Gli ostacoli posti dalle pratiche partecipative e riguardanti il personale addetto, tempo e risorse dedicate, il grado di soddisfazione dalle decisioni prese con questo metodo, costituiscono un aspetto particolare della partecipazione. In genere si presume che introdurre strategie partecipative dei cittadini rappresenti un contributo al processo democratico, un vantaggio per la trasparenza delle decisioni, anche se non è stata dedicata sufficiente riflessione agli aspetti sia teorici che pratici di alcune contraddizioni. La questione non è quella di introdurre aspetti partecipativi o no nelle decisioni, ma se i vantaggi che ne derivano superano e di quanto gli inevitabili problemi. Per dirla con gli autori che hanno affrontato il tema: si tratta di capire sino a che punto partecipare sia meglio che non partecipare.
In fin dei conti l’aspetto critico è se sia possibile e auspicabile promuovere un significativo livello di partecipazione dei cittadini nel contesto di processi soprattutto istituzionali, amministrativi, specialistici, politici, o addirittura se orientare così le decisioni modificando in quel senso i processi porti qualche vantaggio alla comunità. Il rilievo più critico a tale proposito suona: ci sono documentati casi di partecipazione pretesa per modificare il sistema delle decisioni, in cui non necessariamente si cerca una maggiore democrazia, ma principalmente di soddisfare fanatismi ideologici incompatibili con i normali processi di trasformazione sociale. Gli ostacoli che considereremo nei paragrafi seguenti non si limitano agli aspetti e processi della trasformazione urbana e territoriale, sono più generali e riguardano la partecipazione alle decisioni in relazione a tre gruppi di soggetti: la triade costituita da cittadini, personale tecnico-amministrativo, politici eletti.
IL PROBLEMA DEL PERSONALE ADDETTO
Se si vogliono sviluppare programmi di partecipazione dei cittadini e mantenerli attivi ed efficienti esiste un evidente bisogno di personale particolarmente qualificato. Ci si riferisce qui in particolare al bisogno di esperti in politiche urbane per il ruolo che occupano, intermedio tra il cittadino a cui vengono prescritte regole e il politico che quelle regole le decide; che questo esperto venga scelto dall’amministrazione o dai gruppi di cittadini, il suo ruolo e funzione restano centrali per il processo democratico. Ma c’è anche il dubbio che esperti del tipo citato siano i meglio qualificati per quel ruolo nel «gioco partecipativo». Quindi meglio che si tratti di personale qualificato in politiche urbane tecnicamente competente, con sensibilità politica, psicologica, portato per questa funzione. Possiamo delineare tre tipi di mediatore urbano. In primo luogo esiste lo spazio delle pubbliche relazioni, di chi è versato a buona parte se non tutte le articolazioni degli aspetti comunicativi: parlare, convincere, stimolare, redigere documenti e considerare dati, sviluppare relazioni interpersonali e così via. Qualcosa di simile a un addetto stampa di alto profilo ma con una maggiore padronanza degli aspetti tecnici del tipo di questioni da comunicare. Il secondo genere di mediatore urbano possiamo definirlo delle «politiche partecipate, con competenze sia tecniche che di relazione, in grado di rappresentare sia gli uffici amministrativi che i cittadini. Una figura difficile da trovare con caratteristiche così: scorza dura, pazienza senza confini, resistenza e tatto, pieno controllo disciplinare e etico sulle trasformazioni urbane. Il terzo tipo è invece quello ben definito del classico advocacy planner che sostiene soprattutto le ragioni e istanze dei cittadini.
Una serie di casi studiati di pratiche correnti di programmazione evidenziano lacune; una delle più gravi senza dubbio l’insufficiente preparazione specifica per la partecipazione, che va ben oltre l’inadeguato controllo delle tecniche dei sistemi o dei modelli matematici. Considerando la necessità di partecipazione parte integrante della pianificazione e programmazione è stato compilato un catalogo delle qualità e caratteri indispensabili per i suoi mediatori urbani insediati nell’amministrazione cittadina. Qualunque amministrazione municipale seriamente interessata al tema della partecipazione, dovrebbe attrezzarsi rafforzando il proprio personale. Le trasformazioni urbane sono cosa troppo complessa perché l’aspetto della partecipazione e la figura del mediatore possano essere delegati a chi si occupa correntemente di generiche pubbliche relazioni o informazioni al pubblico. E sarebbe irragionevole aspettarsi da una persona incaricata di occuparsi della partecipazione di possedere davvero tutte le competenze e capacità necessarie: occorrono figure di complemento per esempio nella comunicazione grafica, scrittura di relazioni in termini non gergali specialistici che facciano comprendere i documenti ufficiali. Le ricerche indicano come peculiari i caratteri di (a) maturità professionale, (b) accettazione locale, (c) libertà di azione, (d) credibilità, (e) carisma personale.
Certo è anche possibile che alcune amministrazioni locali che varano programmi partecipativi siano effettivamente dotate di queste specifiche competenze e figure; ma probabilmente ciò accade per caso, dato che le scuole non formano affatto gli studenti per quelle capacità, e i funzionari che occupano le posizioni decisive si sono formati in un periodo precedente all’attuale interesse per la partecipazione dei cittadini. A complicare ulteriormente le cose, in molti uffici si ignora quale genere di competenze siano più adeguate al ruolo.
Prima di impegnarsi in qualunque piano a qualunque livello, occorre quindi coscienziosamente: (a) valutare le disponibilità di personale rispetto alle necessità specifiche, (b) selezionare le competenze adeguate a prendersi tutta questa responsabilità, (c) colmare le lacune. Organizzare l’ufficio che dovrà gestire il processo partecipativo è un preciso dovere dell’amministrazione, coerente allo spirito di una risposta efficace ai bisogni così come prevede la legge; oltre che un obbligo morale di farlo con le dovute competenze e personale. Le politiche urbane sono così importanti per la comunità da non tollerare alcun improvvisato pasticcio. Ed ecco descritto brevemente il primo grave ostacolo che incontrano la maggior parte degli uffici di fronte alla partecipazione dei cittadini: l’impossibilità di mettere a disposizione personale adeguato, a meno di incrementare significativamente qualità e quantità degli specialisti.
IL PROBLEMA DEI COSTI
I programmi di partecipazione comportano parecchio impegno anche di bilancio, tempo e soldi. La Commissione Skeffington del 1969 era ben consapevole della questione costi, ma si dimostrò piuttosto restia a redigere linee guida specifiche per quell’aspetto. Per esempio rifletteva sul fatto che un affidabile elemento di valutazione dei costi potesse essere per gli uffici responsabili un calcolo fatto su popolazione, area, risorse finanziarie generali, anche se la questione si faceva assai più complicata considerando la grande diversità delle situazioni e degli obiettivi. Nell’Appendice al Rapporto finale venivano proposti due casi, poi citati brevemente in paragrafi successivi, ma l’idea della Commissione era semplicemente che «vale sempre la pena di spendere soldi per accrescere la consapevolezza delle trasformazioni».
Oltre ai costi di cui si dovrebbe far carico l’amministrazione per le proprie attività di ufficio, la Commissione Skeffington considerava la possibilità di quelli dei gruppi di cittadini partecipanti. Costi aggiunti che potrebbero rappresentare un ulteriore argomento per chi si oppone ai processi partecipativi. Prezzi da pagare prevedibilmente per (a) l’ingaggio di specialisti e consulenti o il rafforzamento della squadra esistente per affrontare il maggior carico di lavoro per le relazioni; (b) l’allungamento dei tempi, compreso quello artificiale manipolato, entrambi con dei propri costi; (c) la necessità di curare e produrre pubblicazioni particolari, sia di invito al dialogo, sia di esplicitazione di punti di vista; (d) l’eventualità di situazioni in cui si rende necessario qualche «rattoppo» imprevisto e che comporta ulteriori costi; (e) la scelta di fare qualche sperimentazione di metodo, vuoi comunicativo attraverso i canali convenzionali, vuoi più innovativo attraverso media diversi e pubblicazioni; (f) l’uso di spazi fisici aggiuntivi (o del tutto nuovi) per chi lavora al programma, il deposito materiali, le comunicazioni.
Le spese per i programmi di partecipazione sono probabilmente condizionate da una serie di variabili che interagiscono tra loro. Ad esempio in principio conta l’adesione all’impegno partecipativo, alla sua filosofia, l’accettazione o meno totale dell’investimento necessario considerato inevitabile per un processo corretto. Poi con l’esperienza le cose possono cambiare magari seguendo la logica contabile del Value for Money se i livelli di partecipazione sono stati bassi e sostanzialmente di opposizione. E si capisce poi se un’amministrazione pubblica diventi riluttante ad impegnare tante risorse dei contribuenti per costruire una struttura poi sfruttata da gruppi locali che si considerano poco rappresentativi. Va precisato comunque che nella contabilità dei processi di partecipazione spesso si omettono i costi di materiale e lavoro calcolati nell’attività corrente, o li si calcola due volte.
Nelle ricerche citate dalla Commissione Skeffington, pare che il calcolo di 44 ore uomo per il programma di Coventry Potters sottovaluti i tempi di preparazione e quindi i costi, oltre ad escludere quelli per i materiali considerati separatamente. Anche i due altri casi studiati della Hampshire County e di Liverpool, evidenziano le grandi variabili di costo tra ore-uomo, affitto degli spazi per le presentazioni, materiali da mostra, pubblicità sui media, viaggi e consulenze, riproduzioni dei materiali per esposizioni contemporanee in vari luoghi.
In molti uffici si è provato a ridurre le spese complessive di un programma di partecipazione calcolandole in realtà pro-capite, ma si tratta di un esercizio di scarsa utilità, non solo per via degli effetti psicologici ovviamente negativi su chi partecipa per le istituzioni – in genere il calcolo così li penalizza – ma perché si esclude a priori il coinvolgimento di non partecipa attivamente e non rientra nei calcoli, ma è stato raggiunto da pubblicità e divulgazione, informandosi sul tema, o diventando consapevole di ciò che accade e accadrà, altri ancora incoraggiati a partecipare in futuro alle attività. Non è neppure escluso che in caso di programmi che richiedono prolungata presenza dei partecipanti si prevedano dei rimborsi. Di solito i datori di lavoro concedono permessi speciali per gli eventi di partecipazione ma ciò ha dei costi finanziari; può diventare necessario anche un sistema di rimborsi viaggio o altre spese particolari a controbilanciare guadagni mancati, o accordarsi con gli uffici per un contributo.
L’intera questione dei costi della partecipazione è quindi complessa, ma è probabile che la consapevolezza si evolverà man mano i partecipanti con l’esperienza diretta diventeranno in grado di quantificare in termini monetari le spese sostenute per le attività indispensabili a un processo dotato di senso. Al momento attuale mancano dati sui costi reali della partecipazione e il motivo è la difficoltà di distinguere i costi di ufficio tra i vari aspetti, per esempio separando quelli del settore urbanistica da altri e verificando se esiste addirittura il tentativo politico di confondere strumentalmente quei costi. Abbiamo dedicato gran parte della breve dissertazione sui costi agli uffici pubblici, ma la predisposizione di un bilancio pare assai più semplice per i componenti dei gruppi di interesse partecipanti, delle professionalità coinvolte, del tempo e denaro impiegato. Siamo certi che se esistesse una maggiore consapevolezza delle spese necessarie ad attivare un adeguato processo di partecipazione, si comprenderebbe molto meglio l’ostacolo che ciò può costituire, e valutare il rapporto favorevole costi/benefici di questo metodo di decisione pluralista.
IL PROBLEMA DEI TEMPI
Una importante ricerca individua il fattore tempo come il più importante degli ostacoli a una buona partecipazione. Gran parte delle politiche urbane si svolgono su tempi troppo brevi e insufficienti a consentire il conseguimento degli obiettivi di soddisfacenti analisi, consultazioni, fasi costruttive e di valutazione. Per raggiungere obiettivi coerenti e farlo sistematicamente, ci si affida sempre più a criteri di valutazione per schemi, percorsi critici, reti di gestione. Nonostante i tentativi di razionalizzare il processo decisionale, di scandire nel tempo le azioni necessarie, introdurre la partecipazione dei cittadini ha reso necessario un prolungamento delle varie fasi, o addirittura gravemente impedito l’idea di flusso continuo ed efficiente da una fase all’altra, determinando salti bruschi. Esiste la necessità, se si vuole continuare coi processi partecipativi, di trovare uno schema temporale più aperto.
Come con la precedente analisi del problema dei costi, mancano analisi davvero sistematiche degli effetti della pazienza in partecipazione, anche se tutti considerano che questo contributo dei cittadini faccia allungare i tempi della decisione. Detto semplicemente, non è affatto necessario che sia così, se effettivamente i tempi si contenessero a quanto è necessario invece di allungarli strumentalmente per qualche motivo. È stato scritto che più partecipazione concessa al pubblico, più lunghi i tempi della decisione: «Finché il Signor Cittadino non sarà pienamente formato e consapevole della sua scelta di partecipare, ci saranno anche gravi rinvii a causa del suo intervento» (D. Heap, «Ambience and Environment The Shape of Things to Be», Journal of Planning and Environment Law, aprile 1973). Le decisioni di trasformazione urbana sono spesso criticate per la loro lentezza; chi ha maggiore familiarità con quei tempi normali e i loro eventuali rinvii può anche capire certo nervosismo, ma chi partecipa senza esperienza tende all’esasperazione, derivante dal non comprendere quanto sia intricato il processo, di quanto ampia possa diventare la distanza tra la promessa e la sua realizzazione. Coinvolgere i cittadini in qualcosa che non sia proprio «azione» ma il prepararsi a una azione, è certamente una difficoltà, per tutti, partecipanti e altri. E ciò conferma la citata necessità di formazione alla consapevolezza. Quasi tutti concordano sul fatto che le decisioni sulle politiche urbane si debbano accelerare anziché ulteriormente rallentare introducendo una lunga e complessa serie di consultazioni, e a questo proposito sono state introdotte misure normative e non per una maggiore fluidità. Perché il prolungarsi del processo decisionale può danneggiare tutti, l’incertezza aggravare il degrado su cui si voleva intervenire, essere di svantaggio alla comunità che spera in un intervento sempre più lontano. Secondo alcuni è sperabile che i cittadini nella loro formazione al coinvolgimento partecipativo vengano resi consapevoli dell’importanza di un approccio non oppositivo ma propositivo alla trasformazione proprio per contribuire ad accelerare le fasi verso la decisione.
L’ostacolo tempo agisce secondo varie dimensioni. In primo luogo e nel modo più semplice, il fatto di coinvolgere una massa di persone inevitabilmente prolunga il processo decisionale; secondo, data la natura di dialogo della partecipazione, di scambio, l’interazione e revisione ciclica inevitabilmente frammentano, rendono incerto e discontinuo il processo; terzo, c’è la necessità di un determinato periodo in cui i partecipanti possano metabolizzare le informazioni ricevute e organizzare qualche forma di replica; quarto, durante questa fase di metabolizzazione altre parti del processo decisionale potrebbero procedere per conto proprio, producendo uno sfasamento che appare come ulteriore rallentamento visto dalla prospettiva degli uffici; quinto gli uffici devono rispondere a ciascuna singola osservazione; sesto, probabilmente meno consapevoli dell’urgenza di decidere e far procedere le varie fasi, i partecipanti anche senza volerlo rallentano il processo solo rinviando la propria risposta, e accumulandole tutte all’ultimo momento se è stata fissata una scadenza. Alla base di tutti i problemi di tempo c’è la probabilità di un basso livello di competenze da parte dei partecipanti che ostacola l’accelerazione del processo decisionale; e oltre all’acquisire conoscenze specifiche sulle politiche urbane a cui si sta partecipando emerge chiaramente la necessità di una conoscenza più generale, se si vuole che il contributo dei cittadini sia razionale e consapevole.
Alcuni studiosi esaminando casi di esperienze partecipative ammettono che alla fine i progetti non ne escano gran che modificati nonostante tutto l’impegno a discuterli tra i cittadini coinvolti; e di conseguenza che sia il decisore urbanista a guadagnarci davvero allargando il proprio campo di visione, invece delle persone comuni da cui ci si aspettava più consapevolezza dell’interesse collettivo, specie nelle trasformazioni urbane. Una situazione molto diffusa questa e riscontrata dalle pratiche, e che si traduce poi nel burocratizzare le varie fasi e passaggi decisionali mettendo fretta ai cittadini volontari e loro associazioni senza adeguato esame dei problemi e della documentazione. Si tratta ovviamente di un espediente, che pur contrario allo spirito originario democratico e all’intenzione della stessa Commissione Skeffington, dipende dai limiti di tempo. Lo spettro di una estensione all’infinito del processo, dei rinvii dovuti all’esame e riesame per introdurre modifiche paragonabili al tempo e denaro investiti, al lavoro e alle aspettative, diventa un deterrente a non andare oltre le forme minime di partecipazione. Né gli uffici, né i partecipanti cittadini, possono davvero sviluppare nel tempo consentito un programma dotato di senso autentico, e così il percorso più logico diventa quello formale accettato.
EFFICIENZA DEL SISTEMA DI DECISIONE
Gran parte degli studi a scala nazionale europei sulla partecipazione esaminati concordano sul fatto che efficienza nella decisione e partecipazione non sono affatto antitetiche; al contrario c’è la diffusa opinione secondo cui in una democrazia non si possa mai ignorare un contributo dei cittadini. In molte ricerche si citano invece gli ostacoli e la demotivazione derivanti dalla presenza di molti centri decisionali, spostando così la questione dell’efficienza al piano del coordinamento; di cui sono strumenti proprio i cittadini partecipanti. La partecipazione viene considerata, soprattutto da parte degli «esperti», come elemento che comunque mette alla prova e prolunga il processo decisionale.
Il carico principale si avverte nelle fasi di compromesso e formazione del consenso. È stato osservato che una delle condizioni cruciali di una programmazione di lungo termine è sviluppare un consenso diffuso tra i cittadini, e che il veicolo di questo sostegno sia di norma la disponibilità al compromesso per l’interesse collettivo. Certo è aperta la discussione sul fatto che il compromesso possa essere o meno il massimo della saggezza politica in una democrazia. Formazione del consenso e compromesso possono anche non sfociare nei migliori risultati di decisione, se sono alimentati da frustrazione e desiderio di evitare tempi troppo prolungati. Ben tre studi su casi nazionali individuano una causa particolare di tale frustrazione: qualunque processo decisionale che comporti la partecipazione di individui o gruppi che cercano obiettivi oltre le proprie capacità, o fornisce l’occasione di un dialogo di basso profilo, scoraggia sia chi scopre in quel modo le proprie lacune, sia chi è costretto ad abbassare il livello. La tensione è uno dei modi di manifestarsi delle decisioni partecipate. Concessioni derivanti da compromessi in genere indotti dall’insistenza di gruppi minoritari (anziché della maggioranza) difficilmente porteranno a una decisione equa.
Rispetto a questo squilibrio, lo studio nazionale sull’Irlanda insiste molto sul fatto che la partecipazione abbia condotto a modiche o blocco totale di piani o progetti «ufficiali» – secondo un processo di coinvolgimento in negativo – anziché contribuire allo sviluppo delle proposte. E il rapporto sulla Spagna aggiunge che la risposta dei cittadini all’occasione che si presenta è molto passiva, «minore alla volontà delle istituzioni locali di coinvolgerli». Certo il meccanismo decisionale in materia di trasformazioni urbane e del territorio si è fatto così complicato da rendere la partecipazione di cittadini non specialisti a volte impossibile, a volte poco auspicabile. Le discipline tecniche e organizzative di continuo sfornano nuovi strumenti di sostegno a una decisione informata, in forma di macchine o conoscenze, ma si tratta di strumenti non sempre adatti alla partecipazione, se cittadini e gruppi non sono in grado di interagire con quei sistemi.
Certo, nessuna tecnica o macchina è mai stata in grado di risolvere le poco strutturate dinamiche di interazione di un pubblico non specializzato, trasformandole in utili e coerenti strumenti conoscitivi e di opinione. Dunque anche con l’attuale grande sviluppo di tutti questi sofisticati sostegni alla decisione, gran parte delle procedure di consultazione col pubblico non specializzato restano piuttosto rudimentali e diffidenti. Quanto rudimentali lo si può verificare dai modi in cui si arriva al compromesso e al consenso; per esempio (a) dopo il cedimento di alcuni partecipanti alla frustrazione di rinvii e incertezza, accettando la scorciatoia del compromesso e della concessione; (b) dopo lo scontro di punti di vista tra i vari protagonisti e l’emergere di un vincitore tattico (e del suo punto di vista) grazie al ritiro di spunti diversi; (c) a seguito del ripensamento di una serie di decisioni quando una è stata modificata e distorta da pressioni; (d) per prevenire l’emergere di questioni particolari o sensibili che potrebbero pregiudicare vuoi il tema in discussione, vuoi altri equilibri. In queste e altre situazioni simili, c’è una forte probabilità che la decisione verrà presa con criteri di espediente politico anziché razionali.
da: Citizen Participation in Planning, Pergamon Press, 1977; estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini