i tuoi ridicoli filari di fagioli, ma resta granitico al suo posto il ragionamento secondo cui il «valore» di quel luogo si calcola in modo relativo sia nella quantità di metri cubi urbani che ci potrebbe stare, sia in quella che per convenzione e regola tecnico-ambientale NON ci sta. E torniamo al punto di partenza: ci sarà mai una via di uscita diversa da quella più o meno religiosa del mitico invocare nuovi improbabili paradigmi?
Siamo alle solite: in città ci vogliono soluzioni urbane
Tutto è relativo, e diciamocelo, che se vogliamo schivare il ridicolo del nuovo paradigma il metodo migliore è proprio di evitare evocazioni di mondi diversi, restando coi piedi ben piantati nella nostra cara valle di lacrime attuale. Provando a migliorarla un pochino, e ci si riesce pure, a volte. Stiamo in città, e ragioniamo da cittadini, mica da contadini delle barzellette che anche in mezzo a semafori e fermate dell’autobus fantasticano di mucche al pascolo nella rotatoria e filari di verze tra le due corsie dell’arteria principale. Siamo seri. Prendiamo il toro per le corna e ragioniamo come il nostro ragioniere del valore di mercato, partendo però dalla prima obiezione, quella delle destinazioni d’uso urbanistiche, e applicandola a grande scala a superfici e volumi di tipo produttivo, che certo in città abbondano. Qui dovrebbe cascare come un somaro lui, se gli parlassimo di «mercato» non in senso artificiosamente speculativo, ma di domanda offerta di spazio cittadino di qualità, per attività cittadine utili e in grado di produrre profitto: queste sono da sempre state quelle zone industriali, col solo rovescio della medaglia dei noti impatti ambientali. Oggi i medesimi livelli produttivi, di utilità generale, di occupazione qualificata e media, si possono raggiungere con una destinazione agricolo-tecnologica delle medesime superfici e volumi. Davanti a dati semplici come quelli del valore aggiunto di una vertical farm operante a regime, di un centro studi agricolo ambientali con annessa produzione o analoghi, il nostro ragioniere perderebbe tutta la sua boria, magari evocando lui, il suo «nuovo paradigma» degli speculatori che pretendono di manipolarlo, il mercato. Teniamole presenti tutte queste cose, leggendo il provocatorio articoletto di Forbes allegato.
Riferimenti:
Tim Worstall, Urban Farming Is A Ludicrously Stupid Idea, Forbes, 4 luglio 2016