Con l’urbanistica si mangia

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Foto: M. B. Fashion

Fra le tante cose curiose, e piuttosto goffamente contraddittorie, del dibattito corrente sulle città, c’è il loro aspetto «alimentare». Emerso ad esempio al più alto ed esplicito livello alcuni anni fa nello scontro mediatico e culturale fra il gruppo di urbanisti-architetti responsabili del master plan del sito Expo 2015 e le autorità del Bureau International des Expositions: vogliamo proporre l’immagine ecologica di un orto globale, dicevano gli urbanisti; macché, un’aiuola di melanzane non interessa a nessuno, ribattevano bruschi dal BIE, il concetto è invece quello di un ristorante-negozio molto tecnologico e sostenibile. Come sia andata a finire, lo possono verificare in questa estate 2015 le migliaia di visitatori che si affollano tra i padiglioni nazionali, ma il tema resta comunque tutto aperto, perché entrambe le opinioni non solo sono rispettabilissime, ma neppure si escludono l’una con l’altra.

La città-territorio

Il concetto di market town riassume forse nel modo più semplice e schematico la convivenza un tempo naturale di questi due lati della medaglia. Appare molto sistematizzato già in quei passaggi della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, dove si legge che la città vive di continui scambi di flussi col territorio rurale circostante, anzi si tratta di una entità unica. E non dobbiamo cascare nell’errore di «vedere» solo flussi economici, visto che si tratta del fondatore dell’economia moderna: lui sta anche descrivendo la città del suo tempo, in cui sono indissolubilmente legati il territorio urbano e quella cintura agricola di riferimento che gli dà da mangiare, in due modi distinti e complementari: quello degli urbanisti e quello dei responsabili BIE. Il primo si riferisce all’equilibrio fra spazi totalmente artificiali, che non respirano e non vivono, e spazi parzialmente o totalmente naturali, che scambiano acqua, aria, lasciano crescere alimenti, costruiscono una rete di continuità (oggi le chiameremmo infrastrutture verdi) fra la grande concentrazione urbana e l’ambiente aperto della campagna. Il secondo è quello dei sistemi di trasformazione, gestione e distribuzione dei prodotti della campagna, o delle colture complementari intra moenia, ovvero di piazze del mercato, botteghe, laboratori dove si fa la marmellata, fornai, mulini. Insomma ben altra cosa, rispetto all’artificiosa contrapposizione fra l’orto planetario e il supermarket globale, così come emergeva dallo scontro mediatico-simbolico degli urbanisti col BIE.

Deserti, oasi, reti

Quello che è accaduto dopo l’epoca di Adam Smith (che pure aveva i suoi bei problemi anche lei, da tanti punti di vista) è che le tecnologie esplose con lo sfruttamento del vapore e poi di altre energie, hanno dilatato infinitamente lo spazio, squilibrando quel che originariamente stava per forza in una logica di prossimità e relativo equilibrio. Non solo nella piazza del mercato oggi arrivano cose – commestibili e non – da migliaia e migliaia di chilometri, senza alcun rapporto di continuità col territorio locale, ma anche la stessa piazza, il laboratorio, il forno, a volte il luogo di consumo degli alimenti, finiscono per trovarsi a distanze impossibili. Come quando accade che le spinte del sedicente «libero mercato» desertificano enormi aree urbane, prima da campi, orti, produzione alimentare di base insomma, e poi da qualunque forma di distribuzione non sia immediatamente conveniente per le economie specifiche degli operatori. Aree abitate da decine di migliaia di persone, dove non si trova per chilometri e chilometri nulla da mangiare, salvo merendine industriali, bevande gassate, cose da distributore automatico notoriamente micidiali per la salute. Il che rinvierebbe a sua volta a un altro aspetto di squilibrio, tra vita e mercato, ma proviamo a restare dentro alcuni binari logici gestibili. Come si esce, dai cosiddetti food desert e dalla logica da cui spuntano? Sicuramente ricostruendo una rete multipla, composta sia dagli aspetti ambientali produttivi dei campi, degli orti, delle infrastrutture verdi e magari vertical farm, sia (non mangiamo mica granaglie grezze e simili) dalla filiera funzionale e spaziale della trasformazione, distribuzione, ristorazione eccetera.

Una delle questioni urbanistiche-alimentari

Ecco, mentre tanto si parla di campi o orti urbani, forse meno attenzione viene riservata a questo fondamentale apporto, liquidandolo come «commerciale» mentre invece solo una lettura distorta può considerarlo così. Per esempio qualche anno fa nel mandato Bloomberg l’amministrazione di New York, coordinata dal Planning Department, aveva presentato una impietosa radiografia sulla diffusione del commercio alimentare. Emergeva come il libero mercato urbano-immobiliare-commerciale da solo non fosse in grado neppure …. di far andare la gente al mercato. Ovvero, nella Grande Mela mancavano in modo grave e a volte drammatico gli esercizi alimentari, banalissimi supermercati o botteghe di quartiere, negozi d’angolo, in grado di mettere a disposizione frutta e verdura fresca, uova, carne, pesce, latte, insomma tutto quanto serve per prepararsi un buon pasto in casa.

Il risultato di tale condizione? Nei casi migliori, in cui cioè le condizioni sociali, culturali, urbanistiche, lo consentono, gli abitanti di alcuni quartieri sottoserviti si spostavano (e ancora si spostano, spesso in macchina) verso altre zone, interne o esterne alla città, per fare anche piccole spese. In quelli peggiori, specie per le categorie svantaggiate, si apriva la prospettiva della spirale discendente rappresentata da un’alimentazione sbagliata sin dalla più tenera età, fatta di fast-food, cibi industriali e conservati, relative patologie come obesità, problemi circolatori, e anche una spesa alimentare più elevata.

Da qui nasce il programma FRESH (Food Retail Expansion to Support Health) che mira a sostenere sia sul versante urbanistico-edilizio che su quello dell’animazione sociale la diffusione più capillare degli esercizi alimentari di quartiere.
Lo fa ad esempio introducendo varianti ad hoc nelle norme di zona, come ad esempio quelle sui requisiti minimi di parcheggio, che tra l’altro migliorano anche un altro aspetto legato alla salute dei cittadini, e alla sicurezza, ovvero la fruibilità pedonale dei quartieri. Pensiamoci, in tutto il mondo e nelle varianti locali del tema, quando guardiamo con indifferenza ampie zone delle nostre città espellere via via le vecchie botteghe, non per sostituirle con nuove e simili, ma per riempire quei vuoti con sportelli bancari, abitazioni spesso sfitte o poco utilizzate, negozi e servizi esclusivamente voluttuari rivolti a fasce elitarie. E pensiamoci anche quando abbastanza sbadatamente pensiamo che «mangiare» voglia dire chissà perché lanciarsi a capofitto in un campo di grano. Si mangia anche, e soprattutto, la politica urbana, mica le spighe grezze.

Riferimenti:
City of New York,
F.R.E.S.H. 2008, presentazione originale inter-dipartimentale del progetto tradotta in italiano, scaricabile direttamente da Google Drive Città Conquistatrice (chi volesse usare i materiali in tutto o in parte, è come sempre vivamente pregato di citare in modo esatto la fonte: www.cittaconquistatrice.it )

 

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