Alla faccia del libero mercato, della libera scelta e compagnia bella. Quante volte siamo perfettamente convinti di agire secondo una consapevole selezione tra varie modalità, tutte lì belle in fila davanti al nostro critico naso, come confezioni di formaggini sullo scaffale del supermercato? E però, proprio continuando con la metafora dei formaggini al supermercato, non ci appare per nulla chiaro né il prima (come e perché mai siamo capitati in quella scansia e non altrove dove pure di formaggini se ne trovano), né il dopo, ovvero quale formaggino finiremo per scegliere, e con quali criteri e condizionamenti. Lo stesso accade, a maggior ragione, con le grandi scelte della vita, quelle che ci paiono davvero esistenziali, il vero succo del libero arbitrio individuale, e invece vai davvero a vedere alla radice, e c’è a dir poco da vergognarsi. Quali sono queste grandi scelte della vita, è facilissimo riassumere: abitare, lavorare, coltivare relazioni, roba da cui poi discende tutto il resto. Anzi possiamo dire che è la prima, l’abitare (il dove il come e il perché), ad avvolgere di modo e senso il resto, a dar significato e sostanza a cose come i tempi della giornata, quanto se ne dedica a sé stessi, agli altri, la salute, lo stress, le possibilità e opportunità di fare cose varie. Ci abbiamo davvero pensato così liberamente e senza pregiudizi, nel momento delle grandi scelte, davanti a quella scansia di formaggini esistenziali?
Era il giorno del controllo assoluto …
C’è un giovane, che ha appena concluso gli studi, e si trova a «pianificare il futuro»: un’abitazione, un’attività, uno stile di vita, un nuovo metabolismo esistenziale che a sua volta aprirà altre prospettive e scelte. In una logica da sogno dello sviluppo infinito, lo scenario ideale, la Nuova Frontiera della Vita, che classicamente per quanto riguarda i giovani vede brillare all’orizzonte le mille luci della metropoli, il paese dei balocchi dove si può anche fare il fabbricante di giocattoli, o il commerciante di pupazzi, o tante altre cose analoghe. Ed ecco che il giovane là dentro si va a collocare, imbevendosi di insegne al neon, tintinnii di carillon, spumeggiare di bevande alla spina nei luoghi di ritrovo, scambio, relazioni, dove riesce anche a trovare una sua nicchia tranquilla di intimità, dove coltivare rapporti diversi o semplicemente stare in pace. Abita la casa, abita la metropoli, tutto va nel migliore dei modi (stiamo descrivendo uno scenario da sogno, non scordiamolo), finché arriva un altro traguardo, anagrafico, naturale, fisiologico: smettere di essere solo un individuo, e fare il vero debutto in società formandosi la classica famiglia con figli. Questo ovviamente cambia il senso della parola «abitare», e anche il senso dell’atto di abitare: serve una nuova abitazione, non c’è nulla di strano. La cosa strana, però, davanti a quest’altra scansia di formaggini della «libera scelta», è che se provassimo a guardare un po’ più da vicino il prima e il dopo, faremmo delle brutte scoperte quanto a condizionamenti pesanti, spropositati.
Sliding doors
Leggenda vuole che la giovane famiglia debba forzosamente cercarsi la mitica casetta nascosta in mezzo al verde, unico possibile nido per allevare i passerotti e crescere tutti felici e contenti. Una leggenda così salda che ci sono intere scuole di demografia e commercio basate su quell’ineluttabile destino: si raggiunge la soglia fatidica, e si fa tutto il resto, è la natura baby! Se però proviamo a porci la domanda da un’altra prospettiva, non può non apparire la logica delle sliding doors, delle alternative per nulla ineluttabili anche senza troppo sottilizzare. Quella casetta, che poi significa isolamento individuale e familiare, lungo pendolarismo coatto, spese, consumi, esclusione di tante altre opzioni, uscita di fatto dal mercato delle occasioni metropolitane, perché è così ineluttabile? Ci risponde il «libero mercato», che solo così si garantisce, almeno a un prezzo accessibile alla giovane famiglia, tutto lo spazio necessario per vivere, il verde dei piccoli, gli accessori indispensabili della nuova esistenza. E se (pur senza immaginarsi sanguinose rivoluzioni a obliterare i mercati, si intende) provassimo a ridistribuire opzioni, equilibrio di spazi e servizi, ripartizione della spesa familiare, non otterremmo un risultato completamente diverso? In fondo c’è chi in città ci abita da sempre, e sono coloro che non possono farne a meno, ovvero i poveracci in affitto nei complessi popolari. Che però quando escono da lì trovano verde pubblico (migliorabile), spazi pubblici serviti (da rendere più puliti e sicuri), scuole meno segregate che nei paeselli agresti (più stimolanti nella formazione dei giovanissimi cittadini futuri). Tutte cose che la giovane famiglia potrebbe contribuire a migliorare, anche pagando le tasse in città, invece che nel lontano suburbio verdeggiante. Si tratta solo di pensarci: quel supermercato non è l’unico, e di formaggini se ne trovano ovunque, si chiama «politica», e non è affatto una cosa sporca, se la si tiene pulita.
Riferimenti:
Laura Lorenzetti, America’s Urban Population Boom Is Slowing Down, Fortune, 19 maggio 2016